Virus H5N1, influenza aviaria

Se il terrore corre sull'ala di un pollo

La «spagnola» fu chiamata così non perché la Spagna fosse sede del focolaio principale, ma perché quel paese non era in guerra e i suoi giornali erano autorizzati a parlare dell'epidemia.
Tra allarme che cresce e prevenzione che latita, la lezione che la natura ci impartisce attraverso il volo degli uccelli selvatici che migrano alla ricerca di risorse e di un habitat idoneo

Il 6 agosto scorso i media ricordarono che erano passati esattamente sessant'anni dall'ecatombe atomica di Hiroshima, provocata dalla bomba A sganciata dal bombardiere americano Enola gay. Qualcuno recepì il messaggio con interesse e ne fece spunto per qualche amara riflessione sulla situazione geopolitica del pianeta. Molti - forse troppi - reagirono con indifferenza, un po' perché l'atomica non fa più notizia, un po' perché la nostra specie pare sia avvezza da sempre ad aspettarsi il peggio dal cielo per cui, non essendosi ripetuto altrove un simile evento epocale, si pensa (non a torto, speriamo) che disastri atomici non si verificheranno mai più; un po' perché a far paura è sempre e soprattutto la minaccia di un pericolo che incomba qui e adesso. A dirla in breve, il rischio, che nessuno può d'altronde escludere, che l'attuale epidemia dell'influenza dei polli o aviaria si trasformi rapidamente in una malattia a diffusione planetaria, vale a dire in una «pandemia», quale fu la spagnola che, tra il 1918 e il 1919, provocò in Occidente oltre venti milioni di morti. Dalla ridda di notizie, precisazioni, allarmi che ha contrassegnato tutto il mese di ottobre è emerso almeno un dato certo: il virus che infetta i volatili domestici è portato dagli uccelli selvatici nei loro flussi migratori stagionali. Di qui il terrore di una vera e propria «bomba aviaria» o, per meglio dire, di miriadi di bombe microscopiche (virus) veicolate da «stormi di uccelli neri» dove «neri» non illustra il colore delle piume degli animali, quanto il loro ruolo di portatori di una morte (universale) annunciata. Che fare? Per noi destinatari dei media e futuri utenti del vaccino ad hoc parrebbe esserci ben poco da fare: attendere e, nel frattempo, seguire banali norme igieniche quali non mangiare uova crude, non toccare il pollame a mani nude, cuocerlo bene, ecc. Ma, forse, qualcosa altro da fare c'è: capire di che cosa si sta parlando, sceverando l'informazione essenziale da quanto dicono gli addetti ai lavori. Conoscere e capire è sempre, crediamo, l'approccio giusto per avere un comportamento ragionevole in caso di malattie infettive e, chissà, se la fortuna soccorre, per stimolare nelle autorità sanitarie l'adozione di condotte mirate e responsabili.

Virus e pennuti

Per rispondere a questo interrogativo, dobbiamo prima chiederci: che cosa è l'influenza? Sappiamo tutti, per averla provata almeno una volta sulla nostra pelle, quali sono i suoi segni e sintomi: febbre alta, spossatezza, dolori muscolari, probabili complicazioni broncopolmonari e spesso disturbi gastrici. Almeno nelle sue prime avvisaglie somiglia al banale raffreddore, ma anche il più sprovveduto dei malati sa, per averne fatta diretta esperienza, che l'influenza è tutt'altra cosa. La fase successiva alla remissione del morbo, la cosiddetta convalescenza, è decisamente lunga - almeno da due a tre settimane - e richiede, oltre al supporto di farmaci di sostegno, un regime alimentare adeguato e un idoneo e prolungato riposo. In caso contrario, per solito, la conseguenza più comune di un'influenza trascurata è l'insorgere della cosiddetta Sindrome da Affaticamento Continuo, una patologia che, quando colpisce soggetti giovani, può durare addirittura anni, compromettendo seriamente la qualità di vita degli interessati. Quante alle cause, è ormai universalmente noto che si tratta di un virus. Ma che cosa è un virus? Un microrganismo di una specie tutta particolare dotato dei seguenti caratteri: a) a differenza dei batteri, è visibile unicamente con il microscopio elettronico, l'unico tipo di strumento ottico dotato di elevata «risoluzione», ossia particolarmente potente; b)una struttura piuttosto semplice, un involucro proteico, che non gli consente né un metabolismo autonomo, né un'autonoma riproduzione (per alcuni studiosi la sua semplicità strutturale ne farebbe un elemento di transizione dalla dimensione inorganica a quella organica); c) per riprodursi, deve farlo a carico delle cellule viventi dell'organismo infettato («ospite»), ossia con la parassitazione. Dal punto di vista strettamente clinico, la sua semplice eliminazione, prodotta dagli anticorpi stimolati da un vaccino, non equivale a una guarigione vera e propria. Perché il soggetto colpito, animale o uomo, possa dirsi effettivamente guarito, occorre che il suo organismo ricostruisca per intero la situazione precedente la parassitazione, il che spiega la lunghezza del periodo di convalescenza. In linea di massima, quale che sia la patologia virale - influenza o altro morbo - l'organismo acquisisce immunità per quel preciso tipo di virus ma non per tutti i tipi, anche simili. Gli anziani, per esempio, già a suo tempo guariti dall'asiatica, un'epidemia influenzale che imperversò in Europa nella seconda metà degli anni Cinquanta, non si ammaleranno più di asiatica, ma questo non vuol dire che non potrebbero più cadere vittima di una sindrome provocata da un virus influenzale di tipo diverso.

I virus, probabilmente per la loro singolare natura, sono gli agenti infettivi più antichi e tra questi ancora più antichi sono quelli responsabili dell'influenza. Stando alle ricostruzioni storiche - tra le quali memorabili quelle compiute da Mirko Grmek, il grande storico della medicina scomparso nel 2000 - i loimoi («pesti») dei Greci erano patologie influenzali associate a complicazioni gastro-enteriche. Tali furono forse la peste di Atene narrata da Tucidide e la malattia nota come «Tosse di Perinto» descritta nel VI libro delle Epidemie del Corpus Hippocraticum. Ma veniamo alla «Influenza aviaria».

Il virus dell'influenza aviaria, H5N1, è un «influenzavirus», ossia un virus influenzale vero e proprio come quello rintracciabile nell'uomo e in altri mammiferi (i suini). Il virus sceglie i suoi primi ospiti prevalentemente tra gli uccelli selvatici acquatici perché l'acqua si presta egregiamente a essere un mezzo efficace di trasmissione e perché ha a che fare con animali abituati a vivere in fitti gruppi. Non esercita necessariamente sugli ospiti un impatto particolarmente violento. Se lo facesse distruggerebbe quello che per il virus è un vero e proprio serbatoio epidemiologico. In termini tecnici si dice che il virus, in questo caso, ha una «bassa valenza patogenetica», il che, tuttavia, non ne diminuisce affatto la pericolosità e per due buone ragioni: l'ideale ospitalità trovata in questi animali gli fornisce le condizioni opportune per «prosperare», cioè per assumere, per mutazione, varianti patogenetiche micidiali; quando nella forma non virulenta passa da quelli selvatici in quelli domestici incontra organismi non «abituati» al virus e dunque privi del necessario potere di contrasto, per cui l'infezione ha un decorso letale. Il pollame, d'altronde, si trova a combattere su due fronti: contro virus «deboli» cui non è avvezzo, il che in linea di massima può accadere frequentemente in allevamenti contrassegnati da modesto controllo igienico; contro virus «violenti» che hanno già fatto parecchie vittime tra i volatili selvatici. Per solito le vie del contagio sono date o dalla vicinanza di allevamenti non protetti a corsi d'acqua popolati da selvatici comunque infetti o dall'arrivo, per migrazione, di animali portatori di mutanti virali altamente patogenetiche che li conducono alla morte. E' quanto è accaduto nel corso di questo anno. In diverse regioni del pianeta sono stati trovati selvatici morti positivi al virus H5N1 e nelle medesime zone si sono riscontrati numerosi casi di polli morti essi stessi positivi.

Se, per un momento, poniamo tra parentesi il radicato egoismo della nostra specie, e volgiamo lo sguardo a quanto accade in natura, vediamo disegnarsi uno scenario intensamente drammatico non privo di una sua struggente, malinconica bellezza. Bellissimi uccelli selvatici migrano nella stagione autunnale alla ricerca di un habitat idoneo e ricco di risorse. Come i nostri migranti economici vanno tuttavia spesso non a vivere meglio, ma a morire. Di qui una lezione che, come sempre, la natura ci dà e che, riteniamo, non sia il caso di trascurare a fronte dell'attuale emergenza epidemica. Vediamo perché.

Natura magistra vitae

Per ora l'influenza aviaria nell'uomo è in una fase epidemica, che va comunque monitorata con estrema attenzione, stante la presenza di numerosi focolai epidemici e di un certo numero di vittime umane (una sessantina) sicuramente accertate. A quel che dicono diversi epidemiologi, non ci sono prove che il virus possa essere trasmesso attraverso l'ingestione di un pollo infetto. Il contagio si verifica soprattutto tramite il contatto con le mani nude e si diffonde non lavandole. Molti di loro tuttavia sostengono, con qualche ragionevolezza, che l'assenza di prove non dimostra in modo necessario e sufficiente che il virus possa essere ucciso passando nello stomaco umano e invitano perentoriamente, in ogni caso, a mangiare solo uova e pollame cotti. Nell'assenza di certezze, la strategia corretta per evitare che l'epidemia umana si diffonda è adottare la prevenzione. Come? Partendo innanzitutto da una speciale attenzione nei confronti degli animali ospiti privilegiati, vale a dire dei volatili selvatici. Un'attenzione che impone una serie di accorgimenti adottabili senza particolare difficoltà. In termini di condotta negativa, vietare, senza deplorevoli indugi, la caccia degli uccelli migranti. In positivo controllarne gli habitat da cui si dipartono e seguirne le fasi di migrazione. E' quanto del resto fanno da anni gli esperti del Wwf: studiano i siti acquatici di partenza e quelli di arrivo, catturano gli uccelli, li curano, procedono in modo tale da aumentarne le difese avverso i patogeni, ecc. A monte una filosofia che, a nostro parere, andrebbe imitata nelle politiche seguite per i flussi migratori umani. Non è possibile, soprattutto non è corretto, combattere la migrazione stagionale degli uccelli - così come è assurdo credere di potere impedire la migrazione umana, vero fenomeno epocale, giacché farlo sarebbe come tentare di arrestare un ciclone con la punta di un ombrello - ma è, per contro, possibile renderla meno pericolosa, chiudendo in un circolo virtuoso la salvaguardia della biodiversità animale e la tutela dei volatili domestici e dell'uomo. A invitare a procedere in questa direzione è una notizia pubblicata sul Corriere della sera (Salute) il 10 ottobre, che ci dice quanto segue «Il virus responsabile della pandemia di "spagnola" del 1918 era di origine aviaria, proprio come l'H5N1 oggi responsabile dell'influenza aviaria nel Sud Est asiatico, e poi si era adattato all'uomo. Lo rivelano i ricercatori del gruppo di Jeffrey Taubenberger, dell'Istituto di Patologia delle Forze Armate di Rockville (Usa)». Nella medesima fonte troviamo un'interessante osservazione fatta da Francesco Ippolito, direttore dello Ircss «Lazzaro Spallanzani» di Roma che, commentando il completamento della ricerca americana, pubblicata su Nature, osserva «tutti i virus che hanno provocato pandemie erano di origine aviaria e quindi si tratta di un dato atteso». D'altronde, l'esperto afferma che il sospetto che il virus responsabile della pandemia del 1918 fosse di origine aviaria «era sorto 10 anni fa, dopo l'analisi di alcuni cadaveri conservati nel permafrost».

Senza entrare nel merito di queste informazioni, la cui analisi richiederebbe una più puntuale disamina scientifica, possiamo comunque trarne almeno uno spunto di riflessione, prendendo le mosse dal percorso della pandemia. La «spagnola» (detto per inciso, fu chiamata così non perché il suo focolaio principale fosse in Spagna, ma solo perché, non facendo la Spagna parte degli Stati in guerra, i suoi giornali erano autorizzati a scriverne e a illustrare, con dovizia di particolari, il diffondersi dell'epidemia nel paese) scoppiò nella primavera del 1918, nell'ultimo anno della prima guerra mondiale. Dapprima in forma blanda e colpendo soprattutto gli anziani, poi, dopo l'estate, in modo incredibilmente violento investendo soprattutto i soggetti di età compresa tra i 20 e i 40 anni. I focolai epidemici erano disseminati in tutto il mondo, il che parrebbe escludere che la causa della sua violenza sia da ricercare nelle basse difese immunitarie delle popolazioni belligeranti debilitate dalle privazioni del periodo bellico. Le modeste conoscenze virologiche dell'epoca gettano un'ombra di dubbio sull'ipotesi, avanzata allora, che il fattore causale (eziologico) primario andasse riscontrato nell'associazione di un comune virus influenzale e di un batterio (Haemophilus influentiae). Più probabile, come si è già accennato, che si trattasse di una variante virale particolarmente potente, per l'appunto dello stesso tipo dello H5N1. Quanto alla sua straordinaria diffusione ci sembra tutt'altro che irragionevole supporre che a scatenarla fossero le abitudini alimentari del tempo. In Europa si fece ricorso, in misura più decisamente massiccia che nel passato, alla caccia e al conseguente consumo dei volatili selvatici, naturali portatori del virus. In Asia e in altri continenti le abitudini venatorie e i relativi consumi restarono inalterati. Non si fece nulla per individuare le fonti cruciali dell'infezione, mancando, va detto, e la conoscenza dei dati essenziali e gli strumenti concettuali appropriati. D'altra parte, la sua recrudescenza nell'autunno di quell'anno la dice lunga sul nesso tra migrazione stagionale dei selvatici e disseminazione del virus. Ripetiamo, non si sapeva. Ma oggi si sa e non agire di conseguenza sarebbe certamente irresponsabile.

La congiura dei «non innocenti»

Sarebbe inesatto affermare che i governi non hanno fatto nulla per combattere il rischio della trasformazione dell'aviaria in pandemia. Le iniziative, e in termini di conferenze internazionali per monitorare l'emergenza - una è iniziata ieri a Ginevra e si concluderà domani - e per mettere a disposizione i vaccini idonei e meditare sull'opportunità di una vaccinazione di massa, cosa, quest'ultima, che richiederebbe una sinergia virtuosa(non probabilissima) tra autorità sanitarie e industrie farmaceutiche. Ma, forse, come già lamentava il 15 settembre a Roma Maria Cheng, portavoce dell'Organizzazione mondiale della sanità, in un incontro con i responsabili dell'Unità di crisi del nostro ministero degli esteri, si è fatto e si fa ancora troppo poco. La ragione è semplice. Da quando è cominciato l'allarme, il consumo di uova e polli è drasticamente diminuito e in Italia, come in tutto l'Occidente industrializzato, l'industria alimentare avicola è in crisi. I nostri poveri polli, già rintronati nelle catene di allevamento dalla musica ad altissimo volume, vengono uccisi prima d'essere avviati alla macellazione. Un giro di affari enorme e un numero difficilmente calcolabile di posti di lavoro sono a rischio. Nessun governo, ovviamente, ha voglia di turbare gli interessi consolidati degli allevatori e, meno che mai, di trovarsi tra le braccia nuovi disoccupati. Di qui l'adozione di strategie forse troppo caute. Non è un caso che l'opzione privilegiata, almeno in Europa, specie dietro la pressione esercitata dalla Commissione europea, sia quella di limitarsi a moltiplicare i controlli sul pollame. Giustissimo, necessario, ma insufficiente. I polli sono soltanto il terminale della catena infettiva.

La congiura dei sentimenti

Le cose non sono certamente semplificate dalle passioni che si agitano nell'immaginario collettivo. Come sempre accade di fronte a una pandemia, che per ora è solo annunciata e che, come si è già detto, molti esperti ritengono (forse a torto, chissà) piuttosto improbabile, si scatena un affetto primordiale e aggressivo, la paura che iniziata, per dirla alla Lorenz, come una «reazione di evitamento e fuga», ossia di rimozione, sta ora assumendo l'aspetto di un vero e proprio terrore. Non sappiamo come reagisca l'opinione pubblica altrove, ma sappiamo come sta comportandosi in Italia. A poco a poco si sta facendo strada una certezza: la colpa dell'aviaria non va imputata al virus ma a chi, brutto, sporco e cattivo, permette che si diffonda. I nuovi untori sono gli Asiatici, i cui allevamenti non sono, per altro, esemplari quanto a igiene. E' giusto, si pensa, che i morti sinora accertati siano quelli del Sud Est asiatico. Certo sono stati scoperti focolai anche in Europa, in Croazia, il piccolo stato dell'Unione europea tanto coccolato dai suoi partner e in Romania, ma «si sa che cosa sono i Rumeni, buoni soltanto a rubare e inviarci colf e badanti. Da noi queste cose non sarebbero successe». Dalla paura e da un'indignazione mal riposta fa capolino - ma tu guarda! - il «patriottismo» che l'attuale maggioranza aveva dimenticato votando in massa la «devolution» leghista, ma che di recente ha riscoperto nella «lotta contro l'aviaria». Il 28 ottobre, con l'entusiastico appoggio del governo, la Coldiretti ha offerto gratis a chi li voleva frittate e polli in piazza Montecitorio a Roma. E' da chiedersi se sia questa l'ultima manifestazione di stupidità irresponsabile di una dirigenza volgare e incolta. Speriamolo. Non sarà per caso vero l'antico motto latino, Quos deus perdere vult prius dementat (Dio fa prima uscire di testa quelli che vuole mandare in rovina)?

Franco Voltaggio
Roma, 8 novembre 2005
da "Il Manifesto"