Medicina Democratica
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Il 13 ottobre scorso è stato arrestato il vice presidente della Regione Lombardia Mario Mantovani insieme all’assessore al Bilancio e ad altri funzionari della regione. Solo un mese prima Mantovani era l’assessore alla sanità e la sanità è stata l’oggetto del suo arresto per corruzione e concussione.
L’11 agosto scorso, nel pieno dei suoi poteri è uscita la Legge regionale n. 23 “Evoluzione del sistema sociosanitario lombardo: modifiche al Titolo I e al Titolo II della legge regionale 30 dicembre 2009, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità)”.
Ci chiediamo quale può essere il senso di questa “nuova riforma” al seguito di questi nuovi arresti. Non è possibile ritenere che sia astratta dalla situazione concreta che si riallaccia a quella vecchia e ben nota che abbiamo assito nel recente passato quando era presidente della regione Roberto Formigoni. Pensavamo, così ci hanno fatto credere, che il sistema corruttivo in sanità fosse finito con il cambio della Giunta, ma così non è stato. Quale credibilità può avere una legge che è espressione, anche, e non solo, di questo sistema. Non possiamo non tenerne conto.
La “nuova” legge sulla sanità in Lombardia è stata approvata dal Consiglio regionale a maggioranza dopo un non facile e complesso iter. E si tratta solo della prima parte, quella “istituzionale”, perchè per quanto riguarda i servizi e la loro organizzazione vi è un altro progetto di legge che è in itinere. Il presidente Roberto Maroni aveva aperto la discussione nell’estate dello scorso anno quando ha presentato ai sindacati, alle associazioni, a centri di ricerca, al mondo scientifico il suo progetto di Libro Bianco sulla sanità in Lombardia.
Al riguardo anche Medicina Democratica è stata invitata ed ha partecipato a due incontri in regione sull’argomento, inviando poi un documento di critica e di proposte sul tema. Medicina Democratica è nata a Milano agli inizi degli anni ’70, a partire dalle lotte operaie di quel periodo e dalla critica radicale al sistema sanitario e sociale da parte di molti ricercatori, in primis, il prof. Giulio Maccacaro, ha ribadito e ribadisce che la sanità non può essere confusa con la salute, non può essere ridotta ad una serie di pratiche e di tecniche per recuperare la salute dei singoli e della popolazione.
Il diritto alla salute comprende il complesso della condizione di vita, il lavoro, l’ambiente ed anche i servizi sociali e sanitari. Necessita di un ambito culturale e di iniziativa complesso basato della prevenzione che può essere raggiunto a partire dalla partecipazione fattiva dei soggetti “di salute” coscienti ed organizzati. Per contestualizzare la questione facciamo un breve excursus storico sulla sanità nel nostro paese.
Il Servizio Sanitario Nazionale è stato definito con la legge del 1978 (n.833), riprendendo l’elaborazione concettuale di Unità Sanitaria Locale che ebbe origine dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) nel 1944. L’impulso maggiore lo ricevette dalle lotte che si sono sviluppate in Italia sul finire degli anni 60 dal 1968 al 1973 che rivoluzionarono la concezione di sanità e di salute. Proprio queste due ultime parole furono collocate nel loro significato più pieno e non confuse. La legge del 1978, teoricamente ancora in vigore, non fu solo una “riforma sanitaria” perché collocò la sanità, come uno dei cardini del diritto alla salute. Andava oltre le pratiche medico-cliniche, in un contesto di garanzia sociale e politica per tutta la popolazione, ma principalmente per chi soffriva e poteva soffrire una condizione di disagio e di emarginazione. L’anno della riforma sanitaria fu anche quello della legge per la chiusura dei manicomi e quello della legge 194 per l’interruzione volontaria della gravidanza. Nella legge 833 trovò grande spazio la prevenzione non solo come idea, ma anche come pratica, con delle indicazioni precise di azione e di intervento nei luoghi di lavoro e sul territorio.
La legge di riforma sanitaria, uscita fuori da un compromesso “storico” fra i partiti centristi (la DC) e della sinistra (PCI e PSI), mentre veniva con fatica e con lentezza attuata, fu subito oggetto di attacchi allo scopo di minarne le fondamenta. Proverbiale è il fatto che il ministro della Sanità che doveva applicarla era un liberale (Altissimo) che aveva votato contro la sua approvazione.
Già nell’anno successivo furono imposti i ticket (moderatori) sulle visite e gli esami diagnostici ed anche venne sospesa la norma (articolo 85) che aveva stabilito il passaggio del riconoscimento da parte dell’ INAIL degli infortuni e malattie professionali alle USL.
Ma non si poteva subito tutto distruggere, la storia delle lotte operaie era ancora viva; vi era ancora una notevole capacità di organizzazione e di difesa, principalmente sostenuta dai sindacati confederali. Questa spinta andò esaurendosi nel giro di poco più di dieci anni quando venne approvata una legge di contro riforma (n. 502/1992), inserendo, sotto la pseudo necessità di rendere economica l’organizzazione sanitari, dei principi lontani dallo spirito originario, aperti ad altri tipi di sistema, nella sostanza di carattere privatistico.
Oggi siamo al dunque. L’oligarchia dominante si pone come primo obiettivo quello di ridurre in modo consistente la spesa sociale. Il governo Renzi ha deciso, di tagliare la sanità per ridurre le tasse. Pensa in questo modo di recuperare consensi. La Confindustria plaude, perché vede profilarsi un grande affare: quello della malattia che genera necessità di farmaci, di strutture e di strumenti sanitari e soprattutto che intravede, ora con nettezza, la possibilità di creare assicurazioni integrative e assicurazioni private. Già questo discorso era contenuto nel patto per la salute del 2014. Anche se il momento potrebbe non essere tanto favorevole dopo 7 anni di crisi e ancora poca speranza di uscirne (al di la delle dichiarazioni), si punta sul fatto che la popolazione italiana – quanto meno la gran parte di essa – non vuole rinunciare alla sua salute, quindi a ciò che viene fatto passare come sua garanzia, ovvero le cure sanitarie.
La mentalità corrente, creata dopo anni di propaganda medico industriale, si fonda sulla quantità, sull’equazione più esami, più visite, più atti medici uguale più salute. I sindacati confederali, salvo eccezioni interne, più realisti del re, puntano sulla contrattazione per fare accordi di sanità integrativa. Aziende e singoli lavoratori ogni mese pagano pochi euro, almeno inizialmente, ed ottengono visite ed esami recandosi presso strutture private saltando le lunghe liste di attesa che contraddistinguono il servizio pubblico e nemmeno pagherebbero il ticket. In questo contesto la regione Lombardia pone la sua riforma sanitaria che definisce “evoluzione del sistema sanitario lombardo”, non dice niente sui tagli operati dal governo e accettati dalla conferenza delle regioni e si sente già ben piazzata nei rapporti con il privato. Dunque avanti tutta. Ci sforziamo di capire perché mai è stata fatta questa legge, se nulla, dal punto di vista sostanziale, viene mutato rispetto ai principi che sottendono all’attuale legislazione voluta dal duraturo presidente Formigoni che sono quelli di considerare il pubblico e il privato sulla stesso piano, di stabilire e mantenere la divisione fra decisori ed erogatori, di riaffermare la centralità della famiglia e nel sostenere in modo pieno il principio di sussidiarietà orizzontale.
Vi è comunque, nelle nuove norme, una riduzione del numero delle ASL, ma anche la definizione di nuovi enti e istituti che richiedono nuovi dirigenti. Non vi sarà quindi il paventato risparmio come sostenuto dalla Giunta Maroni (fra l’altro Maroni ha assunto l’interim della Sanità in attesa di nominare il nuovo assessore), ma un rimescolamento di carte e anche di persone che produrranno per un periodo che non sarà breve una grande confusione, che costringeranno i cittadini lombardi a districarsi con i territori cambiati, con le nuove sigle e i loro contenuti.
Forse si è voluto, da parte del gruppo dirigente leghista, porsi davanti alla popolazione lombarda e non meno al livello nazionale, come i primi della classe, coloro che si adeguano alle nuove esigenze e si affermano politicamente, considerando che l’unica propaganda anti immigrati che a piene mani viene elargita in tutto il paese e con i mezzi di comunicazione di massa, non è sufficiente… forse.
ALCUNI NODI CRITICI
LA RETE LOMBARDA PER IL DIRITTO ALLA SALUTE, ovvero quell’organizzazione nata dal coordinamento di diverse associazioni e movimenti che si battono per il diritto alla salute come spiega il nome che ha assunto, si chiede se la legge 23 del 2015 può costituire un’opportunità, nel senso di trarre il massimo vantaggio anche da quanto può emergere di negativo. Le legge esiste, ne dobbiamo prendere atto, come dobbiamo prendere atto delle difficoltà – quasi impossibilità – di poterla cambiare. Occorre però prestare attenzione e vedere che cosa si deve fare. Il compito della Rete è proprio questo: capire per informare, creare coscienza, opporsi direttamente dove ciò è possibile e trarre il massimo vantaggio dalle contraddizioni che si presentano o si possono, anche provocate, presentare. Quindi la legge va conosciuta e studiata, discussa criticata e, nei punti dove possibile, rovesciata.
La Rete pertanto deve fare molta attenzione e seguire l’evoluzione del sistema, mediante un proprio gruppo di lavoro, ma è altrettanto necessario avere attenzione alla successiva proposta di legge, quella che riguarda l’attuazione dei servizi e che per i cittadini risulta importantissima e dove vi possono essere gli elementi contradditori maggiori; in particolare si deve operare su quei servizi e quelle strutture che hanno una storia maggiore e che costituiscono la quotidianità degli interventi territoriali:
Dobbiamo dire che siamo andati anche più indietro rispetto ai servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro. Anche se nessuno può prescindere da Franco Basaglia e dalla legge 180, però le resistenza nell’accettare quel discorso e nell’applicare la legge sono state tante e lo scontro che si è prodotto a partire dalle società scientifiche di psichiatri è vivo ancora oggi. E quindi la fatica delle associazioni – soprattutto dei famigliari – e di non pochi operatori “basagliani” è molto elevata. Siamo in un campo in cui è facile sostituire la tecnica alla relazione, lo psicofarmaco provale sulla conoscenza delle condizioni di lavoro e di vita, quindi delle misure, non necessariamente sanitarie, che debbono essere prese. E siamo di nuovo alle prese con una falsa concezione di sanità, identificata con una serie di pratiche cliniche avulse dal contesto sociale. La concezione pseudo giuridica praticata è quella di considerarlo come separato dalla sanità o addirittura estraneo, relegandolo genericamente all’assistenza o al cd socio assistenziale, Sono significative le norme regolamentari della regione che considerano il malato mentale che ha compiuto 65 anni non è più tale.
IN CONCLUSIONE vi è la necessità di capire meglio, sia per rivendicare, sia per partecipare. Partecipare è difficile perché implicherebbe un’adesione al disegno proposto con la legge e con i principi di fondo che la sorreggono. Per di più va anche sottolineato che le occasioni di partecipazione stabilite da tutte le precedenti leggi, nazionali (dalla 833/78 alla 502/92 e successive modifiche) che regionali con particolare riferimento alla legge regionale n. 48 del 1988 che ha stabilito una forma organizzata di intervento dal basso: i Comitati di Partecipazione, sono state disattese e non attuate. La rivendicazione può sostanziarsi con la forma tradizionale facendo le opportune richieste all’ente competente: la Rete può fare un discorso sui principali servizi di cui si è parlato a partire da un’indagine puntuale sul loro funzionamento e, altrettanto, utilizzando il sistema giuridico, soprattutto quando i diritti costituzionali e le leggi che li concretizzano non sono attuate o sono addirittura stravolte.