La Cassazione, dopo 26 anni, riconosce che può esserci danno morale anche senza lesioni biologiche.

Seveso, il terrore sarà risarcito

Una vittoria di chi ha vistro la propria vita stravolta dalla diossina

L'esplosione è intorno a mezzogiorno. Subito dopo il botto delle caldaie, la nube dei veleni passa sulla testa di circa 300mila persone. Così la diossina "scappata" dall'Icmesa di Seveso avvolge tutto e tutti. E' il 10 luglio 1976 e il più grande disastro prodotto dall'industria chimica in Italia si è appena innescato. A poche ore dall'incidente arrivano i primi malesseri, i primi ricoveri e gli animali cominciano a morire e le piante a rinsecchire, e sulla faccia di molti compaiono le prime macchie che con il passar delle ore si fanno escrescenze e la pelle viene giù. Arriva poi l'ordine di evacuazione e si recinta la zona e arrivano gli uomini con le mascherine e le tute bianche. Da quel giorno la paura non ha più abbandonato gli abitanti di Seveso, Meda, Cesano Maderno e Desio. Anni di terrore e di angoscia li aspettano.

Trecentomila vite appese ai test

A ventisei anni dal disastro quelle persone, i loro familiari, i superstiti potranno essere risarciti del danno morale. Lo afferma la sentenza numero 2415 della Cassazione depositata ieri. Nel verdetto - espresso dalle sezioni unite della corte - i supremi giudici riconoscono infatti che anche il turbamento psichico e lo stress vissuto dalla popolazione, della zona colpita dalla più grave catastrofe della storia industriale italiana, devono essere risarciti perché gli abitanti hanno dovuto convivere con il terrore di ammalarsi. Solo nel 1987 infatti, ben undici anni dopo la fuga di gas dall'Icmesa-Givaudan, negli Stati Uniti, ad Atlanta è stato messo a punto il test per misurare la presenza della sostanza nel sangue. Per tutti questi anni - per chi non si è ammalato subito di cloracne, la devastante malattia della pelle dovuta al contatto con la diossina - è rimasto vivo il timore di eventuali modificazioni genetiche future, anche nei figli. Per decenni, gli abitanti di quel pezzo di Brianza contaminata dalla nube alla diossina si sono sottoposti a periodici check up clinici. E tuttora l'area è sotto monitoraggio. La scienza non ha ancora una risposta certa sugli eventuali danni genetici che potrebbero essere stati causati dall'avvelenamento delle acque e del terreno da parte della diossina.

La battaglia di Giorgio

La sentenza della Cassazione è il risultato della battaglia solitaria di Giorgio P. contro l'Icmesa-Givaudan. Un piccolo imprenditore della zona, al quale la Corte d'Appello di Milano, nel giugno del '95, aveva liquidato 4 milioni per danni morali proprio per aver sofferto: «la sindrome da paura che ha umiliato e condizionato gli abitanti, coinvolti di fronte all'angoscia di un rischio personale che non poteva neppure essere dissimulato di fronte agli altri nel grave clima di allarme prodotto dal disastro». Una sentenza rigettata, due anni dopo, proprio dalla Terza sezione della Cassazione. Ora però, il massimo grado di giudizio, a sezioni unite, ritorna sui suoi passi sconfessando l'operato della Terza sezione. Ripresa in mano la vicenda sulla base della «diversa sensibilità che si è sviluppata sui disastri ambientali». In caso di compromissione dell'ambiente a seguito di disastro colposo - è scritto nella sentenza depositata ieri - il danno morale dei soggetti che si trovino in una particolare situazione (in quanto abitano o lavorano in questo ambiente) è risarcibile autonomamente. E la sentenza apre la strada ad altre 10 mila domande di risarcimento, già pronte.

Disastro su commissione

Il triclorofenolo (Tcf) veniva già prodotto in Svizzera dalla casa madre dell'Icmesa, la Givaudan. Gli svizzeri erano al corrente che con l'aumento della temperatura nella lavorazione si sarebbe sviluppata diossina, come sapeva che aumentando la temperatura sarebbe diminuito il tempo di reazione (da 5 a 1 ora) e quindi si sarebbe avuta più produzione in meno tempo; sapevano che impianti simili all'Icmesa di Seveso erano già esplosi con produzione di diossina e conseguenze gravissime in altri paesi; sapevano che all'Icmesa di Seveso si produceva Tcf in un reattore che aveva come sfiato un camino che dava sul tetto senza abbattitore; sapeva che i termometri erano insufficienti per controllare la reazione. Gli unici a non essere al corrente della pericolosità della produzione erano i lavoratori e le loro famiglie.

Sabrina Deligia
Seveso, 23 febbraio 2002
da "Liberazione"