L'equipaggio dello Shuttle Columbia era già morto da 16 giorni

La morte annunciata

La credibilità della NASA mai così in basso da 42 anni

Parlavano ed erano già morti, senza saperlo. L'equipaggio dello Shuttle Columbia non è stato ucciso il primo febbraio alle 8:01 ora del Texas. È morto 16 giorni prima. 30 secondi dopo il lancio della navetta da Cape Canaveral, il 15 gennaio, quando un pezzo d'isolante termico staccato dai serbatoi ausiliari aprì uno squarcio fatale nell'ala sinistra della navicella, segnando il destino del Columbia. I sedici giorni in orbita sono stati solo il pellegrinaggio finale di sette persone ignare di essere state condannate a morte. Ma con loro è oggi ferita a morte la credibilità di un'agenzia spaziale che per 42 anni aveva saputo conquistare la nostra fiducia incondizionata, la nostra ammirazione, la nostra gratitudine. E che invece scopriamo era stata costretta a trasformare i lanci degli Shuttle in colpi d'una roulette spaziale contro il tempo e i fondi governativi, sempre più azzardati.

Per sedici giorni, Houston ha ripetuto ai sette condannati e poi, dopo la catastrofe, al mondo intero, che il pezzo d'isolante visto staccarsi nelle vibrazioni del "lift off", del decollo, era solo un brandello di styrofoam, di quella plastica leggerissima della quale sono fatti i bicchieri da asporto per il caffè. Ma almeno due giorni prima del finale, un memorandum interno all'agenzia spaziale aveva segnalato che lo strappo all'ala e i danni carrello d'atterraggio della ruota di sinistra sottostante erano stati gravissimi, che le manovre di rientro nell'atmosfera, la decelerazione dai 20mila chilometri dell'orbita ai 300 chilometri dell'atterraggio, con quel pezzo d'alluminio lacerato a fare da alettone, sarebbero state fatali. Al pilota dello Shuttle, McCool, ai suoi 6 compagni, era stato detto di non preoccuparsi, semplicemente perché non c'era nulla che loro potessero fare, altro che sperare.

Non sarebbe giusto, né umano, rimproverare ora all'ex "vergine dello spazio" d'aver taciuto la verità a quei morituri. Semplicemente, la crepa non era qualcosa che l'equipaggio avrebbe potuto riparare, neppure con una passeggiata spaziale. Agitarli con un certificato di morte anticipato avrebbe soltanto reso la loro agonia una tortura e la Nasa ancora sperava che comunque il computer di bordo avrebbe potuto compensare le sbandate che la crepa sull'ala avrebbe inesorabilmente provocato. Ma non è pensabile che Houston Control non l'avesse notata nelle immagini che le telecamere trasmettevano a terra e che la tv israeliana ha visto. Ed è molto dubbio che gli stessi piloti non avessero visto quello che da terra anche Sharon aveva visto benissimo, mentre conversava con Ilon Ramon, il viaggiatore israeliano.

È invece doveroso, anche per noi Italiani che abbiamo inviato e ci prepariamo a inviare altri astronauti su quei mezzi, chiedere conto alla Nasa, e soprattutto al governo americano che l'ha lentamente strangolata, di un programma di volo la cui utilità marginale si riduce, mentre il rischio aumenta in maniera esponenziale, con l'invecchiato di una macchina tanto complessa quanto, si è visto, fragile. Trent'anni or sono i calcoli interni degli ingegneri davano per una su centomila le probabilità di un incidente catastrofico. Negli ultimi tempi, anche dopo le riparazioni causate dalla conflagrazione del Challenger, le probabilità erano scese a una contro 78, dunque la certezza che un'astronave sarebbe andata perduta ogni 78 voli.

L'esplorazione dello spazio è un'attività inerentemente rischiosa e gli astronauti che salgono sulle navette lo sanno meglio di chiunque altro. Ma i margini di sicurezza si sono troppo ridotti con la riduzione dei fondi e l'azzardo è cresciuto proporzionalmente alla lesina, nella lotta per tenere in volo a qualunque costo una flotta e un programma senza avvenire. L'invecchiamento della flotta, l'avarizia governativa, l'ansia di rispondere ai lupi in divisa che dal Pentagono si aggirano attorno alle navette per militarizzare la Nasa, hanno spinto l'agenzia a prendere sempre più rischi, ad azzardare un gioco nel quale gli essere umani a bordo non hanno scampo, se il "coup de roulette" non funziona. E poi, a tacere la sentenza di morte ai suoi stesi fratelli e sorelle in volo.

Non ci sono uscite di sicurezza, capsule d'emergenza, scialuppe spaziali, seggiolini esplosivi o manovre manuali che permettano ai magnifici aviatori a bordo di riprendere il controllo. Sullo Shuttle o tutto va bene o è il disastro totale. Solo il computer può guidarlo e i dati telemetrici che la Nasa ha fornito raccontano la storia quasi umana del pilota automatico che lotta disperatamente per recuperare l'assetto di volo sporcato dalla crepa sull'ala e poi si deve arrendere. Dunque, non c'è stato un "errore umano" che l'abbia condannata. Ci sono stati invece i molti errori d'uomini che hanno nascosto a se stessi, per coraggio, per presunzione e per vincere le battaglie burocratiche e politiche a Washington contro i tagliatori di fondi, arrivati oggi troppo tardi, con i 500 milioni di dollari extra stanziati da Bush. Quei soldi che non serviranno a salvare quei sette, né a far volare mai più questa fenice chiamata "Shuttle".

Vittorio Zucconi
Milano, 4 febbraio 2003
da "La Repubblica"