Grandi manifestazioni, un lungo periodo di mobilitazione e di discussione, una opposizione compatta in ogni angolo del pianeta

LA SCUOLA IN PRIMA LINEA NEL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA.

Il ruolo degli insegnanti e degli studenti

Nei momenti critici, come lo è una guerra, la gioventù studentesca, con la sua generosità e il suo altruismo, rappresenta uno dei principali fattori di mobilitazione contro. A cavallo tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, ai tempi della guerra d’Algeria, l’associazione degli universitari francesi Unef fu la sola che provò a scuotere un’opinione pubblica francese ottusamente convinta del diritto francese di occuparla al punto da considerarla parte integrante dello stesso territorio francese. Ai tempi della guerra del Vietnam furono gli studenti i primi a pronunciarsi contro in una società americana che non diversamente da oggi pensava del tutto naturale che il proprio paese “mettesse ordine” in un paese disastrato e fermasse l’avanzata del comunismo in quelle terre. E tutto ciò lo fecero molto prima che alla maggioranza dell’opinione pubblica americana fossero chiari i disastri che la “sporca guerra”, come viene ricordata oggi, avrebbe comportato. E lo fecero anche nell’isolamento da altri settori sociali, allora come oggi poco sensibili a ciò che non rientra nell’american way of life: fino allo scontro fisico, per chi se lo ricorda, tra studenti e operai edili nelle strade di New York.

Ma la guerra in Iraq, ad onta di tutte le “nobili” motivazioni che i suoi fautori hanno cercato di darle, non ha convinto nessuno che non fosse già convinto in partenza. Anche oggi che la guerra volge al termine, forte è il sospetto che non solo le motivazioni della guerra fossero altre da quelle che sono state addotte e che ormai sia in gioco un disegno di supremazia mondiale di cui tutti i paesi, amici o nemici degli Stati Uniti, dovranno fare le spese. E semmai il problema è di evitare che questo disegno si trasformi in una guerra infinita.

Stavolta perciò non si è trattato di un’opposizione isolata: le numerose manifestazioni di massa che si sono avute nei mesi scorsi ed in particolare la prima manifestazione mondiale che si è svolta il 15 febbraio hanno messo in luce la sensibilità dell’opinione pubblica internazionale di fronte all’evento. La compattezza con cui si sono opposte le diverse confessioni religiose e le organizzazioni sindacali dei lavoratori di quasi tutto il mondo, ma soprattutto quelle europee, costituiscono un evento inedito nella storia mondiale.

In prima linea

Nondimeno anche stavolta le scuole, il mondo dell’educazione, gli studenti e anche gli insegnanti si sono collocati in prima linea in questo movimento in tutto il mondo.

Il Guardian del 25 marzo intitolava : “Gli studenti prevalgono nelle marce globali contro la guerra” e citava la marcia sul consolato americano di 20.000 studenti di Amburgo, degenerata in incidenti con la polizia. Citava anche le manifestazioni svoltesi in Italia in occasione dello sciopero dei lavoratori della scuola il 24 marzo: “Migliaia di insegnanti e studenti sono usciti oggi e hanno marciato pacificamente nelle strade di Roma, Milano e altre città in tutto il paese per protestare contro la guerra in Iraq. Fonti sindacali dicono che il 60% delle scuole ha partecipato. Dimostrazioni si sono svolte a Roma, Milano, Torino, Venezia, Bologna, Napoli e Palermo.”

Un altro paese dove le scuole sono state il fulcro della protesta è l’Australia. Fino dai primi di marzo le principali città australiane sono state teatro di numerose manifestazioni studentesche. A Melbourne 3000 studenti hanno marciato sul parlamento. A Sidney e a Perth vi sono stati anche incidenti. A Perth gli studenti hanno stretto d’assedio la sede della polizia fino a che non è stato rilasciato un loro compagno arrestato per aver bruciato una bandiera australiana. Associazioni studentesche come la Youth and Students against the War sono nate come funghi.

Sicuramente un posto dove le manifestazioni contro la guerra si sono sviluppate a partire dalle scuole e dalle università è stato il mondo arabo. Tutti abbiamo potuto vedere in televisione le agitazioni all’Università del Cairo e a quella di Amman, coincidenti con lo scoppio del conflitto. E’ sembrato che così si colmasse un vuoto: fino a quel momento sembrava che le reazioni a un’eventuale guerra riguardasse più l’opinione pubblica occidentale che il mondo arabo o mussulmano. E tutto ciò con buona pace di quanti da noi alcuni mesi fa aizzavano allo scontro tra le civiltà descrivendo un mondo mussulmano compattamente isterico nella volontà di farci la festa.

In realtà, ignorate dai nostri media, manifestazioni si erano già svolte ai primi di marzo in Marocco e in Pakistan. In particolare domenica 2 marzo più di 20.000 studenti Yemeniti erano scesi in piazza e anche nel piccolo Bahrein, dove sono di stanza la quinta flotta e 4.000 militari americani, gli studenti avevano manifestato.

Persino in Cina una manifestazione, non autorizzata e perciò interrotta dalla polizia, ha avuto luogo all’università di Pechino. Probabilmente è la prima dopo Tien An Men.

Il ruolo degli insegnanti

Il ruolo degli insegnanti nel movimento si è sviluppato soprattutto attraverso le loro organizzazioni sindacali. E’ noto il rilievo che la richiesta di porre termine alla guerra ha avuto nello sciopero generale della scuola indetto praticamente da tutti i sindacati scuola italiani il 24 marzo: la stessa stampa nel riportare le cronache della giornata ha dato più rilievo a questo tema e a quello dell’opposizione alla riforma Moratti, che a quello del rinnovo contrattuale da cui tutto era nato. E la stessa scelta della Cgil di rinviare la manifestazione per la scuola del 12 aprile a favore di una manifestazione contro la guerra infinita, testimonia questa sensibilità.

Ma già più di un mese prima a Malaga, durante le giornate dedicate a “Uno spazio di insegnamento comune in Europa” tre organizzazioni spagnole (Comisione Obreras) , portoghesi (Fenprof) e francesi ( Fsu) avevano lanciato un appello comune. I tre sindacati avevano richiamato il loro impegno comune per il dialogo e gli scambi culturali e scientifici nel rispetto dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale. Speravano ancora, a quell’epoca, di poter fermare la macchina bellica.

L’inglese National Union of Teachers ha invece fin dall’inizio denunciato i problemi che si sarebbero posti nelle scuole quando i bambini sarebbero stati esposti attraverso la TV alle immagini magari spettacolari ma altrettanto incomprensibili della guerra: si temeva un incremento del razzismo all’interno delle scuole, come si era verificato nella precedente guerra del golfo del 1991 e a cui non erano estranee le dinamiche “bulliste” diffuse tra gli studenti.

Studenti in un paese in guerra

Ma sicuramente la parte più rilevante l’hanno avuta gli studenti inglesi. Il Guardian del 17 febbraio, intitolava “Gli studenti si preparano a evocare lo spirito degli anni sessanta” e raccontava come, esaltati dalla riuscita della manifestazione del 15 febbraio – due milioni di persone in corteo a Londra, una cosa mai vista neppure negli anni del Vietnam e della campagna per il disarmo nucleare –, gli studenti inglesi si stavano preparando al boicottaggio delle lezioni e ai teach-in. La National Union of Students segnalava come in molti college si stessero tessendo piani per uscire dalle lezioni e come dopo il 15 febbraio il movimento pacifista sentisse il bisogno di un’azione più radicale per farsi ascoltare. Anche l’impassibile London School of Economics nell’ultima settimana di febbraio era stata interessata da meeting della Stop the War Coalition. All’University College di Londra la Nus aveva approvato una mozione per una immediata sospensione delle lezioni in caso di guerra. E la School of Oriental and African Studies è stata la prima scuola ad essere occupata il 14 febbraio per permettere a manifestanti del giorno dopo di passarvi la notte. Migliaia di studenti vi sono arrivati: 600 dall’università di Manchester e 500 da Sheffield.

Il primato delle agitazioni sembra però spettare alla prestigiosa Cambridge e alla Cambridge Students Against the War, i cui membri già a gennaio si erano improvvisati “ispettori” ed erano entrati nella vicina base militare di Feltwell, la terza ad essere “ispezionata” dopo le basi della Raf di Mildenhall e di Lakenheat.

E dire che, secondo un’inchiesta dello stesso Guardian svoltasi ad ottobre, la causa irachena non sembrava destare particolari interessi nel mondo studentesco!

Naturalmente anche in questo caso non sono mancate le prese di posizioni nel corpo accademico delle università britanniche: lo storico Eric Hobsbawn, l’architetto Will Alsop, i sociologi Anne Power e Richard Sennet sono stati i capofila di un pronunciamento di una cinquantina di prestigiosi accademici delle diverse università in tutto il paese.

Troppo giovani per essere pacifisti?

Ma in questi giorni l’Inghilterra ha dovuto fare i conti con un fenomeno del tutto nuovo. Non solo gli universitari o gli studenti della secondaria superiore sono usciti dalle scuole contro la guerra che vede impegnato direttamente l’esercito britannico. Il fenomeno ha investito persino i ragazzini della comprehensive school, grosso modo la nostra scuola media. E non in pochi casi isolati.

Secondo il quotidiano Guardian a Birmingham più di 100 ragazzini sono usciti da scuola alle 10 del mattino guidati dal figlio del ministro della sanità Lord Hunt, di appena 10 anni. E il portavoce del movimento era un tredicenne. Un po’ più grandicelli coloro che il 5 marzo scorso hanno marciato su Downing Street a Londra e appena sedicenni i ragazzi coinvolti in incidenti e denunce a Cambridge e a Otley, nei pressi di Leeds. Qui il portavoce era un undicenne.

Il fenomeno ha spinto le autorità scolastiche, e non solo, a prendere provvedimenti. Le autorità scolastiche hanno paventato i rischi per ragazzi così giovani. Ma qualcuno ha fatto anche di più: l’assessore all’educazione del consiglio comunale di Leicester ha minacciato di considerare come un marinare la scuola le manifestazioni dei ragazzi delle scuole medie e un numero extra di pattuglie della polizia sono state messe davanti alle scuole per dissuadere i ragazzi dall’uscire, dopo che il 7 marzo centinaia di allievi avevano abbandonato le lezioni.

Per la libertà intellettuale in tempo di guerra

Anche negli Stati Uniti scuole e università sono state teatro di numerose iniziative, comizi, manifestazioni contro la guerra. Ma la cosa che probabilmente merita attenzione è la preoccupazione

che le scuole americane hanno riservato alle bugie di guerra e alla tutela della libertà intellettuale in tempo di guerra. Una organizzazione di 5.000 insegnanti si è cimentata in questo compito. Si chiama American Studies Association ed ha denunciato il tentativo dell’amministrazione americana di creare un clima di segretezza e intimidazione nei campus. “La libera e franca ricerca intellettuale è sotto l’attacco di atti legislativi e di strisciati tentativi di intimidazione e segretezza nel governo, nei media e nei campus. Questa atmosfera pregiudica la nostra abilità di adempiere al nostro ruolo di educatori” così inizia la dichiarazione costitutiva. La dichiarazione prosegue elencando una serie di fatti che dall’11 settembre rappresentano un attacco alle libertà accademiche: la Fbi ha chiesto alle università di segnalare gli studenti stranieri, il dipartimento della giustizia ha varato limiti alla libertà di informazione per gli studenti impegnati nelle ricerche, libri e cd sono stati tolti dalle biblioteche scolastiche e universitarie, le amministrazioni universitarie sono state sottoposte a pressioni per censurare docenti e ricercatori su posizioni notoriamente critiche.

“La storia ci insegna che dobbiamo riflettere su chi è il “noi” della politica americana e chi è “il nemico” specialmente in tempo di guerra” continua la dichiarazione. E si citano i precedenti del maccartismo, della deportazione dei dissidenti durante le prima guerra mondiale, o l’internamento degli emigrati giapponesi o dei loro discendenti durante la seconda assimilandoli alla diffidenza che sta crescendo verso arabi mussulmani e asiatici.

In particolare l’Asa se la prende con un’altra organizzazione denominata Campus Watch, che ha un sito web che pubblica notizie sulle facoltà o sulle università critiche nei confronti della politica estera americana. Campus Watch, che respinge le critiche in nome del pluralismo, è nata in settembre dal Middle East Forum, un gruppo di ricerca filo-israeliano. Il sito web si propone di monitorare l’opinione di individui e istituzioni sulla situazione politica mediorientale.

La dichiarazione dell’Asa conclude così: “La libertà intellettuale – la libertà di fare domande, di scoprire fatti, di parlare autonomamente senza paura – è il fondamento della nostra democrazia e rimane di vitale importanza, specialmente in tempo di crisi.”

Pino Patroncini
Roma, 27 aprile 2003