Assemblea degli Studenti della Statale Occupata

Documento finale sul DDL Moratti

Critiche al DDL Moratti e proposte politiche

DOCUMENTO FINALE

Nella giornata di venerdì 28 ottobre si è costituito il gruppo di discussione sul DDL Moratti, in seno all’occupazione dell’Università Statale di Milano. Riunitosi sabato 29 ottobre, visto che la sola analisi del DDL Moratti sarebbe risultata insufficiente nella critica del processo di riforma dell’istruzione e dell’università, il gruppo ha deciso di procedere all’analisi dei contenuti dell’autonomia finanziaria, della riforma Berlinguer-Zecchino e della riforma Moratti.

Questo documento vuole essere una piattaforma critica e rivendicativa discussa e fatta propria dall’Assemblea degli Studenti della Statale Occupata, e una proposta politica al movimento studentesco e universitario che sta prendendo corpo in queste settimane.

FINANZIAMENTI

L’ultima finanziaria taglia 300 milioni di euro ai fondi di spesa nei contratti nelle università ed è solo un capitolo di una serie di tagli indiscriminati che hanno colpito l’istruzione pubblica e l’intero stato sociale negli ultimi 15 anni.

Queste politiche vogliono spingere gli atenei alla ricerca di finanziamenti privati, subordinando dunque a questi le scelte concernenti la ricerca e, grave novità introdotta dalla legge Moratti, la didattica.

Da sempre una parte consistente del finanziamento alle università proviene da privati. Con le ultime riforme, tuttavia, questo tipo di apporto economico tende a svolgere un ruolo sempre più preponderante, addirittura invasivo.

Lasciare troppo campo ai privati comporta automaticamente una netta disparità nella scelta sulla distribuzione dei fondi, a favore di una ricerca ad alta ed immediata redditività economica e a discapito di quella più strettamente legata ad ambiti teorici o di base.

La riforma dello stato giuridico dei docenti e dei ricercatori introduce una preoccupante figura detta ‘professore straordinario’, sotto il pieno controllo di enti esterni all’università, che svolge anche incarichi didattici senza la necessità di una qualsivoglia qualifica. Questo significa in sostanza che le grosse realtà economiche avranno la porta aperta per condizionare esplicitamente la formazione culturale e professionale a seconda dei propri interessi.

Questo progressivo, istituzionalizzato processo di privatizzazione sta trasformando l’università in una vera e propria azienda, sottoposta, come tale, alle leggi di mercato. Si lega così a doppio filo il finanziamento degli atenei all’andamento del ciclo economico: in un momento di crisi i primi tagli effettuati dalle aziende andranno a toccare proprio ricerca e personale.

Indicativo del fenomeno è il calo di circa 5 miliardi di euro nel finanziamento privato alle università.

Queste circostanze sfavoriscono gli studenti provenienti dalle famiglie a più basso reddito e gli studenti-lavoratori che si trovano spesso, a causa di questi indiscriminati aumenti, nell’impossibilità di accedere all’istruzione superiore. Basti pensare all’iniquità della prima rata, una quota fissa per tutti, non proporzionale al reddito e quindi causa di discriminazione.

Il peso della crisi viene scaricato non solo sulle spalle dello studente, ma anche su quelle dei lavoratori. Le università infatti, nel tentativo di ridurre i costi (a discapito della qualità) fanno ricorso all’esternalizzazione dei servizi, ricorrendo a società che sistematicamente impiegano lavoratori precari, sottopagati e sfruttati. Basti citare il fatto che durante questa stessa occupazione dell’università le rsu hanno denunciato presso il Senato Accademico l’impiego di personale di portineria per la sorveglianza notturna al di fuori dell’orario e delle mansioni contrattuali, senza alcun tipo di trattativa sindacale.

La logica aziendale

La trasformazione degli atenei in aziende ha comportato l’introduzione di una logica concorrenziale per la quale gli studenti diventano meri clienti di un’università semplice erogatrice di un servizio anziché luogo di formazione culturale.

Si scatena una gara per la conquista del maggior numero di matricole, considerate essenzialmente una fonte di profitto: si moltiplicano corsi dai nomi ammiccanti e dal basso profilo culturale e formativo, si riempiono le città di manifesti pubblicitari, i media di spot, sacrificando ingenti risorse ed una intera generazione di studenti sull’altare del mercato.

Considerato che il sistema universitario italiano spende circa 50 milioni di euro (10 anni fa erano solo 2 milioni) per la pubblicità e che un calcolo approssimativo stima in 6000 euro annui la spesa totale di uno studente in sede, abbiamo che con le sole risorse sprecate in promozione si potrebbe garantire lo studio a oltre 8000 studenti.

Diritto allo studio

In Italia non è mai stato garantito un reale diritto allo studio. Il progressivo smantellamento dell’istruzione pubblica e l’introduzione degli atenei nelle dinamiche di mercato aggravano ulteriormente un quadro già compromesso. I dati parlano chiaro: per fare fronte ai mancati finanziamenti, pubblici e privati, le tasse universitarie sono cresciute del 7% annuo. La situazione degli studenti fuorisede è quanto mai allarmante. Soltanto il 10% circa degli studenti fuori regione riesce ad ottenere un alloggio garantito dalle strutture universitarie. La situazione non migliora per quanto riguarda le borse di studio: il 40% degli aventi diritto, la cui domanda è già stata accettata, non la riceve, mentre tra i maggiori fruitori vi sono evasori fiscali: è pratica comune, infatti, che uno studente si faccia intestare come prima casa una di quelle possedute dalla famiglia, costituendo così nucleo familiare autonomo e risultando nullatenente.

Si calcola che la spesa complessiva per mantenere uno studente dal 1993 al 2003 è aumentata del 17% sul valore reale. Questi aumenti sono particolarmente discriminanti per chi proviene da famiglie a basso o medio reddito e per gli studenti-lavoratori, categorie che spesso coincidono.

Alla luce di tutto questo non riusciamo a definire l’istruzione un diritto garantito per tutti. Si aggiunga che tutti i servizi collaterali alla didattica, servizi indispensabili e almeno idealmente accessibili a tutti come la mensa, i trasporti, l’istituto di credito libri sono stati in una certa misura privatizzati con il conseguente aumento della loro incidenza sulle tasche degli studenti, senza che oltretutto vi corrispondesse un miglioramento di qualità.

RICERCA

La ricerca italiana versa da anni in condizioni umilianti.

La cronica assenza di fondi (intorno all’1% del pil, circa la metà della media dell’unione europea) mortifica tutto l’organico formato dalle più disparate figure, precarie e non, quali ricercatori, assegnisti, dottorandi, borsisti, che pure hanno una preparazione qualitativamente elevata e notoriamente riconosciuta all’estero.

In questo contesto si inserisce la legge Moratti che, uniformando nella precarietà la carriera degli attuali ricercatori, apporta un serio colpo ad un sistema già in difficoltà.

In linea di massima infatti il percorso che emerge da un’analisi della legge è sostanzialmente un percorso precario e sottopagato che dura (nella migliore delle ipotesi) ben oltre i 40 anni di età, in una situazione in cui le possibilità di affrontare il mercato del lavoro con un titolo difficilmente spendibile quale quello del ricercatore sono ben limitate.

In queste condizioni soltanto chi potrà permetterselo affronterà questa carriera che ha come traguardo la stabilità della docenza, mentre le menti più brillanti preferiranno quasi sicuramente la fuga all’estero.

Questa oltre che una legge classista è una legge miope.

DIDATTICA

Stiamo ora prendendo coscienza delle conseguenze della riforma Berlinguer-Zecchino, varata dal governo di centrosinistra.

Abbiamo per questo ritenuto necessario condurre una valutazione su di essa. Va peraltro sottolineato che i decreti attuativi di questa riforma, emanati dal ministero Moratti negli ultimi cinque anni con continue modifiche, hanno mantenuto gli atenei italiani nel più totale caos didattico e amministrativo.

L’istituzione del cosiddetto “tre più due”, scritto, a detta di coloro che l’hanno proposto, per creare più laureati (e soprattutto più laureati nei tempi previsti, con la riduzione degli studenti fuori corso) e per diminuire la durata dei corsi universitari, non ha in realtà raggiunto questi obiettivi.

O meglio, li ha raggiunti a discapito del valore del titolo.

La riduzione della durata dei corsi di laurea si è ottenuta spesso grazie alla compressione dei programmi (prima distribuiti in un percorso quadriennale o quinquennale) e la conseguente diminuzione del tempo disponibile per preparare un esame. Questo ha determinato un ovvio svuotamento di contenuti, troppo spesso affrontati superficialmente e senza la richiesta di una partecipazione critica da parte dello studente, inficiando così la possibilità di un vero approfondimento.

Allo stesso tempo, l’affermazione del sistema dei crediti porta ad una frammentazione della didattica e all’aumento delle propedeuticità, e pretende di assegnare un valore arbitrario a corsi ed esami indipendentemente dai contenuti. Si trasforma così una parte degli esami da sostenere in un mero calcolo quantitativo, mentre dovrebbe esserci una costruzione qualitativa del piano di studi.

All’aumento del numero degli iscritti non è purtroppo corrisposto un adeguamento delle strutture universitarie: per ovviare all’annoso problema del sovraffollamento delle aule sono state create nella migliore delle ipotesi sedi distaccate, spesso fatiscenti e in posizioni difficilmente raggiungibili.

Questa riforma ha inoltre diminuito la possibilità per gli studenti di vivere un’esperienza formativa all’estero, dal momento che un corso di durata triennale (o peggio biennale) non permette a chi vuole partecipare a questi programmi di laurearsi nei tempi previsti. Lo strumento Socrates-Erasmus va pertanto anch’esso ripensato.

Allo stesso modo la mobilità interna nazionale è compromessa dal momento che non vi è alcuna garanzia in merito al riconoscimento dei crediti acquisiti durante il proprio corso di studi da parte degli altri atenei. Addirittura, anche solo iscrivendosi ad un curriculum diverso dal proprio, pur restando all’interno dello stesso corso di laurea e nella stessa Università, parte dei crediti non viene riconosciuta.

Inoltre, sempre contro le dichiarate intenzioni del legislatore, non c’è stato di fatto un maggior collegamento col mondo del lavoro, eccezion fatta per l’attività non retribuita e spesso abusata di stage e tirocini.

È infatti diffusa, da parte delle aziende, l’abitudine di usare gli studenti per mansioni dequalificanti, senza una reale retribuzione e senza concedere loro i normali diritti lavorativi. Questo fenomeno, dunque, oltre ad essere un’occasione mancata per gli studenti, determina un’ulteriore spinta a non tutelare il lavoro degli stagisti e va a costituire fra l’altro una forza lavoro usata per diminuire il potere contrattuale dei normali lavoratori.

È anche importante sapere che è aumentato l’utilizzo di forme di sbarramento, come, ad esempio, l’accesso programmato, reso sistematico dall’introduzione di requisiti minimi che lo studente necessita per potersi iscrivere a determinati corsi di studio. Questo discutibile meccanismo impone il rispetto di certi parametri tra cui la limitazione del rapporto numerico fra studenti e docenti (di per sé sicuramente positivo, ma negativo quando comporta solo un’esclusione di studenti) che porta di fatto all’istituzionalizzazione del numero chiuso. Inoltre, poiché i limiti sono ancora più restrittivi per le lauree magistrali, si crea un ”effetto imbuto”, cioè la sperequazione tra laureati triennalisti e posti disponibili al biennio specialistico.

La laurea triennale è infine generalmente poco riconosciuta in ambito lavorativo. Ad eccezione di alcuni casi, il titolo triennale ha valore praticamente nullo, addirittura negativo: non incoraggia l’assunzione poiché la preparazione che certifica è scadente; anzi, la disincentiva perché suppone che un laureato richieda un trattamento economico adeguato al suo titolo. Paradossalmente è preferito il diploma all’attuale laurea triennale.

Dopo aver già visto la svilente proposta del percorso “ ad Y” per le scuole medie, che distingue tra studio professionale e liceale, con una retrocessione storica di cinquant’anni, si è testimoni ora della volontà di applicazione di questo modus operandi anche all’università.

Il corso di laurea magistrale si vedrà articolato in un primo anno comune seguita da un’articolazione in due differenti curricula biennali, uno professionalizzante e l’altro tradizionale. I due indirizzi avranno due possibilità diverse, perché chi sceglierà il curriculum professionalizzante non avrà più possibilità di accedere al biennio specialistico.

Questa è primariamente un’ulteriore riprova dello svilimento culturale a cui questa riforma costringe la didattica, poiché il percorso professionalizzante va ad allargare le fila dei laureati con una preparazione settaria e di corto respiro.

Il biennio specialistico incorre nei medesimi problemi: poggia sulle basi instabili della preparazione triennale, e quando non si limita a ripetere la medesima offerta didattica induce una frammentazione e un’iperspecializzazione della formazione che non soddisfano la flessibilità richiesta dal sistema lavorativo odierno. Si ottengono così lavoratori flessibili solo nei diritti e non nella formazione.

L’unico ingresso sicuro nel mondo del lavoro è rappresentato dai master, ma questi sono inaccessibili ai più, a causa del numero chiuso e dei costi proibitivi.

Si delinea così una vergognosa dinamica classista, determinata da tutto l’apparato delle riforme, che, nel non dare le stesse possibilità di studio a tutti, distinguendo fra scuole di eccellenza riservate non ai più meritevoli, ma ai più abbienti, e scuole di massa dove si dà un’istruzione di sempre più bassa qualità, vuole perpetuare una società classista. Infatti, solo coloro i quali avranno frequentato, potendoselo permettere economicamente, i corsi più qualificanti, avranno accesso alle più alte cariche della società, mantenendo così, di generazione in generazione, la medesima distinzione di classe.

UNIVERSITA’ E LAVORO

Il riordino dei cicli delle scuole medie superiori si inserisce in un tentativo generalizzato di svalutazione del ruolo dell’istruzione. L’introduzione del doppio binario che separa istruzione liceale e formazione professionale porta gli studenti a dover scegliere il proprio futuro già a 14 anni.

Coloro che, provenendo da famiglie meno abbienti, vivono nell’insicurezza di potersi permettere l’università, saranno spinti ad optare per un istruzione professionalizzante, escludendosi da una formazione universitaria e conseguentemente dalla possibilità di un lavoro non flessibile e precario.

Anche gli studenti superiori che possono permettersi un liceo e quindi la prospettiva di studi universitari non avranno possibilità lavorative inerenti al loro cursus formativo.

Gli studenti che riescono ad accedere all’università sono costretti nel 72% dei casi a lavorare per mantenersi agli studi: questi studenti lavoratori non solo vengono penalizzati poiché non possono dedicarsi allo studio a tempo pieno, ma subiscono anche una serie di limitazioni legate all’obbligo di frequenza e ad un aumento ingiustificato e arbitrario del carico di studio.

L’obbligo di frequenza è causato da una motivazione finanziaria. Infatti le università ricevono fondi anche in base ai laureati in corso, quindi gli studenti lavoratori, che impiegano più tempo a laurearsi, rappresentano un peso economico per l’ateneo. La funzione dell’obbligo di frequenza è proprio quello di portare gli studenti lavoratori ad abbandonare gli studi. Inoltre l’obbligo di frequenza viene utilizzato per coprire un decremento dell’interesse degli studenti a corsi di scarsa qualità. Ciò contribuisce al sovraffollamento delle aule, causato anche dalla mancanza di strutture.

Le discriminazioni per gli studenti lavoratori sono determinate anche dall’intensificazione dei ritmi di studio per mezzo di compitini, moduli e corsi propedeutici.

Contrari all’obbligo chiediamo ed esigiamo il diritto alla frequenza.

Questa riforma avrebbe dovuto assicurare la presenza dei docenti a lezione, nonché una maggiore reperibilità nei ricevimenti, invece l’unica coercizione è per gli studenti.

Ogni studente deve avere la possibilità di frequentare i corsi indipendentemente dalle proprie condizioni economiche e sociali; partendo dall’attivazione di corsi ripetuti anche alla sera e in entrambi i semestri, dall’apertura serale delle biblioteche e di tutte le strutture didattiche necessarie per una normale attività universitaria.

Ciò che nell’istruzione è rappresentato dalle leggi Zecchino-Moratti, nel mondo del lavoro è rappresentato dal Pacchetto Treu prima e dalla legge 30 poi: il processo di privatizzazione dell’università ha fatto leva anche sull’introduzione di queste leggi per precarizzare sempre di più i lavoratori dell’ateneo. L’università specula sui servizi dati in appalto ai privati, come ad esempio il servizio mensa e le pulizie; questo da una parte aumenta la ricattabilità e lo sfruttamento dei lavoratori dell’università, dall’altra peggiora il servizio erogato.

Le carenze del sistema didattico acuite dagli ultimi decreti si ripercuotono in modo nefasto anche nel settore dell’insegnamento nelle scuole medie e superiori. La preparazione di coloro che si accingono a intraprendere la carriera di docenti è scarsa nonostante la lunghezza dell’iter; le scuole di specializzazione per l’insegnamento aggiungono un percorso a pagamento e a numero chiuso di ulteriori due anni, con difficoltà d’accesso a causa dei numeri chiusi e caratterizzati spesso dalla mera ripetizione di esami già sostenuti e temi già trattati durante il precedente percorso di laurea e la scelta stessa di dedicarvisi è condizionata dal clima di insicurezza che grava sul settore. Anche qui la prospettiva di un impiego precario e mal retribuito è altamente disincentivante.

Inoltre si verifica un utilizzo degli studenti universitari per coprire insegnamenti nelle scuole medie e superiori, il quale contribuisce a formare manovalanza intellettuale sottopagata.

La richiesta di sostanziali finanziamenti per la formazione e la ricerca deve essere inserita in un progetto di investimenti a lungo termine: i tagli all’istruzione non colpiscono soltanto gli studenti delle scuole medie e delle università, ma sono un diretto attacco ai diritti dei lavoratori di questi settori e alla cultura in generale. La mancanza di strutture, l’aumento dei ritmi di studio, la precarietà e, in ultima analisi, la selezione di classe che sempre più caratterizzano questo sistema impongono un fronte comune di rivendicazioni degli studenti medi e universitari assieme ai lavoratori.

E’ necessario che tutti prendano coscienza delle conseguenze di queste riforme e partecipino attivamente per costruire un’università di qualità, laica, libera e accessibile a tutti.

L’UNIVERSITA’ CHE VOGLIAMO

Un istruzione accessibile a tutti si basa su una reale garanzia del diritto allo studio e sulla tutela delle strutture scolastiche ed universitarie dall’ingerenza del mercato.

Rivendichiamo un drastico aumento dei finanziamenti pubblici all’istruzione tale da garantire a tutti indipendentemente dal proprio reddito l’accesso a un’università di qualità e ai suoi servizi.

Nello specifico:

  1. Un piano di edilizia scolastica concordato con gli studenti che garantisca strutture adeguate.
  2. Alloggi disponibili ed accessibili a tutti gli studenti fuori sede che ne facciano richiesta.
  3. Apertura serale dell’università sia per le attività didattiche che per i servizi bibliotecari.
  4. Abbassamento sostanziale del prezzo dei libri di testo ed un efficace servizio di comodato d’uso gratuito.
  5. Gratuità per gli studenti del servizio di trasporto pubblico ed accesso facilitato a tutte le attività, i servizi e gli eventi culturali.
  6. Rimozione del precariato in università: tutti i contratti precari devono essere convertiti in contratti a tempo indeterminato.
  7. Aumento sostanziale del finanziamento pubblico alla ricerca che ne salvaguardi la libertà dalle imprese e dalle oscillazioni del mercato.
  8. Salvaguardia delle fasce di reddito medio-basse con una forte progressività delle tasse universitarie, per arrivare alla totale gratuità dell’istruzione pubblica finanziata da una fiscalità generale equa.
Assemblea degli Studenti della Statale Occupata
Milano, 6 novembre 2005