Con la riforma, una schiera di laureati da inserire sul mercato del lavoro con funzioni subalterne o precarie

"Americanizzare" l'università? No grazie!

Anche nelle università inizia l'anno accademico e, ad un anno dall'avvio della riforma, sono già vistose incongruenze e difficoltà. Non è affatto sicuro che i primi studenti costretti a fungere loro malgrado da cavie possano concludere nei tempi previsti il triennio. Che poi quest'ultimo - il titolo della laurea breve - sia effettivamente spendibile sul mercato del lavoro, è tutto da verificare, e sull'avvenire professionale di questi ragazzi, accorsi talora in gran numero ad iscriversi con entusiasmo a corsi di laurea dai titoli allettanti, pubblicizzati come oggetti di consumo di massa, regnano le tenebre più fitte, in mancanza di una qualsiasi logica di programmazione e di orientamento.

La riforma, avviata dal centro-sinistra e continuata con maggiore confusione mentale e arroganza imprenditoriale dal centro-destra, si proponeva un adeguamento dell'università alle domande del mercato e una uniformazione a criteri europei veri o presunti. Quest'argomento è stato usato come una clava, in realtà per "americanizzare" la stessa università europea. Tra l'altro l'Italia è l'unico paese europeo ad aver adottato in modo generalizzato e uniforme il modello 3+2.

Laureati di serie B

Non sappiamo se e a quale prezzo la riforma riuscirà a raggiungere uno dei suoi obiettivi, quello di ridurre l'elevato numero di fuori corso, ma fin d'ora si può prevedere la "produzione" di un gran numero di laureati di serie B, di veri e propri "semilavorati" intellettuali, da inserire con funzioni subalterne e/o precarie sul mercato del lavoro, presumibilmente costretti a cercare ulteriori forme di formazione professionale o a rassegnarsi a periodi di disoccupazione e di precarietà più o meno lunghi. L'altra faccia della medaglia, diventa, allora, la nascita di livelli molteplici di specializzazione e di cosiddetta "eccellenza", che - soprattutto nel quadro politico attuale - sono ancora più esposti a logiche privatistiche e di selezione fondata sul censo e sul conformismo sociale.

Gerarchia del precariato

Non meraviglia il fatto che per una università di questo tipo, oltre ad aprire le porte a varie forme di privatizzazione, si prefiguri un corpo docente, che resterebbe frammentato, con larghe fasce di precariato, ancor più gerarchizzato di quello attuale.

La politica di tagli finanziari e di privatizzazione arrogante del governo di destra ha fortunatamente provocato una reazione generalizzata, anche presso settori moderati. Questo clima rappresenta ovviamente un'opportunità positiva, ma non può bastarci.

Di fronte alla crisi epocale e irreversibile dell'università tradizionale e ai tentativi sofisticati o maldestri di razionalizzazione dell'esistente, occorre avere una rinnovata "idea di università", pubblica e aperta alla società e ai suoi bisogni formativi e culturali. Non potrebbe certamente essere un'idea costruita su misura di una singola nazione, è anzi fondamentale porsi questo problema in una dimensione globale. Il principio di base resta quello del diritto allo studio, inteso nel modo più ampio e progressivo. Diritto allo studio dei giovani, ma anche di tutti i cittadini e le cittadine, durante tutto il corso della loro vita.

Una capacità critica

Il compito primario dell'università in un quadro di democrazia progressiva e partecipata è soprattutto la risposta alla domanda sociale di livelli superiori e diffusi di cultura, di formazione, di ricerca, domanda collegata all'esercizio dei diritti sociali, alla vivibilità dell'ambiente e al complesso dei bisogni umani fondamentali.

Mi pare essenziale - contro la tendenza alla specializzazione e alla professionalizzazione precoce e parcellizzata (secondo un modello americanizzante, in effetti contestato dalle voci più serie della stessa cultura americana) - recuperare il valore dell'acquisizione dei fondamenti istitutivi di aree disciplinari ampie, insieme con la capacità critica e creativa connessa. Né è eludibile il nodo di una ridefinizione della spesa pubblica in funzione del sostegno all'istruzione e alla ricerca. Quando si parla di adeguamento a livelli europei, ci si dovrebbe porre come obiettivo l'emulazione di quei paesi che riescono a investire risorse e ad assicurare servizi e di strutture molto più di noi. Il paragone con l'Europa è a tutto nostro svantaggio, per l'avarizia e la miopia con cui sono trattate le giovani generazioni di studenti e di ricercatori.

L'accesso alla carriera accademica e scientifica è uno dei punti dolenti del sistema universitario nel nostro paese: eppure il numero dei docenti è al di sotto di un rapporto conveniente con quello degli studenti e con la domanda di didattica e sarà sempre più così, in vista dei vuoti che si profilano negli organici nel periodo 2006-2011, quando andranno in pensione contemporaneamente migliaia di docenti.

Il carico didattico

A questo si cerca di ovviare non accrescendo il numero dei docenti di ruolo e rendendo più limpida e democratica la carriera ma ricorrendo al precariato diffuso e aumentando il carico didattico, soprattutto sulle fasce subalterne dell'attuale docenza.

E' invece evidente che a una università democratica per obiettivi e contenuti corrisponde una carriera docente democratica e limpida negli accessi e negli avanzamenti interni. Qui non c'è nulla da inventare rispetto a proposte elaborate ormai da decenni: ruolo unico dei docenti, con articolazione in fasce al suo interno, accesso per concorsi, avanzamento per verifiche periodiche dell'attività svolta. Un paese che non riesce a garantire questo tipo di normalità e invece condanna chi intende dedicarsi alla carriera accademica a forme mortificanti di precarietà e di subordinazione che si prolungano per quasi tutta la vita, non è un paese civile, almeno da questo punto di vista. Non c'è da meravigliarsi se poi ne patisce le conseguenze.

Domenico Jervolino
Roma, 2 ottobre 2002
da "Liberazione"