I ventisei anni di un pontificato fortissimo, durante il quale è cambiato il mondo.

La tormentata era di Karol Wojtyla

Dal crollo dell’Urss alla guerra in Iraq.

Se ne è andato il papa polacco, finisce un’era. Un carisma fortissimo, la forza dei suoi gesti, la profezia come testimonianza personale di fede fino all’ultimo minuto della vita. Per oltre ventisei anni Wojtyla è stato più che un papa; è stato la Chiesa stessa, non solo perché ne ha plasmato le gerarchie ma soprattutto perché non poteva immaginarsi chiesa senza la sua figura. Per la millenaria istituzione e il suo miliardo di fedeli nel mondo sarà un passaggio molto difficile.

Chi ha meno di 30-35 anni non può ricordare altro papa che lui. E se nella vecchia Europa la circostanza può apparire marginale, per le terre più giovani dell’America, dell’Africa e dell’Asia questo diventa un giudizio di partenza. Eppure, in quel lontano 1978, si celebrarono addirittura due esequie solenni: ad agosto per Paolo VI, che aveva condotto a termine il Concilio Vaticano II e ai primi di ottobre per Giovanni Paolo I, il papa dei 33 giorni. Tra l’immagine del cardinale polacco che, appena indossata la veste bianca, si affaccia al balcone con portamento sicuro e italiano incerto e quella dell’anziano pontefice con il viso gonfio, costretto sulla poltrona a rotelle, corrono due universi. Nel frattempo è cambiato il mondo, e non si può certo dire che il Papa non ci abbia messo del suo.

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Nell’ultimo libro “Memoria e identità”, che ora assume il significato di un testamento spirituale, Wojtyla minimizza il proprio ruolo umano nel crollo dei regimi del socialismo reale.

Se le “ideologie del male” sono state sconfitte, per lui non può essere merito di un solo Vicario ma direttamente di Cristo e di Maria. L’intero pontificato wojtyliano, che ha portato la Chiesa oltre il secondo millennio celebrando il passaggio con un Giubileo universale, è attraversato da un forte riferimento al mistero e ai disegni provvidenziali ed è costellato di segni mistici. Dalla profezia del cardinale Wyszynski, che lo predisse papa, alla convinzione che la pallottola sparata da Ali Agca il 13 maggio 1981, giorno dedicato alla Madonna di Fatima, fosse stata deviata dalla Madre di Dio.

I cambiamenti del mondo hanno spinto il Papa stesso ad adeguarsi, a riflettere, a correggere, ma sarebbe impresa ardua cogliere contraddizioni tra le varie fasi del suo pontificato.

Eppure, con gli anni, gli era cresciuto dentro il rovello di un mondo che era cambiato non sempre nella direzione da lui sognata. Qualche delusione gli veniva dal trionfo del capitalismo; a questo però il cardinale di Cracovia era preparato: l’ex operaio dello stabilimento Solvay era un fermo sostenitore della dottrina sociale della chiesa anche nei confronti del liberalismo.

Il pessimismo di Wojtyla, caparbiamente compensato dalla speranza di fede, investiva alla radice l’uomo contemporaneo, soprattutto occidentale. E’ il papa che ha contrastato con energia e coraggio la guerra, è stato tra i primi a intuire il rischio di uno scontro di civiltà tra cristianesimo e islam e ha fatto il possibile per scongiurarlo.

Al contempo era allarmato da una concezione della laicità delle democrazie tale da sottrarle alla legge di Dio, ritenuta “naturale” e quindi innata all’umanità, sia che si trattasse dei valori di fraternità, eguaglianza e libertà, secondo lui riscoperte “evangeliche”, sia che si trattasse del no all’aborto, alle unioni omosessuali o alla fecondazione artificiale. Un’inquietudine grande gli faceva gridare biblicamente al “silen- S zio di Dio”: lo allarmava la prospettiva di una nuova guerra micidiale. A quel punto non ha avuto esitazioni a rilanciare l’enciclica del suo predecessore Giovanni XXIII, la “Pacem in terris”, per riproporre la via del dialogo, questa volta verso i paesi musulmani, con l’intento di far prevalere i settori più moderati. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ha compiuto uno dei gesti storicamente più importanti del pontificato convocando ad Assisi il grande summit delle religioni per la pace, il 24 gennaio 2002.

Giovanni Paolo II non si è impegnato invece in correzioni dottrinarie: la “guerra giusta” continua a rientrare tra le possibilità ammesse dal catechismo della Chiesa, nonostante il Papa abbia azzerato i casi in cui autorizzerebbe un intervento armato. La diplomazia vaticana, invece, pur mobilitata per evitare l’ultimo attacco all’Iraq, ha poi seguito le regole della realpolitik.

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“L’immortale” Giovanni Paolo II ha attraversato sei presidenze Usa, il crollo dell’Urss, le briciole del Muro di Berlino, lo sgretolamento dei Balcani - cui non sono estranee responsabilità della Chiesa -, il “nuovo” ordine mondiale dettato dai bombardieri nel Golfo, in Serbia, in Afghanistan, il rovinoso esito del neocolonialismo nelle guerre africane dimenticate, il crollo del comunismo “reale” e insieme la nascita della contestazione antiglobale.

Ce n’è abbastanza per ricavare l’impressione di un punto rimasto fermo mentre tutto attorno girava. Le impressioni però ingannano e infatti anche la Chiesa è tutt’altro che immobile e libera da dilemmi. Neppure il Conclave, creatura ormai tutta di Wojtyla, può nascondere le differenze, gli sterminati confini del cattolicesimo.

Paolo VI era stato il papa del dubbio, il suo dialogo con la modernità, già inaugurato da Giovanni XXIII, era proteso a conoscere l’altro e non troppo condizionato dal peso della Tradizione.

Le innovazioni di Giovanni Paolo II appartengono ad un’altra storia. Fin dalle prime mosse, Wojtyla pensa soprattutto alla rievangelizzazione delle società secolarizzate.

«Aprite le porte a Cristo», ripete di continuo, soprattutto ai giovani.

Il suo cristianesimo non è un fatto culturale, non è una morale: è la fede in Dio fatto uomo.

Non gli bastava essere il capo di una religione, magari dell’unica direttamente salvifica, proponeva la propria “profezia” al mondo intero, incurante di andare controcorrente. Gli piacevano le figure carismatiche, rese omaggio a Gandhi, ma esaltava la prerogativa propria dell’istituzione vaticana, fino al punto di legittimare una moderna forma di “temporalismo”.

La dottrina della Chiesa, i principi “naturali” che vuol rappresentare, la condotta morale, erano per Giovanni Paolo II valori politici per tutta l’umanità.

Era lui il primo missionario e diplomatico; d’ora in poi il Papa non potrà più permettersi una vita sedentaria; nel mondo globalizzato se il vescovo di Roma non viaggia la Chiesa perde universalità, ritorna solo occidentale. E Wojtyla non è stato un papa occidentale per due buone ragioni: la prima, naturalmente, è che era slavo, cerniera tra le due parti d’Europa e osservatore ammirato e profondamente “mariano” dell’ortodossia orientale; la seconda è che, vinti i sistemi dell’Est, pur non schierandosi contro il capitalismo, sapeva che la Chiesa gioca almeno metà del suo futuro tra le favelas del Sud.

Wojtyla dunque terzomondista? Per niente. Ha combattuto la teologia della liberazione e ne ha trattato con diffidenza anche la versione indigenista di vescovi come Samuel Ruiz nel Chiapas. Una battaglia condotta attraverso il bollettino delle nomine e delle rimozioni vescovili. La polemica teorica ha preso di mira gli eccessi, i rischi di contaminazione con il pensiero marxista o, per quanto riguarda l’inculturazione, quelli del sincretismo religioso. Valga per tutto quel dito che Wojtyla puntò contro padre Ernesto Cardenal, che in quel momento - il 4 marzo 1983 - era ministro del governo sandinista in Nicaragua. «Devi metterti in regola con la Chiesa », intimò il Pontefice al povero frate trappista. Nessuna commistione con le idee rivoluzionarie poteva essere tollerata.

Altra cosa erano i rapporti con i regimi, fossero il fascista Pinochet o la Cuba di Castro. A misurarsi con quelli Giovanni Paolo II non ha mai rinunciato.

Il suo viaggio a Santiago resta negli annali per la sconcertante vista del Papa e di Pinochet affacciati assieme alla finestra della Moneda. Intanto però il Vaticano preparava una via d’uscita dalla dittatura. La visita a Cuba segna il culmine della realpolitik apostolica, incurante degli stessi Stati Uniti. Per il resto la spinta liberatoria dei settori progressisti della Chiesa, importanti soprattutto in America latina, è stata a lungo metabolizzata in un contesto che permette anche a teologi come Frei Betto di dichiarare che, sotto sotto, la teologia della liberazione non è stata sconfitta del tutto. In realtà il Papa polacco non si è distaccato dalla tradizionale dottrina sociale, rilanciandola anzi con la “Centesimus annus” e fissando come confine sul lato della liberazione dei popoli la “Populorum progressio” di Montini. In Wojtyla la denuncia della brutalità capitalistica, dal primo mea culpa nella Casa degli schiavi nell’isola di Gorée in Senegal (febbraio 1992) alla condanna dello sfruttamento economico e di quello consumistico, trova costantemente un limite nel desiderio di conciliazione sociale. In Messico, il Papa consegnò la “Ecclesia in America”, l’esortazione sinodale che sollecita l’unità e la concordia tra ricchi e poveri anche sul piano del continente, considerato unico dalla Groenlandia alla Terra del fuoco.

Giovanni Paolo II conosce bene il marxismo e all’Università di Riga si concede di rivalutarne l’anelito originario di fronte ai cittadini dell’ex impero sovietico appena crollato.

Proprio l’esperienza polacca gli consiglia di prendere le distanze dal neoliberismo: come degenerazione, non come sinonimo del capitalismo.

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Wojtyla ha mostrato una preoccupazione fortissima per le sorti culturali e religiose dell’Europa, “dagli Urali all’Atlantico”.

Dopo tutto il cristianesimo, nato nel vicino Oriente, piantò qui gli accampamenti più vasti, dividendosi successivamente.

E’ in Europa che la dottrina cattolica figlia della Controriforma ha dovuto fare i conti con l’illuminismo e la Rivoluzione francese. Giovanni Paolo II riteneva di aver chiuso definitivamente il capitolo di quella russa mentre temeva il diffondersi di una nuova mentalità secolare, di una indifferenza religiosa magari mescolata a tante religiosità private e posticce, insomma di una apostasia silenziosa. Era suo l’incubo di un nuovo laicismo. Ecco perché indicava radici cristiane anche nei valori della democrazia, nei diritti universali dell’uomo cercando di coniugare la ragione intellettuale con la fede. Wojtyla “sentiva” la crisi occidentale, la delusione per la ragione e le molteplici spinte verso l’irrazionale. L’insistenza degli ultimi anni sulle origini cristiane della cultura e delle istituzioni europee non era casuale, né quando si preoccupacreazione.

Giovanni Paolo II ha lanciato una nuova offensiva contro un certo modo di intendere la laicità dello stato. Qui torna il tema delicatissimo della “legge naturale”: non sono ammessi valori “storicamente” assoluti, per Wojtyla l’alternativa al codice morale e divino della creazione sarebbe solo il relativismo etico. La separazione tra istituzioni pubbliche e religione, riconosciuta come valore, rischia così di venir messa in discussione fin dalle fondamenta del diritto e della organizzazione sociale, non attraverso la sopraffazione di una chiesa ma per l’accoglimento della sua morale alla base del contratto sociale. A dispetto delle accuse di fondamentalismo che alcuni vescovi rivolgono all’Islam, la Chiesa di Wojtyla ha cercato proprio su questo punto un’intesa con gli esponenti musulmani negli organismi mondiali.

Il “risveglio religioso” islamico, sebbene viziato da eccessi, suscita ammirazione e forse un po’ d’invidia tra le gerarchie che sperano possa stimolare un analogo recupero va delle legislazioni civili né quando fondò proprio su questo tema l’intesa ancora fragilissima con gli ortodossi più riottosi, quelli di Atene.

Profondamente polacco, Giovanni Paolo II era grande cultore della “nazione”; per anni in ogni suo viaggio si chinò a baciare il suolo. Patria per lui era «padre», patriottismo era «onorare i padri» e la Chiesa stessa era «memoria» dell’umanità.

Ha sempre citato poeti e artisti, non ha disdegnato neppure le manifestazioni del folclore, nemmeno le danzatrici a seno scoperto dell’Africa.

Eppure Wojtyla sapeva bene che è finita l’epoca degli stati nazione.

Sono molte le tappe della sfida tra Wojtyla e la modernità, anch’essa affrontata a due mani, una per accogliere, metabolizzare le idee compatibili dentro il disegno di una “egemonia” culturale cristiana, l’altra per contrastare alcuni frutti del pensiero laico, in primo luogo sui costumi sessuali e sull’approccio scientifico alle questioni della famiglia e della prodi identità da parte del mondo cristiano. Una religiosità individuale e intimistica, non comunitaria, che evapora sulla soglia della parrocchia ritraendosi silenziosa di fronte alle idee laiche della società, è quanto di peggio Wojtyla abbia colto nel futuro.

«Prendete il largo», ha detto ai cattolici, per un atteggiamento missionario che trasformi i fedeli in evangelizzatori militanti e ponga rimedio alle critiche di poca fede su cui, tra l’altro, fa leva la propaganda dei nuovi culti. Si spiega così l’incoraggiamento per i forti “carismi” dei nuovi movimenti, dai seguaci di don Giussani ai Focolarini di Chiara Lubich, ai neocatecumenali, all’Opus Dei e ai Legionari di Cristo. Come osserva il filosofo Massimo Cacciari la «tensione» tra le organizzazioni fortemente leaderistiche e la struttura istituzionale della Chiesa rientra nella «fisiologia» del cattolicesimo.

Ma da Giovanni Paolo II hanno ricevuto sostegno i movimenti più diversi, senza trascurare quelli che, come l’Opus Dei, legano la testimonianza di fede ai ruoli sociali, sovente elevati, secondo una lettura per proprio conto del Vaticano II.

Quasi un’eresia, se si ripensano le origini di quel Concilio, ma non completamente se si seguono le interpretazioni e le applicazioni che Wojtyla ha incoraggiato per due decenni. I dicasteri vaticani hanno finito per spegnere gli spiriti più innovativi, il Concilio è stato evocato per giustificare posizioni conservatrici soprattutto in tema di governo interno, comunità ecclesiale, celibato dei preti, ruolo della donna nella Chiesa, famiglia, omosessualità.

Quanto alla contesa con il moderno, l’enciclica “Fides et ratio” insieme alle scuse per Galileo Galilei e al Giubileo del 2000, sono gli atti più significativi.

I rapporti con la scienza sono senz’altro migliorati ma la “retta ragione” continua ad opporsi alla “ragione”. Il pontefice, che aveva deciso di non fare la fine di Gorbaciov, era convinto che su certe materie passasse un confine morale - noi diremmo ideologico - da non valicare, pena la perdita di identità dell’intero sistema. Altri vescovi, quel confine, lo avrebbero eretto molto più indietro, cancellando tutti i mea culpa e le aperture.

I gesti compiuti verso gli ebrei, così come certi discorsi per la pace, appaiono anche tra i più umani di Wojtyla. Esprimono l’uomo che ha visto morire amici ebrei, che ha conosciuto la «bestialità» del razzismo.

C’è questo passato dietro la sua visita alla Sinagoga di Roma e, anni dopo, in quel biglietto infilato nel Muro del Pianto a Gerusalemme per sanare antichissime e violente ferite con «i fratelli maggiori». L’umanità di Wojtyla era l’altra faccia del suo carisma mistico, lo corroborava con una biografia mai rinnegata e anzi esaltata di giovane canoista, lavoratore, attore, sciatore, studioso e infine di anziano piegato e piagato dai mali. Un prete poco “pretesco”, un’icona di “umanità”.

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Nella partita tuttora aperta tra modernità e Chiesa, il papa ha sfruttato un po’ del proprio “postmoderno”. Si è imposta la folta schiera di nuovi santi e beati da lui proclamati. Wojtyla non è stato neppure sfiorato dai timori politici che avevano trattenuto Paolo VI dal portare sugli altari il clero spagnolo degli anni Trenta. Ogni colpo inferto alla Chiesa, per il papa polacco, era una testimonianza di fede. Ciononostante altri martiri, come Romero, sono rimasti sulla panchina del campo di santità.

Della devozione popolare fanno naturalmente parte i miracoli attribuiti ai santi. In alcuni casi il sostegno di Giovanni Paolo II a questo aspetto della fede è stato evidente, come nella proclamazione di Padre Pio o di personaggi a forte valenza mistica come Teresa di Lisieux.

Non ci sono soltanto i “dottori”, voleva significare l’intellettuale Wojtyla. La Chiesa ostenta prudenza in materia di effetti soprannaturali - anche se avverte la crescente “concorrenza” su questo piano dei nuovi culti -, ma a Giovanni Paolo II non dispiaceva la venerazione verso i santi. Il Papa che, per il proprio stemma, aveva scelto il motto «Totus tuus» votandosi a Maria, non poteva che apprezzare il fenomeno. Non sono tuttavia i miracoli, bensì la testimonianza terrena, a contrassegnare i santi dell’era polacca.

Fino al punto di allargare la cerchia oltre i confini della canonizzazione cattolica ed aprire l’anima al martirio di altre confessioni cristiane, come avvenne con la celebrazione giubilare dei “Testimoni della fede” di fronte al Colosseo. Il gesto più infelice del magistero di Giovanni Paolo II in tema resta la beatificazione congiunta di papa Roncalli e dell’ultimo papa- re Pio IX, esempio di quanto abbia contato la logica del contrappeso.

Ogni volta che l’azione del Vescovo di Roma ha assunto un carattere più profetico alle gerarchie vaticane sono toccati gli aggiustamenti. Vale per la dottrina, affidata al lucidissimo Ratzinger, che di Concilio e di revisione conciliare è fine maestro; e vale naturalmente per la diplomazia vaticana.

Finché c’era il socialismo reale, Wojtyla mantenne ai posti di responsabilità gli uomini della Ostpolitik vaticana - primo fra tutti Agostino Casaroli -, ma puntando apertamente allo sgretolamento dei sistemi dell’Est. In un secondo tempo ha invece affidato la politica vaticana nelle mani di Angelo Sodano.

Ma Giovanni Paolo II non è mai stato un papa della “gestione”, preso dagli affari e dagli studi di curia. Ha preferito guardare direttamente ai problemi del mondo, intuirne le tendenze fondamentali, riunirsi a Castel Gandolfo con i suoi amici filosofi, fare i conti con la storia per ripulire l’immagine della Chiesa attraverso i mea culpa. Anche nel fisico voleva esprimere la suggestione fascinosa del vecchio saggio.

Un leader così non si dimette a nessun costo, almeno finché gli regge la testa.

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Nell’eredità che Wojtyla lascia alla Chiesa spiccano l’ecumenismo e il dialogo tra le religioni.

Ma i passi in avanti compiuti tra le diverse famiglie del cristianesimo sono pochi rispetto agli appelli. Il primo obiettivo di un papa del centro Europa non poteva che essere la variegata comunità degli ortodossi.

Facendo leva sulle esigenze poste alle chiese orientali dal post-comunismo, ha “accerchiato” con i suoi viaggi in terra ortodossa il riottoso patriarca russo Alessio II: Romania, Ucraina, Kazakhistan, quindi l’apoteosi unitaria in Armenia con i fratelli separati del Catholicos Karekin II. In quei paesi, poveri ma ricchi di giovani, Giovanni Paolo II si è presentato come alfiere di unità tra i credenti ma in Russia la sua chiesa appare troppo occidentale e lui è sempre stato considerato troppo polacco.

Talvolta, inoltre, la Curia romana e i vescovi locali hanno compiuto atti che gli ortodossi hanno vissuto come offesa.

Anche con i luterani il Papa ha stimolato un importante accordo sulla spinosa querelle teologica della grazia. Quanto agli anglicani, l’ex primate Carey ha spinto la porta santa di San Paolo insieme al Papa e al patriarca ortodosso. E i cristiani d’Oriente? Le differenze in teologia sono praticamente ridotte a zero, ma lo scoglio più grande è proprio il successore di Pietro. In una delle più importanti encicliche, quelle che potrebbero avere un futuro, Wojtyla ha assegnato alla Chiesa il compito di ricercare le forme in cui trasformare il papato in un magistero che possa essere accettato da tutti i cristiani, così come accadde per il primo millennio. Un disegno che lo stesso pontificato ha contraddetto con i rigidi limiti imposti alla pur intensa attività dei Sinodi e alle Conferenze episcopali nazionali.

In tutti questi anni la Chiesa si è identificata completamente con il Papa, è tutta wojtyliana, adesso è orfana del suo carisma unico e solitario, mentre le diocesi europee sono costrette a supplire alla carenza di preti con sacerdoti africani o asiatici.

Non è detto che sia una Chiesa più forte quella lasciata da un fortissimo papa.

Qualche tempo fa, al Sinodo d’Europa, il cardinale Martini aveva proposto in sostanza un nuovo concilio. Si guadagnò i rimbrotti di una Curia e di un Concistoro che erano sempre più fatti ad immagine e somiglianza di Wojtyla. Ma proprio quella resta la cruna dell’ago.

Fulvio Fania
Roma, 3 aprile 2005
da "Liberazione"