Gloriose. Compassionevoli. Forti. Generose. Solidali. Democratiche. Proletarie.

La grande storia delle Cooperative

Dalle Società di mutuo soccorso alla Lega

Mazzini e Marx gli ispiratori, ma la forza arriva dalle classi operaie e bracciantili. Come sono nate e come si sono radicate nel tessuto sociale italiano

Gloriose. Compassionevoli. Forti. Generose. Solidali. Democratiche. Proletarie.
Per fare il pezzo sulle “cooperative rosse” tiro giù dallo scaffale un librone di quasi 900 pagine - Renato Zangheri Giuseppe Galasso Valerio Castronovo, “Storia del movimento cooperativo in Italia”, Einaudi - e mi trovo in mano una storia straordinaria, emozionante, oserei dire romanzesca. Piena di passione. Lunga 150 caldissimi anni.

In principio è come un lumicino, un barlume in fondo a un tunnel buio. In principio è come un flebile grido, un modo per non soccombere. In principio si chiama mutuo soccorso. Nasce dentro e fuori gli opifici, nei campi, nelle corporazioni artigiane, nei fondaci; e nasce come una difesa, uno strenuo tentativo di migliorare le condizioni di vita delle classi più povere: ad opera - questo è il lato miracoloso - delle classi più povere stesse.

Nella prima metà dell’Ottocento, il movimento ha già una certa consistenza (ma vi sono tracce che risalgono al 1700). Società di mutuo soccorso sono quelle dei facchini di Genova e di Livorno, degli orefici a Torino, dei fabbri ferrai; si chiamano Pio Istituto dei Cappellai, Pia Unione dei tessitori di seta, Congregazione sussidiaria degli artieri (a Bologna); anche Associazione dei maestri d’ascia, dei calafati, degli zavorrai, dei barbieri, profumieri e parrucchieri. A Milano il Pio Istituto tipografico, fondato nel 1802 dal torcoliere Gabriele Stefanoni, elargisce assistenza a infermi e senza lavoro col contributo mensile di due lire austriache da parte dei soci. E nel 1862, un anno dopo l’Unità, le statistiche ufficiali contano 432 società di mutuo soccorso, la maggior parte delle quali in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia, Toscana, Umbria, Marche. Scopo fondamentale di queste società è aiutare i soci in caso di malattia; ma si fanno carico anche di soccorrere gli invalidi e i vecchi con vitalizi, sussidiare orfani e vedove, aprire scuole serali per i soci e i figli dei soci, fare prestiti e anticipazioni, garantire generi di prima necessità a prezzo di costo, fornire la materia prima ai lavoratori.

Anche prendersi cura dei funerali. «E’ facile vedere qui il germe di attività cooperativistiche che si svilupperanno entro pochi anni», annota Zangrandi.

Le società di mutuo soccorso aumenteranno rapidamente, si uniscono marinai, pescatori mugnai, soldati e bassi ufficiali, sarti, armaioli, muratori, pettinai, cocchieri, trecciaiole, accenditori di gas, confettieri, acquaioli.

E c’è il pensiero di Mazzini a dare un grande impulso in questo primo inizio; il fondatore della Giovine Italia vede infatti in tale associazionismo dal basso l’opportunità di «fornire una larga base operaia alla opposizione antimonarchica e antigovernativa ». Fermenti politici e classisti animano da subito gran parte delle società operaie nate spontaneamente.

«Dal grido di Spartaco al fremito di indignazione che si levò dalle barricate di Parigi, fu una continua protesta contro l’ingiustizia che domina la terra», si può sentire denunciare in uno dei primissimi congressi. E ci sono anche assemblee che approvano la proposta di una sottoscrizione per acquistare fucili per Garibaldi.

Il mutuo soccorso si espande sul finire del secolo, nel 1876 nasce a Milano la prima Unione cooperativa; a Imola c’è già l’Altare, definita «il modello delle società cooperative veramente capace di operare la trasformazione del presente regime capitalistico »; c’è la Società per la fabbricazione delle maioliche e delle stoviglie di Forlì, che anch’essa «è eminentemente democratica». E a Milano è nata, da uno sciopero e per iniziativa della Società mutua e di miglioramento dei muratori aderente al Partito Operaio, la prima Cooperativa di costruzione, gloriosa capostipite. Ed è sempre a Milano che il 13 ottobre 1886 si tiene il primo congresso dei cooperatori italiani, «vi emergono in varia misura orientamenti liberali, cattolici, radicali, operaisti, socialisti », scrive Zangrandi. E’ nata La Lega nazionale delle cooperative. Ed è già forte anche un movimento cooperativo dei braccianti, soprattutto in Emilia Romagna (nel Ravennate è il tempo di Andrea Costa, «con lui il socialismo diventerà la molla del moto di rigenerazione che investirà tutta la società e darà dignità umana alle masse dei contadini»).

Niente di regalato. L’associazionismo operaio e bracciantile non opera certo in un clima favorevole. Il secondo congresso del Partito socialista rivoluzionario che avrebbe dovuto tenersi a Ravenna nell’agosto 1883 è impedito dalla polizia, Andrea Costa deve fuggire all’estero, una repressione durissima si scatena contro i movimenti che agitano le campagne in Lombardia, in Emilia, nel Polesine.

Tre anni più tardi, lo stesso Andrea Costa così descriverà la situazione italiana: «Il voto amministrativo negato; la legge sugli infortuni respinta; la libertà dello sciopero manomessa col carcere; certi diritti, accordati dalla legge alle società cooperative, calpestati ogni giorno».

Niente di regalato. Tutto conquistato con lacrime, sudore e sangue. Alla testa del movimento cooperativo di fine Ottocento, c’è il Partito socialista; in prima fila i suoi dirigenti più noti - Andrea Costa, Nullo Baldini, Camillo Prampolini - ma anche migliaia di suoi cooperatori impegnati in diverse regioni. In Europa da quasi cinquant’anni si aggira il famoso Spettro; ed il testo più conosciuto di Marx sulla cooperazione è semplice e chiaro.

Al «cieco dominio delle leggi dell’offerta e della domanda, che costituiscono l’economia politica della borghesia», Marx oppone «la produzione regolata dalla previsione sociale, che è l’economia politica della classe operaia». E cita esplicitamente come conquiste anche di principio i progressi del movimento cooperativo inglese. Marx tra i muratori.

Sul finire del secolo, la Lega è forte di oltre 2000 soci, il suo giornale “La Cooperazione italiana”, è una voce che si fa sentire; ma, ancora una volta, non è affatto così pacifico e scontato. «Nel maggio 1898 la situazione precipita e con le altre associazioni politiche e sociali dell’estrema sinistra vengono sciolte, liquidate, incriminate decine e decine di cooperative» (comprese quelle cattoliche, nate nel frattempo). E’ il tempo di Umberto I e Bava Beccaris.

Ma il movimento cooperativo non lo fermano.

Nel 1903 viene creato il Consiglio superiore del Lavoro e la Lega è ammessa, con tre delegati, a rappresentare il settore della cooperazione.

Con le Camere del lavoro è siglato il “patto” basato sulle tre forme di organizzazione: resistenza, previdenza, cooperazione. Non si contano le discussioni, le diatribe, le polemiche, gli scontri ideologici e politici che costellano anche questo primo periodo della Lega, dentro e fuori. Ma il cammino continua, e piuttosto bene.

Dal 1902 al 1914, le cooperative censite dalla Lega nazionale sono passate dalle poco più di 2000 alle oltre 7000; anche gli iscritti, ormai intorno al milione e mezzo, si sono triplicati. Nel 1911, al congresso del suo venticinquesimo anniversario, la Lega vede per la prima volta la partecipazione ufficiale di Nitti, del ministro della Giustizia Orlando, del sindaco di Roma Nathan. Ma il 1911 è anche l’anno della guerra contro la Libia: la Lega non sbaglia, prende posizione contro la “criminosa avventura” e il suo giornale esce con un commento che ha per titolo “Il delitto consumato”.

Non sta mai a guardare.

Nel 1913 si affacciano le elezioni politiche, le prime a suffragio universale: e la Lega, in nome del carattere di classe del suo movimento, si presenta con una piattaforma programmatica che chiede, tra l’altro, la rappresentanza operaia diretta in tutti i corpi consultivi dello Stato, l’obbligatorietà delle assicurazioni sociali, la istituzione di un ministero del Lavoro.

Non sta mai a guardare.

Quando si leva sul mondo l’alba tragica della Grande Guerra, il 7 agosto 1914 l’organo della Lega esce con il primo commento sul conflitto europeo che ha per titolo: “L’immane delitto”.

Ancora una volta ha scelto bene la sua parte.

Distrutte dal fascismo, le cooperative rinascono più grandi e più forti. Dal carico di banco, ai colossi Coop. Il libretto della spesa a rate. Quella lega “rossa” che sosteneva lo sciopero degli operai.

Ci volevano i fascisti per far fuori le cooperative “rosse”.

A modo loro, naturalmente: con gli incendi, le devastazioni, gli assalti. Un “lavoro” fatto presto e bene. Le cooperative sono, infatti, da subito sotto attacco, già nel gennaio ’21 subiscono il vandalismo squadrista. In giugno l’organo della Lega - “La cooperazione italiana” - pubblica tre lunghi elenchi di violenze fasciste contro sedi di cooperative; in settembre i raid squadristi nella sola provincia di Bologna provocano gravi danni.

Non solo violenza, Il regime a grande velocità mette in piedi una propria organizzazione di cooperative “nere”, con sedi provinciali, un ufficio centrale a Roma, un piano governativo di finanziamento. E appena a un mese dal suo insediamento, il governo fascista approva un decreto con il quale si ristruttura l’intero settore cooperativo, e dichiara soddisfatto di aver vinto la battaglia «contro il monopolio dei “rossi” e la cooperazione parassitaria». Presto e bene.

Nel dicembre del ’22, viene confiscata dal prefetto la cooperativa di Molinella a Bologna; a Torino è sciolta d’autorità l’Alleanza cooperativa torinese; subito dopo è liquidata la Federazione delle Cooperative agricole di Pavia. Ma, anche a prescindere dalla continuazione delle violenze, il disegno dei fascisti - scrive Giuseppe Galasso - «è quello di mettere le mani sul movimento cooperativo e di farne un elemento di rilievo nel loro nascente sistema di potere ». E ci riescono, ovviamente. Il cerchio si chiude, quando di lì a poco il Sindacato nazionale delle Cooperative viene posto sotto la direzione del Partito Nazio- C nale Fascista e un decreto-legge (24 gennaio 1924) mette sotto la vigilanza prefettizia «ogni tipo di associazione», ivi comprese le cooperative. Nel giro di due anni, la Lega passa da ottomila federate a 1600; anche le più importanti cooperative del Cremonese sono chiuse dal prefetto, perchè imputate di «essere frequentate da elementi che si danno convegno per un’opera di propaganda antinazionale».

Poi il Gran Consiglio delibera di «unificare sotto le insegne del Littorio tutto «il sano movimento cooperativo» e di costituire un opportuno Ente nazionale fascista della Cooperazione.

Fine. Nell’ottobre 1925, dopo trentanove anni, la “Cooperazione italiana” cessa le pubblicazioni.

E il 14 novembre dello steso anno, il prefetto di Milano scioglie la Lega e tutte le sue articolazioni.

A volte ritornano. Anche le cooperative. Così è che all’inizio del 1947 si contano «da 18.000 a 20.000 cooperative, con un numero di soci oscillante tra i 4 milioni e mezzo e i 5 milioni. Come dire una cooperativa per ogni campanile». Nascono, come a Napoli, anche dagli aiuti americani.

Il dopoguerra ha lasciato intorno macerie e fame, e «la cooperazione la cercavano tutti, dall’impiegato, il cui stipendio era insufficiente a sfamare i figli, all’operaio disoccupato, così come la ricercava il ministro dell’Agricoltura per far coltivare le terre incolte, o quello dei Lavori pubblici per l’esecuzione di lavori urgenti, o quello dell’Alimentazione per far diventare bianca, o almeno rossa dalla vergogna, la borsa nera», scrive Alberto Basevi, uno dei padri del cooperativismo prefascista.

E nascono al Sud molte cooperative contadine, sotto l’impulso del decreto varato dal ministro dell’Agricoltura, il comunista Francesco Gullo, che prevede la concessione di terreni «alle associazioni di contadini regolarmente costituite in cooperative o in altri enti».

In sostanza, è una rapida rifondazione del movimento.

Nel maggio 1945, su iniziativa di un apposito comitato, nel quale sono presenti tutti i partiti del Cln ad eccezione della Dc (che punta a un proprio movimento cooperativistico di stampo cattolico), è ricostituita la Lega nazionale delle cooperative. Quattro mesi dopo, ai primi di settembre, si svolge il primo congresso del dopoguerra (il ventesimo dalla sua fondazione): vi partecipano 573 delegati che rappresentano 4722 cooperative con un milione e mezzo di soci.

Il primo presidente della Lega risorta è il socialista Emilio Canevari, uno dei massimi esponenti della cooperazione emiliana (il Pci aveva però “portato a casa” un Giuseppe Di Vittorio segretario generale della Cgil...).

Storia di oggi o quasi. Storia di un cinquantennio complicato, forte, in gran parte vincente.

Ombre e luci, cenere e diamanti.

Storia di una forza che ha sempe camminato, e combattuto, fianco a fianco con il movimento operaio, i partiti della sinistra, il sindacato.

L’art. 45 della Carta Costituzionale appena varata riconosce anche sotto il profilo legislativo il “fine” sociale della cooperazione: «un articolo - scrive Valerio Castronovo - nato da una intesa formalmente tripartita (Dc, Psi, Pci), “da madre cattolica e padre marxista”». La Lega è un piatto ricco. E’ storia, non si può negare: il Pci ne prende fulmineamente possesso, sbancando in fretta socialisti, repubblicani, azionisti, socialdemocratici.

Il movimento cooperativo infatti entra a perfezione nella strategia lanciata daTogliatti del “partito nuovo” e delle “vaste alleanze” (e bisognava anche, magari, estirpare dal movimento cooperativo ogni residuo «del vecchio riformismo italiano maneggione». Insomma, «le vecchie cariatidi riformiste », come poi scriverà a proposito lo stesso Togliatti, su “Rinascita”, nel 1951). E’ storia. Al congresso della Lega, che si svolge dal 15 al 17 giugno 1947, i comunisti hanno il sopravvento, con oltre il 58 per cento dei voti e 141 delegati su 236. La scelta del nuovo presidente la fa Togliatti in persona: Giulio Cerretti.

Un dirigente comunista di primissimo piano, un uomo di valore, tra i fondatori del partito, antifascista militante, combattente in Spagna, decorato dall’Urss con l’ordine della “bandiera rossa” e della “medaglia della vittoria”.

Vero. Da questo momento, come scrive ancora Valerio Castronovo, «di fatto l’apoliticità della Lega divenne una formula fittizia». Nel ’48 aderisce al Fronte popolare e così la batosta del 18 aprile si ripercuote su di essa con gravi contraccolpi; poi l’incalzare della guerra fredda fa il resto: il Pci, spinto ad arroccarsi e a difendersi, «instaurò un sistema di rapporti con la Lega che si ispirava più alla “cinghia di trasmissione”, che a un esercizio di tutela e promozione ». Fu Lega “rossa”, chi lo nega. Nel ’49, il secondo congresso della Lega ebbe “un cappello leninista “ e, come scrive Castelnovo, «cosI finì per far prioprio l’indirizzo sancito dal Pci». Una volta per tutte, «senza più veli e infingimenti». Luci ed ombre, la corazza della ideologia e la dedizione del grande cuore comunista e socialista. E’ la storia delle cooperative nel dopoguerra, ad esempio. La storia della stagione delle grandi lotte bracciantili e operaie, sotto l’imperversare di Scelba.

Santa Cooperazione. Lo riconoscono anche i critici della “cinghia di trasmissione”. «Lo sforzo finanziario che venne richiesto alle cooperative - e che esse si addossarono talora al di là delle loro possibilità concrete sì da pagarne successivamente costi molto salati - fu imponente ». E niente affatto «circoscritto agli episodi di lotta più noti (alle Officine Reggiane, alla Barbieri e Burzi di Bologna, alla Riv, alla Breda, tanto per citarne alcuni).

Dovunque e nelle situazioni più diverse, senza l’intervento delle cooperative, ben difficilmente i partiti di sinistra e le organizzazioni sindacali avrebbero potuto sostenere sino in fondo le campagne elettorali e le agitazioni politiche (Valerio Castronovo, pag 601 di “ Storia del movimento cooperativo in Italia”, Einaudi).

Sorella Cooperazione. In quegli anni ci fu un fiorire quasi patologico di spacci cooperativi; solidarietà, fraternità, aiuto umanitario furono valori che contarono più degli stessi aspetti economici. «I braccianti e i contadini più poveri sentivano la cooperativa come una loro creatura, e non ci si rivolgeva ad essa solo per una differenza di prezzi. Molte cooperative non avevano orario, addirittura si teneva aperto anche la domenica ». Fu l’epopea del “credito di banco”, che in certi momento arrivò a sfiorare il 40 per cento delle vendite. Il leggendario “credito di banco”: il sistema misericordioso del pagamento della spesa a rate settimanali o anche mensili. Quello degli importi segnati sui due famosi “libretti”, uno tenuto dal banconiere e uno dal cliente, dai quali a ogni pagamento veniva cancellata la relativa pagina.

Santo libretto cooperativo.

Permise a molte famiglie italiane di mangiare, di sopravvivere.

Ne è passata di acqua sotto i ponti. Il miracolo economico, il centro-sinistra, la fine della “cinghia di trasmissione”, la fuoruscita dai binari classisti della “cooperazione degli scamiciati”, la riorganizzazione commerciale, la fine del pulviscolo populistico degli spacci, la nascita dei colossi iper e super.

Ancora una lunga, accidentata, vincente storia. Arriva il miliardario marchio Coop, la finanziaria che si chiama Finsoe, la madre di tutte le assicurazioni che si chiama Unipol, arrivano un milione di addetti, quasi 8 milioni di soci, i fatturati astronomici.

Arriva Consorte, arriva la “scalata” (ma questa, come si dice sempre, è un’altra storia...).

Maria Rosa Calderoni
Roma, 4 gennaio 2006
da "Liberazione" (due puntate il 4 e 6 gennaio 2006)