Modifica dell'ordinamento penitenziario

41 bis, la vera ratio della riforma

In questi giorni la Commissione giustizia della Camera è impegnata nell'esame del disegno di legge con cui il governo progetta di riformare due articoli dell'ordinamento penitenziario vigente (il celebre 41bis e il meno noto 4bis della legge 354/1975), per mezzo dei quali dieci anni fa, all'indomani della strage di Capaci, venne introdotto il «carcere duro» per i boss mafiosi. In attesa del passaggio in aula, diverse ragioni raccomandano di seguire questa discussione con la massima attenzione.

In primo luogo - com'è stato sottolineato da diversi interventi apparsi anche su Liberazione nelle scorse settimane - il ddl presentato dal ministro Castelli e già approvato dal Senato (con la sostanziale opposizione di Rifondazione) ruota intorno all'estensione del «carcere duro» a reati diversi dall'associazione di tipo mafioso (il traffico di «clandestini» e l'attività «terroristica o eversiva») e rivela con ciò la volontà del governo di ripristinare la legislazione emergenziale degli anni di piombo e di disporre di strumenti repressivi tanto più efficaci quanto più vaghe e generiche sono le figure di reato interessate da questa «riforma». Vi è poi un secondo elemento - l'introduzione definitiva di norme attualmente soggette a proroghe annuali - a proposito del quale autorevoli esponenti dell'opposizione hanno formulato giudizi discordanti.

Una questione rilevante e delicata

Secondo alcuni tale stabilizzazione rappresenterebbe un pericoloso passo in avanti verso l'emergenzialismo. Altri la ritengono, al contrario, opportuna quale garanzia di norme efficaci nella lotta contro Cosa Nostra, e sottolineano piuttosto i pericoli connessi all'attuale carattere transitorio di questa normativa, che rischia di fare di essa la materia di trattative e baratti con le cosche. Se a tutto ciò si aggiunge la questione più strettamente politica (perché mai proprio questo governo - non certo privo di legami con ambienti mafiosi, come attesterebbero da ultimo, se verificate, le rivelazioni di Antonino Giuffrè - ha deciso di stabilizzare le norme sul «carcere duro»?), non è difficile farsi un'idea della rilevanza di questa partita e della delicatezza delle sue eventuali ripercussioni. (Il che d'altra parte - sia detto tra parentesi - non toglie la perplessità dinanzi alla decisione dell'Unione Camere Penali di impegnarsi a fondo sul 41bis per chiederne l'abrogazione: meraviglia che, nel generale sfascio del sistema giustizia e a fronte del nulla su altri versanti, le Camere penali considerino prioritarie la separazione delle carriere e, appunto, l'abrogazione del regime speciale che riguarda circa 670 detenuti a fronte di oltre 56mila persone, costrette in condizioni intollerabili, benché in regime di detenzione «ordinario».)
Ma torniamo al merito del problema e proviamo a chiarirne i termini essenziali, muovendo dagli aspetti a nostro giudizio meno opinabili. Sull'estensione del «carcere duro» a trafficanti e «terroristi» (della quale si minaccia anche la retroattività) non si possono avere incertezze. Si tratta di una modifica ingiustificabile da ogni punto di vista e allarma non poco che anche i Ds si siano pronunciati a suo favore.

Estensione inaccettabile

Lo scopo delle restrizioni disposte dal 41bis (del 4bis ci occuperemo più avanti) è uno e uno soltanto: evitare che il detenuto per reati di mafia possa mantenere contatti con le cosche e proseguire, dal carcere, nella propria attività criminosa che si dispiega in un ferreo controllo del territorio. Quest'ultimo elemento connota la struttura criminale di Cosa Nostra e il potere di comando che i boss tendono a esercitare dall'interno del carcere attraverso la catena di collegamenti costituita dai familiari, dai legali e dagli altri soggetti ammessi ai colloqui. Al contrario, tale elemento è del tutto assente sia nel caso del traffico di «clandestini» che nelle «associazioni terroristiche o eversive» di cui discorre il disegno di legge di Castelli. Dal che si evince senza possibilità di dubbio che, facendosi scudo della lotta alla mafia, il governo intende in realtà munirsi di un'arma di intimidazione e di repressione contro ben altri soggetti: «scafisti» (e quanti migranti rischiano di finire in questa categoria?) e «terroristi» (e chi, tra i portatori di dissenso e di conflitto, potrebbe dirsi al sicuro - Cosenza docet - da tale accusa?). Non è possibile non vedere come il progetto del governo si inserisca a pieno titolo in quel processo di criminalizzazione dell'opposizione sociale e politica che, dopo l'11 settembre, informa di sé la pratica dei governi occidentali sia sul piano interno che nelle relazioni internazionali. La nostra opposizione a questo progetto è e sarà, in tutte le sedi, intransigente.

Una applicazione specifica e mirata

Da quello che è per noi un punto fermo in tutto questo discorso - il principio, più volte ribadito anche dalla Consulta, in base al quale il «carcere duro» può essere ammesso solo in presenza del concreto pericolo di contatti del detenuto con le organizzazioni mafiose - discendono altre due conseguenze, anch'esse, ci pare, poco problematiche: (1) l'applicazione del 41bis deve riguardare il singolo detenuto, la sua specifica figura criminale (non intere categorie di detenuti, individuate in base ai reati loro ascritti), e deve avere carattere temporaneo (il che naturalmente non esclude proroghe del regime restrittivo); (2) il ricorso al 41bis deve sostanziarsi in misure restrittive effettivamente mirate a impedire il collegamento con le organizzazioni criminali all'esterno del carcere: ogni provvedimento non riconducibile a tale finalità (teso, per esempio, a esercitare pressioni sul detenuto allo scopo di indurlo a collaborare) confliggerebbe con il «senso di umanità» e con le finalità rieducative della pena nei quali la Costituzione (art. 27) ravvisa vincoli invalicabili della sanzione detentiva.

Cronicità della minaccia mafiosa

Detto questo, rimangono alcuni aspetti sui quali la discussione è ancora aperta. Come si diceva, l'ipotesi di conferire carattere di norma definitiva al 41bis non è apprezzata da tutti e c'è chi vi legge persino una implicita ammissione della sconfitta dello Stato nella lotta alla mafia. In realtà non c'è bisogno di giungere a simili conclusioni. Ferma restando l'assoluta irricevibilità dell'estensione della normativa a figure di reato diverse dall'associazione mafiosa, rendere definitivo il 41bis implicherebbe, semmai, il riconoscimento della cronicità della minaccia mafiosa, sulla quale non pare davvero ci sia motivo di discutere. Per contro, come si notava, tale decisione spazzerebbe via una importante materia di scambio politico con le cosche, e a questo proposito è opportuno considerare che riaffiorano nella maggioranza tentazioni a dir poco sospette. E' un fatto non trascurabile che il ministro Castelli mediti di recuperare l'ipotesi originaria (secondo la quale il 41bis andava mantenuto sino alla fine della legislatura), che lascerebbe ampi margini di trattativa con le cosche proprio in concomitanza con la scadenza elettorale.

Si discute ancora intorno ad altre due questioni: quale autorità debba essere preposta all'applicazione del provvedimento restrittivo, e se sia in linea di principio accettabile che quest'ultimo venga continuamente prorogato, sino a coprire l'intera durata di una pena detenzione. Rispetto al primo problema, la soluzione prospettata nel ddl (che conferisce al guardasigilli la facoltà di applicare il regime restrittivo) appare condivisibile (perché coerente con l'esigenza di decisioni rapide) limitatamente al primo provvedimento, mentre è indispensabile che - secondo quanto disposto a più riprese dalla Consulta - ogni decisione di proroga sia rimessa al tribunale di sorveglianza. Quanto alla prorogabilità del 41bis, la necessità (ancora di recente sostenuta da qualche compagno) di porvi un limite tassativo non sembra riposare su argomenti persuasivi, poiché nulla garantisce che prima o poi tutti i detenuti sottoposti a 41bis rinuncino a cercare contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza: non è certo questo, per esempio, il caso di Totò Riina o di Leoluca Bagarella. Ciò che resta dirimente è piuttosto il vincolo della verifica giurisdizionale circa la concreta attualità della capacità del detenuto di stabilire tali collegamenti.

Benefici e misure alternative

L'assoluta centralità di quest'ultimo elemento permette anche di prendere posizione in modo semplice e netto sull'art. 4bis, che condiziona la concessione di benefici (permessi e lavoro esterno) e di misure alternative alla scelta del detenuto di collaborare con la giustizia. Il governo intende mantenere questa norma ed estenderla alle figure di reato già individuate in relazione alla riforma del 41bis. È un orientamento che secondo noi va assolutamente contrastato richiedendo l'abrogazione del 4bis. Ciò per il semplice fatto che - a differenza delle misure cautelari previste dal 41bis - l'intera normativa premiale appare ispirata ad una irricevibile logica inquisitoria, che non soltanto implica inammissibili interferenze con le decisioni degli imputati in materia di condotta processuale, non soltanto prevede discriminazioni non dettate da esigenze di sicurezza e tali da pregiudicare il percorso di reinserimento dei detenuti, ma rischia per di più di inquinare alla fonte l'eventuale attività di collaborazione per il fatto stesso di conferirle la funzione di una merce di scambio.

In una parola, mentre siamo per l'abrogazione dell'art. 4bis, guardiamo con favore al definitivo inserimento del 41bis nell'ordinamento penitenziario, a condizione che venga meno la sua estensione a reati non connessi all'attività mafiosa e che la sua applicazione venga sottoposta, in sede di reclamo e di proroga, al vaglio giurisdizionale.

Una trappola potenziale

Resta, da ultimo, la questione politica: la necessità di sciogliere quello che pare a prima vista un dilemma e che è in realtà una trappola potenzialmente devastante. Perché Forza Italia vuol rendere definitivo il 41bis dopo avere conquistato il cento per cento dei seggi parlamentari in Sicilia, dopo avere regalato alle cosche leggi ad alto valore aggiunto (come il falso in bilancio, le rogatorie, lo scudo fiscale, il legittimo sospetto), dopo avere eletto decine di indagati per associazione mafiosa, dopo avere cacciato Tano Grasso dall'anti-racket, dopo avere teorizzato la necessità di rassegnarsi a «convivere con la mafia», dopo avere messo in cantiere opere pubbliche che faranno piovere su Cosa Nostra una pioggia di miliardi? Non se lo chiedono i soli cittadini onesti di questo paese: se lo sono chiesto anche i Bagarella, i Madonia, i Graviano, gli Scaduto, preoccupati di vedere sfumare, con la stabilizzazione del «carcere duro» la speranza di tornare al comando delle cosche, se non proprio alla libertà. E hanno dato, da veri esperti quali sono, una risposta che invita tutti quanti ad attente riflessioni.

Il famoso proclama di Bagarella al processo Arca di Trapani e la lettera dei boss detenuti nel carcere di Novara, lo scorso luglio, hanno puntato il dito contro quei politici che hanno disatteso le «promesse» e quegli «avvocati delle regioni meridionali» che, dopo avere difeso i capimafia, «siedono negli scranni parlamentari e sono nei posto apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi». Le minacce contenute in quei messaggi hanno ha una sola spiegazione possibile. I boss reclusi leggono nel «nuovo 41bis» prospettato dal governo la scelta di scaricarli. Con due scopi: riconquistare una verginità perduta a causa delle troppe e troppo evidenti collusioni; potere, su questa base, aprire trattative con la mafia vincente dei Messina Denaro, con la quale progettare nuove alleanze. Con ogni probabilità, Bagarella e soci non si sbagliano. È assai verosimile che sia questa - insieme alla volontà di dotarsi di uno strumento repressivo ad ampia discrezionalità da usare contro il dissenso sociale e politico - la vera ratio della «riforma» del «carcere duro» propugnata da Castelli. Il che, sullo sfondo della progressiva realizzazione del «Piano di rinascita democratica» della P2, non pare proprio un dato rassicurante.

Alberto Burgio
Roma, 8 dicembre 2002
da "Liberazione"