Dolcino e gli Apostolici, il movimento trecentesco di ritorno alle origini del cristianesimo

Un eretico dell’uguaglianza

Il sostegno delle comunità montanare raccontato in un libro di Corrado Mornese

Chi ha paura di fra’ Dolcino, così lontano nel tempo, così medievale per pensamenti e condotte, così ridotto nel cono d’ombra che la storia destina ai perdenti?
Eppure, allo scorcio d’inizio del Trecento, egli e la sua “setta” furono follemente temuti ed ancora più esecrati, imputati di nefandezze e violenze inusitate, come racconta distesamente una narrazione di parte inquisitoriale e fratesca, l’ Historia Fratris Dulcini Heresiarche, oggi disponibile nell’utile traduzione di R. Orioli.

Breve storia

Tutto era cominciato con il Concilio di Lione (1274), che ereticizzava il dissenso, introduceva l’Inquisizione, imponeva una teologia di carattere teocratico che non poteva che scontrarsi con altre ed opposte istanze pure presenti da gran tempo tra il “popolo di Dio” e nella stessa Chiesa gerarchica.
La frattura prodotta da questo Concilio fu di portata storica: basti pensare che esso pose le basi per una successiva identificazione tra “eresia” e “magia - stregoneria”, dei cui frutti avvelenati patirà l’intera Europa con roghi isolati, dapprima, e con la caccia a streghe e stregoni poi e per lungo tempo (XV-XVII secolo).
Dolcino fu dapprima seguace e poi erede spirituale di Gherardino Segalello da Parma, passato alla storia per la penna non propriamente a lui favorevole di Salimbene de Adam. Gherardino aveva dato vita agli Apostolici, un movimento di penitenza e di ritorno alle origini dell’uguaglianza cristiana e della più stretta povertà francescana.
Mal gliene incolse, perché, dopo il carcere duro e la successività condanna a quello perpetuo, fu mandato a morte il 18 luglio del 1300, e a nulla gli valse la protezione del vescovo di Parma, Obizzo Sanvitali, che aveva cercato di proteggerlo ricorrendo all’espediente di farlo passare per “ydiota”, come potevano suggerire i comportamenti giullareschi di Gherardino, in tutto imitatore di Francesco, il secondo Cristo.

Un intellettuale radicale

Un intellettuale radicale Dolcino, che ne eredita lo spirito ed il movimento, è un personaggio assai diverso, un intellettuale radicale che tenta di dare fondamenti teorici e teologici alle sue scelte, come testimoniano due lettere da lui indirizzate tra il 1300 ed il 1303 ai fedeli, anzi “ad univeros Christi fideles”, a tutti i fedeli di Cristo, come ricorda con riprovazione un resoconto lasciatoci dall’inquisitore Bernard Gui.
La seconda lettera mette in campo i sette angeli dell’Apocalisse e procede a riconoscerne uno ad uno, grazie ad un’esegesi consolidata nel metodo figurale. Benedetto da Norcia, papa Silvestro, s. Domenico, s. Francesco, Segalello, Dolcino stesso (l’angelo di Tiatira) e, ultimo, il Papa Angelico che verrà, pronto a condurre la Chiesa verso la grande prova della fine dei tempi.
Lo schema storico elaborato da Dolcino è di impronta millenarista e gioachimita, benché assai più complesso e quadripartito.
Quando Dolcino diffonde la prima lettera si è appena rifugiato con molti seguaci sulle montagne del Trentino, dove trova buona accoglienza da parte delle vicinanze dei montanari.
Da qui dovrà fuggire nel 1304, per trovare riparo prima nella bassa Valsesia - dove già sorgono borghi di stampo cittadino, corre molto denaro e fiorisce il commercio -, poi tra le impervie montagne dell’alto Sesia, nella zona di Campertogno e della Parete Calva. Infine, riparerà nelle montagne biellesi, spintovi di forza dalla violenza dei potenti associati.
Qui si consumerà la tragedia degli Apostolici, sconfitti dalla crociata che aveva ricomposto papato, poteri feudali, comuni cittadini e comunità di pianura contro gli “idioti” delle montagne. I roghi che seguono la sconfitta militare e nei quali subiscono la morte Dolcino, Margherita, la sua compagna, e Longino Cattaneo, il suo luogotenente, sembrarono porre del tutto fine all’utopia cristiana degli Apostolici.

Lotta per l’autonomia

Nell’indagine di questo articolato composto sociale dell’inizio dell’età borghese si inserisce il non consueto studio di Corrado Mornese (Fra Dolcino, Gherardino Segalello e una resistenza montanara medievale, Millennia, Novara 2000), la cui suggestiva tesi di fondo sostiene che la resistenza degli Apostolici trovò l’appoggio da parte di comunità montanare che già stavano resistendo contro chi lavorava per la fine della loro autonomia socio-politica (feudatari, comuni cittadini, pianura) e per il loro impoverimento, per una accelerazione drastica del loro confinamento nella miseria.
La tesi di Mornese è inserita dal suo autore dentro il dibattito storiografico su fra’ Dolcino, per troppo lungo tempo diviso tra detrattori ed estimatori, tra i quali ultimi Dante, ma anche Antonio Labriola, che promosse Dolcino a simbolo della lotta antigerarchia per il cambiamento sociale.
Questa interpretazione veicola un uso politico della storia generoso, ma infido perché ideologico. Un uso dal quale, tuttavia, neppure Mornese pare mettersi al riparo, quando sostiene che l’opposizione armata di montanari ed apostolici all’aggressiva politica di assorbimento e deprivazione messa in atto da feudatari e comuni cittadini presenta già i caratteri di una lotta per il diritto di cittadinanza o quando sembra promuovere la posizione storica-ideologica degli Apostolici a prefigurazione di alcuni contenuti peculiari della modernità o, ancora, quando gli parve di individuare nella cultura profonda degli apostolici “un dio democratico”, un vero e proprio ossimoro o paradosso teologico, questo, in particolare se riferito ad un qualsiasi credo monoteista.

La fine di un modello di vita associata

Non è questa, tuttavia, la parte di sostanza del lavoro di Mornese, che va invece individuata nella tesi storiografica di fondo: la sconfitta di fra’ Dolcino e dei suoi significò insieme la sconfitta delle libertà delle vicinanze montanare, la fine di un modello di vita associata di lunga durata, ma che prima di soccombere resistette con tutti i mezzi a sua disposizione.
Gli Apostolici si inserirono in questa resistenza già in atto e semmai contribuirono a fornire ad essa una base ideologica strutturata ed un’organizzazione armata.
Credo che la tesi di Mornese sia pienamente sostenibile grazie alla comparazione con altre vicende simili a quella della resistenza difensiva dei montanari piemontesi a fronte di un riassetto radicale dei poteri e, soprattutto, delle basi economiche di sopravvivenza.
La storia di lunga durata delle comunità montanare organizzate in vicinanze, o in vicinie o in comunanze, presenta numerosi riscontri, duplicazioni o, meglio, ricorrenze sorprendenti, dentro il tempo ciclico che le è proprio.

Due secoli dopo in Valcamonica

Agli esordi del ’500, qualcosa di simile accadrà in Valcamonica, dove intere comunità opporranno resistenza alla drammatica ridistribuzione della ricchezza messa in atto dal mercantilismo della recente dominazione veneziana.
Anche qui la guerra contadina sarà camuffata dai poteri forti (civile e religioso) come eresia e stregoneria, con relativi rituali sacrificali di decine di montanare/i arsi sulle pubbliche piazze.
Ma già molto prima, tra il secondo Duecento ed il primo Trecento, eretici e dissidenti avevano trovato buona accoglienza presso le vicinie di questa valle lombarda, poiché i due paradigmi di riferimento della vita comune, fondati sul principi dell’uguaglianza naturale e spirituale, e praticati attraverso la regola del solidarismo redistributivo di sopravvivenza, erano identici. Ne sono una riprova le forme di conduzione della comunità civile (vicinia-vicinanza-comunanza) e di quella dell’associazionismo religioso (confraternita), che presentano figure e modalità sostanzialmente identiche.
Ancora in Valcamonica, ma molto lontano dal tempo di fra’ Dolcino e all’interno di tutt’altra cultura religiosa, attorno alla metà del ’600, presso un’altra “setta”, quella dei Pelagini, anch’essi perseguitati e sradicati, si potrà ritrovare la certezza utopica dell’avvento di un “papa angelico”, un pontefice riformatore e rinnovatore della Chiesa stessa, nel capo e nelle membra.
Forse il tracciato di un’indagine storica dei ceti popolari sconfitti, se improntato nella direzione di scoprirne ed illustrarne anche le morfologie permanenti, potrebbe riportare in vita se non il panico che molti in tempi lontani provarono per fra’ Dolcino e gli Apostolici, per lo meno una più onesta attenzione verso la storia delle cosiddette classi subalterne e i loro progetti, perché mostrerebbe come la storia, almeno talvolta, andrebbe percorsa anche con i “se”, attraversata, cioè, da ipotesi utopiche che sono state sconfitte, ma non per questo sono liquidabili come morte o inefficaci.

Roberto Andrea Lorenzi

Roberto Andrea Lorenzi
Roma, 18 ottobre 2001
da "Liberazione"