Adesso una nuova generazione urla: «Peppino sei un nostro compagno»

Giustizia per Peppino Impastato

Dopo la condanna di Tano Badalamenti

Non è facile descrivere cosa si prova, nel mezzo del corteo del Social Forum che attraversava Palermo per protestare contro il convegno mondiale sull'E-governament voluto da Berlusconi, alla notizia della condanna del boss Badalamenti per l'omicidio di Peppino Impastato. Non è facile perché centinaia di ragazzi e ragazze sfilavano urlando "Peppino Impastato ce l'ha insegnato…". Ragazze e ragazzi che non erano ancora nati quel 9 maggio del 1978 quando i killer di don Tano uccisero a Cinisi quel giovane rivoluzionario. Non è facile neanche per quelli che di Peppino furono compagni di lotta e in questi anni non hanno ceduto alla verità ufficiale costruita nei laboratori dei depistaggi di stato e sfilavano assieme a quei ragazzi, combattuti tra continuare il corteo e andare all'aula bunker dell'Ucciardone per esserci, finalmente, dopo venticinque anni. Tutti a chiedere, come usa qui, è "uscita" la sentenza? Un vita e una morte, quella di Peppino, ancora in grado di dare emozioni, suscitare passioni, motivare impegno e militanza in una terra di frontiera come la Sicilia. Una generazione nuova, lontana dalle sue illusioni e dalle sue sconfitte, ritrova in lui, nella sua radicalità, nella sua capacità di irrisione e di messa in discussione del potere - della famiglia a Cosa nostra - un nuovo gusto per la ribellione e la lotta. Per questo ne scriviamo il giorno dopo la sentenza, per non rinchiudere tutto in un tribunale, per riparlare di movimento e di antimafia sociale. Ma questa sentenza è importante anche per la storia giudiziaria di Cosa Nostra. Non solo per la verità che ci riconsegna, quella cercata e ricostruita per anni dalla straordinaria mamma Felicia, dal fratello Giovanni, dal lavoro certosino del Centro di documentazione di Umberto Santino e Anna Puglisi, da compagni e compagne che per oltre venti anni si sono ritrovati il 9 maggio a Cinisi, spesso in solitudine, a ricordare una storia difficile dell'antimafia non ufficiale, diversa da quella dei difensori dello stato o degli uomini delle istituzioni caduti, anche loro in troppi, negli anni passati.


E' una sentenza importante perché è la prima, in Italia, contro il capo della "cupola" antecedente l'avvento e il dominio dei corleonesi di Riina su Cosa nostra. Finalmente Badalamenti è mafioso e portatore di morte anche per un tribunale italiano. Parliamo di un boss pericoloso, forte politicamente già da quando collaborò assieme agli altri boss mafiosi allo sbarco degli americani; fortemente legato al potere politico e a quella Dc di cui e attraverso cui nel suo territorio controllava tutto. Un boss che, nonostante i suoi dinieghi, ha esteso il suo potere oltreoceano grazie al traffico delle armi e della droga. Ma questa forza non l'avrebbe raggiunta se non avesse goduto di un sistema di coperture e collusioni istituzionali. Del resto, tra Cinisi e Terrasini si sono sempre addensate ombre sul ruolo di alcuni settori delle istituzioni e degli apparati dello stato. O forse pensiamo che - da Giuliano a Genco Russo, da Navarra a Badalamenti, da Riina a Provenzano - la mafia abbia potuto acquisire questo potere e questa capacità pervasiva dei gangli vitali dell'economia e della società senza un sistema di protezione e di collusioni?

Per questo ora vogliamo andare avanti. Sapere perché, e per tutelare quali interessi, l'arma dei carabinieri depistò le indagini, facendo passare per anni Peppino come un terrorista; perché, invece che perquisire le case dei mafiosi si mise sotto sopra la casa di Peppino e quelle dei suoi compagni; perché i responsabili di quei depistaggi fecero brillanti carriere fino a giungere ai vertici del Ros, il corpo scelto dell'Arma per la lotta alla mafia. Continueremo a batterci per avere verità e giustizia su tutto questo, ma intanto, dopo questa sentenza, i vertici dell'Arma chiedano scusa a Felicia, Giovanni e a quanti, per un quarto di secolo hanno rivendicato, contro il loro operato, ciò che oggi una sentenza riconosce a livello giudiziario. In questi ultimi anni, anche a Cinisi, abbiamo potuto apprezzare il lavoro, l'impegno, il rigore e la trasparenza dei carabinieri e delle forze dell'ordine nell'impegno contro la mafia. Questo non cancella le responsabilità del passato, sulle quali si è dilungata anche la relazione della commissione parlamentare antimafia che, con il suo prezioso lavoro, ha contribuito anche all'indagine difficile e rigorosa della procura palermitana. Dopo 24 anni il prossimo 9 maggio, a Cinisi, sarà davvero diverso. La nostra verità è, finalmente, anche quella della giustizia italiana e con il Social forum saremo in tanti, vecchi e giovani, ragazzi e ragazze, a dire di Peppino... "un nostro compagno".

Francesco Forgione
Palermo, 13 aprile 2002
da "Liberazione"