A proposito della santificazione di Padre Pio

Il Mercato e il Tempio

Vien da dire: il vero miracolo Francesco Forgione, alias Padre Pio da Pietralcina, l’ha fatto da morto. Dall’aldilà (si fa per dire), il frate più discusso della storia della Chiesa (giudicato da padre Agostino Gemelli un truffatore e osteggiato da Giovanni XXIII come da Paolo VI) si è trasformato non solo in una rispettabile macchina da soldi, ma in un efficace strumento di dominio ideologico. Mentre volano i profitti (nel solo 2001 siamo a 50 milioni di euro), mentre si progettano chiese faraoniche, mentre Roma si riempie di pellegrini, reliquie, gadget, santini, biglietti-truffa, statuette, tutta l’Italia impazzisce per lui. Impazzisce anche la residua coscienza laica, come testimonia l’incredibile scivolata (populistico-opportunistica) di Antonio Bassolino. Impazziscono i laici e i religiosi, gli intellettuali e il popolo dei pellegrini, gli scettici e i creduloni. Solo qualche vescovo (e per nulla progressista, come Monsignor Maggiolini) si consente un dubbio radicale: ma è una minoranza sparuta, che fa comunque fatica a farsi sentire. Come è potuto succedere, nel 2002, agli albori del Terzo millennio, che il Bel Paese si sia così ridotto? Perché tutto è diventato lecito tranne che parlar male di Padre Pio?
La risposta sembra ovvia, anzi sacrosanta, tanto per restare in tema. Un business spirituale di queste dimensioni, che oltretutto promette un’espansione quasi illimitata, coinvolge troppi interessi (e appunto troppe anime) perché sia concepibile, semplicemente, metterlo in discussione. Come dice Monsignor Maggiolini, cioè, «i mercanti sono tornati nel Tempio». Né si tratta di una novità assoluta: il rapporto tra religione, imprenditorialità diffusa e profitto è sempre stato molto intenso e non contraddittorio. Perfino nella Riforma, che nacque in opposizione alla Chiesa corrotta dall’avidità terrena, trionfa in realtà lo “spirito del capitalismo”, come ci ha insegnato Max Weber. In questo senso, sì, *nihil novi sub sole*: s’intende salvo le proporzioni e lo scenario, che si fa assordantemente mediatico, transnazionale, globale, anzi glocale. Insomma, San Giovanni Rotondo chiama Internet: il cinismo di avanguardia e la superstizione di massa creano una nuova coinvolgente telenovela. E l’economia, cioè i profitti, spiccano il volo. Amen.
Amen? C’è almeno un’altra ragione che muove la kermesse da cui saremo quest’oggi sommersi via Tv: ed è precisamente lo spettacolo stesso, la sua fruizione coatta di massa. Il lato più oscuro del cattolicesimo wojtyliano - quelle “schegge” di Medio Evo che nutrono la sua teologia anticonciliare e quella di Padre Pio - si sposa perfettamente con la tendenza alla *spettacolarizzazione*. Del resto, tutto ciò che dell’eredità del 900 vive una crisi di fondo viene sottoposto a questa ricetta: si spettacolarizzano la politica, la cronaca, lo sport, la giustizia - perfino i rapporti di coppia. Nessun evento esiste realmente se non è sensazionale, pluriannunciato, o “speciale”: guardate la guerra. Nessuna identità sopravvive se non diventa un “prodotto” promozionato secondo le regole del marketing: guardate come Berlusconi ha lanciato, a suo tempo, un partito che aveva per nome uno slogan sportivo. Così accade alla religione: che scaccia da se stessa la fede e la pratica autentica del messaggio religioso, e si autocelebra come Festival straordinario al quale sono ammessi alcuni milioni di persone. Oggi questi milioni - adepti inconsapevoli di una setta fondamentalista che ha reinventato un gigantesco mercato delle indulgenze - vivranno se stessi come, finalmente, i protagonisti di un grande programma televisivo. Un programma sacrilego, in fondo. L’unico che può competere con i mondiali di calcio.

Rina Gagliardi
Roma, 16 giugno 2002
da "Liberazione"