Ivan non aveva famiglia. I genitori erano morti quando lui aveva appena sedici anni.

Il maratoneta di Allende

La storia di Ivan, il tipografo che amava correre con la maglietta «Salvador per sempre». Poi il golpe militare, la tortura e la morte

Eravamo giunti al terzo caffé, e all'ennesimo sigaro. Cubano il suo, brasiliano il mio. Rivedevo Julio dopo quattro anni. Stessa pioggia battente, Santiago che sembrava il solito film in bianco e nero, quel bar al quartiere Providencia avvolto dal nostro fumo e dalle nostre parole. 1995, luglio. Eravamo partiti da Pinochet e dalla sua finta demenza. Per arrivare all'11 settembre 1973, a quando finì il sogno di Allende e cominciarono le violenze, gli omicidi, gli stupri, di quando il Cile era un fiume di sangue, di disperazione, di ingiustizia.

Julio aveva perso i suoi amici più cari, la fidanzata. Riuscì a salvarsi per caso, passando il confine dopo mille peripezie e cercando di sopravvivere al dolore a Rosario, in Argentina. Nel '90 il ritorno a casa. La voglia di ricominciare a vivere, malgrado tutto.

«Ma non è facile. Vivere e dimenticare... La porta sempre con me, come sai». Julio tirò fuori dal portafoglio consunto una foto a colori, spiegazzata. «Com'era bella, Rosita. Il suo sorriso, lo vedi?, era contagioso. Amava i bambini, l'hanno ammazzata in una squallida e sporca cantina, solo perché era la mia compagna. La compagna di un comunista. Il suo corpo, così bello, così perfetto, era irriconoscibile. Le avevano strappato i denti, l'avevano violentata, le avevano spezzato le ossa. No, non è facile, amico mio...».

Julio faceva il giornalista per una radio della capitale. Raccontava storie di sport. Alto, magro, con due baffi leggeri, era un accanito lettore di Emilio Salgari: «Per noi sudamericani è un mito, ci ha spalancato i cancelli dell'avventura. Tanti grandi scrittori lo hanno adorato o lo adorano: Borges, Sepulveda, Paco Ignacio Taibo II, Soriano, Galeano. A Rosario, prima di addormentarmi mi rivedevo ragazzo. Quando tutto mi sembrava colorato, felice, innocente. E mi rivedevo a cavalcioni del cuscino. Io, il Corsaro Nero. Gli aguzzini di Pinochet ci hanno tolto tutto, ma non la memoria». Tifava per il Colo Colo. «E tu, sempre del Palmeiras di San Paolo e della Juventus?».

La pioggia ticchettava contro l'ampia finestra. Fuori, tutto sembrava avvolto da una gelatina: le auto, i passanti, i negozi.

Fu Julio a interrompere quel silenzio. «Ti ho mai parlato di Ivan? Ivan "il maratoneta di Allende"?».

«No, Julio. Chi è?».

«Chi era. Da noi bisogna parlare della maggior parte delle persone al passato. Ivan era un personaggio unico, in quei giorni del nostro orgoglio, della nostra speranze, delle idee di libertà. Ivan lavorava in una tipografia, ma amava correre. Poteva correre per ore e ore, con addosso la solita maglietta, con sopra scritto: "Salvador Allende per sempre". Con quella maglietta attraversava le vie, le piazze, la campagna, le periferie. La gente gli batteva le mani. Non tutti, certo. C'era chi gli urlava: "La pagherai un giorno, tu e il tuo amato presidente", "Ti faremo correre noi, vedrai". Ma lui non sentiva questo odio, lui voleva soltanto correre».

Il cameriere di avvicinò, perplesso. «Per caso, un altro caffé?».

Dissi: «No, piuttosto qualcosa di forte».

«Italiano?»

«Italo-brasiliano».

«Posso permettermi di suggerire una grappa?».

«Bene. Due grappe, belle robuste. Vai avanti, Julio...».

«Ivan non aveva famiglia. I genitori erano morti quando lui aveva appena sedici anni. Lo aveva cresciuto un'anziana zia. Poca scuola, tanto lavoro. Aveva trovato quell'impiego in tipografia, tutti gli volevano bene, e come poteva essere altrimenti? Si dava agli altri, con amore, senza chiuedere niente in cambio. La domenica andava ad assistere i bambini orfani. Si vestiva da clown e quei bambini trascorrevano qualche ora in allegria. Il sabato, invece, era dedicato alla corsa. Si alzava all'alba e tornava che era ormai sera. Poi, arrivarono le tenebre. La lunga notte del lupo».

Julio si accese un altro sigaro. Tossì.

«La felicità è breve, amico mio. E anche il progetto di Unidad Popular. Il 13 settembre 1973 tutto evaporò, svanì. Non ci fu più il sole nel nostro cielo. Solo morte e distruzione. Gente che scompariva, gettata viva nell'oceano dagli elicotteri. Fu una strage. Ivan venne catturato il 12 settembre. A casa sua, di notte. Lo riempirono di botte, e gli bruciarono la maglietta "Salvador Allende per sempre" davanti agli occhi. Quindi, lo portarono all'Estadio Chile, il lager di Pinochet. Qui si sono consumati gli ultimi giorni di Victor Jara, il nostro cantante e poeta. Che bella persona, Victor: protagonista del Movimento della Nuova Canzona Cilena e amico di Pablo Neruda. Prima di morire, riuscì a scrivere la sua ultima poesia. Ho imparato quelle ultime parole a memoria: "Com'è difficile cantare / quando devo cantare l'orrore. / L'orrore che sto vivendo, / l'orrore di cui sto morendo. / Vedermi in mezzo a così tanti / e innumerevoli momenti di infinito / nel quale silenzio e grida / sono la fine della mia canzone. / Ciò che vedo, non l'ho mai visto prima. / Ciò che ho provato e ciò che provo / daranno vita al momento... ". Qui si fermò. Lo presero. Lo ammazzarono. Gli tagliarono le mani. Toccò a Ivan, poco dopo».

Julio chinò la testa. Faceva fatica ad andare avanti. Il rumore della pioggia accompagnava la sua profonda tristezza.

«Lo trascinarono nelle viscere dello stadio, vicino agli spogliatoi. Erano in quattro, con i manganelli. Gli dissero: "Adesso, corri per noi. Ti abbiamo preparato una nuova maglietta ‘Augusto Pinochet per sempre'. Ti diremo noi quando fermarti. Corri, bastardo". Ivan non si mosse. Nemmeno dopo le prime manganellate. Nemmeno quando gli fracassarono la mascella e il naso. Riuscì a dire: "Per voi non correrò. Mai". Lo portarono dentro lo spogliatoio, su un tavolaccio di legno sporco di sangue fresco e raffermo. Lo legarono. Il più vecchio prese una sbarra di ferro. "Così non correrai più". Gli frantumò le gambe. Ivan chiuse gli occhi. Era già nell'altra vita. Si vide correre, correre e ancora correre. Con la sua maglietta "Salvador Allende per sempre". Il Cile era libero, di nuovo libero. E Allende era lì, all'ingresso principale della Moneda, ad aspettarlo...».

Julio si alzò. «Si è fatto tardi. Passa domani dalla radio, voglio intervistarti per la puntata speciale su Ivan Zamorano».

Rimasi ancora dentro il bar. Mandai giù un'altra grappa. Uscendo, ringraziai la pioggia. Quella pioggia che nascondeva il mio pianto. Quella pioggia da benedire, quella pioggia sorella.

Darwin Pastorin
Montevideo, 23 novembre 2004
da "Liberazione"