Storia della squadra di calcio “Marxiana”. (Seconda parte)

Marxiana, il calcio a pugno chiuso

Nel 1969 nasce la squadra di calcio guidata da un operaio della Fiat. Bella Ciao è il suo inno e vengono aboliti ala e terzino destro. Tutto morirà però il giorno della strage di Piazza Fontana

Raul si mette a ridere e mi dà una spacca sulla spalla. «Questa poi, una squadra rivoluzionaria!», sottolinea, facendo quasi cadere il suo boccale di birra. Anche il cameriere ci fissa, sorpreso e divertito. Mi accendo il mio sigaro brasiliano. Una signora, al nostro fianco, fa un gesto di fastidio. Si alza, dopo avermi guardato storto. «Il solito maleducato».

Riprendo il racconto. Fuori, Montevideo sembra un'apparizione: con quel lampo di sole a trasfigurare persone e cose.

Così, nasce la Marxiana. Ci alleniamo, due volte la settimana, alla Pellerina. Viene sempre con noi una compagna, che lavora con Giorgio, il nostro mister, alla Fiat. «Ragazzi, questa sarà la vostra colonna sonora!». Attacca il mangiadischi, con «Bella Ciao». Ma il 45 è, a un certo punto, rigato: «O partigia, o partigia, o partigia, o partigia...». Una piccola botta: «O partigiano portami via...».

Giorgio ha una tuta di felpa sgualcita, il fischietto al collo («Proprio come Heriberto Herrera, l'allenatore paraguayano della Juve») e ci dà le disposizioni: «Ragazzi, decideremo insieme la formazione. Saremo un collettivo in tutto e per tutto. Vi voglio forti, ovviamente, sulla sinistra. Aboliremo la parola "destra". Ci sarà il terzino sinistro e il terzino "dall'altra parte". L'ala sinistra e l'ala "dall'altra parte". Dopo ogni gol, esulterete con il pugno alzato».

Giorgio, e se arrivano i fascisti?, fa un po' perplesso, Francesco, il terzino "dall'altra parte".

«Li costringeremo all'autogol: non li faremo passare, né in campo, né nelle fabbriche e nemmeno nelle scuole».

Prima delle partite, nello spogliatoio, Giorgio ci racconta della sua vita a Mirafiori. Del lavoro a cottimo, degli operai sfruttati, degli stipendi da fame, della gente che ha dovuto lasciare il Sud per una speranza effimera, dei "terroni" maltrattati. Ci chiede di noi, di cosa stiamo imparando e di come pensiamo di lottare per gli altri: per i poveri, per gli sfruttati, per gli emarginati. Gli diciamo dei nostri dubbi, dei nostri sogni, delle nostre utopie. Ci rendiamo conto che ci sta "allenando" alla vita, non al calcio. «In fondo - ci dice - il pallone è una metafora dell'esistenza, come sentenziò Jean-Paul Sartre. Uno che rifiutò il Nobel per la Letteratura». Leggiamo Gramsci, Kerouac, alcune pagine del Capitale: «Soprattutto, ragazzi, imparate a stare in mezzo alla gente».

Vinciamo, perdiamo, poco importa. Stiamo insieme, il nostro è un laboratorio di idee, di speranze. A volte, vengono i "fasci" a fischiarci, a prenderci in giro, ma noi non cadiamo nelle provocazioni. Mi sento, in quel dicembre, del 1969 felice. Ho una coscienza politica, sento di potermi rendere utile per qualcosa di importante. Il pomeriggio, con alcuni della squadra, andiamo in piazza Castello. Emanuele suona la chitarra, noi cantiamo. Conosciamo a memoria le canzoni di de André, di Luigi Tenco, di Claudio Lolli, di Paolo Pietrangeli, di Francesco Guccini. Ma il nostro pezzo forte è «Blowin' in the wind» di Bob Dylan. Non abbiamo mai voglia di tornare a casa. Mangiamo la pizza, andiamo al cinema oppure scendiamo al Po. Ci sdraiamo in riva al fiume, guardiamo le stelle e ci diciamo che saremo proprio noi, noi quattordicenni, noi quindicenni, a creare un mondo migliore.

Poi, però, tutto cambia. Di colpo. Quel 12 dicembre 1969, Giorgio non si presenta alla Pellerina. Noi ci sentiamo sconvolti, storditi. E' esplosa una bomba a Milano, in piazza Fontana. Sono stati gli anarchici, dicono. «Non è possibile, è una storia come quella di Sacco e Vanzetti», urla Gabriele. Io non ho voglia di parlare. Quelle immagini, quelle persone innocenti. Quest'Italia da gettare.

«La storia la conosci, Raul. Con tutto quello che è seguito. Con altri morti, con una vergogna che ancora dura». Riprovo, a distanza di tanti, troppi anni, quell'amaro in gola e nel cuore. Chiedo un'altra birra, ne ho bisogno, davvero.

Entrano due bambini, vogliono un po' d'acqua: «Stiamo giocando a palla, abbiamo sete». Un cane abbaia. Il sole è infastido da qualche nuvola di passaggio. Ripenso alla mia giovinezza, alle cose perdute, agli amici che se ne sono andati.

«Che fine ha fatto Giorgio?», mi chiede Raul
«Quel 12 dicembre 1969 cambiò anche la sua vita. S'impegnò ancora di più nella politica, in fabbrica. Smise con il pallone. Lo incontrai dieci anni dopo, in centro a Torino, in via Roma. Mi abbracciò, mi disse: "Niente è finito, la partita è lunga, ma vinceremo. Prima o poi vinceremo". Solo questo. Ma aveva la stessa rabbia di quei giorni là. Ecco: a lui e a quelli della mia generazione, non passerà mai quella rabbia là».

Raul si alza: «Dai, andiamo a casa. Stasera ti fermi da noi. Ti farò quell'asado. Cerca di dimenticare».

«Non sarà possibile. Mai. Ci sono cicatrici che restano per sempre. Bene, andiano». Il mare di Montevideo ha onde leggere e riflessi antichi.

(Fine seconda parte) Prima parte

Darwin Pastorin
Montevideo, 21 dicembre 2004
da "Liberazione"