Sessant'anni fa l'armistizio con gli angloamericani e la fuga del re

8 settembre '43. Una scelta di campo

L'8 settembre non fu la caduta di un governo, ma lo sfacelo - piuttosto indecoroso, tra l'altro - di un'intera classe dirigente e di tutti i principali poteri della società italiana: del fascismo, della monarchia, degli alti vertici dell'esercito, del Vaticano, della grande borghesia.

Sessant'anni di storia - tanti ci separano dall'8 settembre del 1943 - non hanno abolito il carattere attuale di quella data, difficilmente riducibile a un semplice terreno di ricerca storiografica. Sotto la spinta di motivazioni diverse, un dramma collettivo entrava nei destini individuali, spingeva a scelte di campo nette, metteva tutti di fronte alla rovina ineluttabile del vecchio mondo. Ma quel che segna il versante politico di quella data, oltre a quello storico in senso stretto, è l'aver dato il via - in un clima di sostegno popolare - alla Resistenza, con la nascita delle prime formazioni partigiane e il ritorno dei partiti antifascisti. Nel fuoco della lotta contro il nazifascismo prenderanno corpo le istanze politiche senza le quali sarebbe stata inconcepibile la Costituzione repubblicana. Per questo, oggi, mettere in ombra l'8 settembre significa abolire i valori fondanti della carta costituzionale, a partire dall'antifascismo e dai principi di giustizia sociale.

8 settembre, armistizio

L'8 settembre non fu la caduta di un governo, ma lo sfacelo - piuttosto indecoroso, tra l'altro - di un'intera classe dirigente e di tutti i principali poteri della società italiana: del fascismo, della monarchia, degli alti vertici dell'esercito, del Vaticano, della grande borghesia. A dare l'immagine più lampante del caos in cui l'Italia precipita quell'8 settembre del '43, alla notizia dell'armistizio data via radio, è la fuga del re Vittorio Emanuele III e del capo del governo Badoglio, lasciandosi alle spalle una Roma senza difese e un vuoto istituzionale. L'esercito, abbandonato in balia di se stesso, senza ordini precisi, nella stragrande maggioranza dei casi con direttive confuse e contraddittorie, si dissolve quasi ovunque. Nel frattempo i tedeschi, che nei giorni precedenti avevano fatto affluire rinforzi dal Brennero, occupano di fatto la penisola italiana, pronti a farne un unico fronte di guerra per contrastare l'avanzata degli angloamericani. Centinaia di migliaia di militari italiani, in Grecia, in Albania, in Jugoslavia e sugli altri fronti, vengono disarmati e catturati, e istradati sulla via dei campi d'internamento in Germania. L'annuncio dell'armistizio, in assenza di un piano di resistenza ai tedeschi, si rivela uno sfacelo per l'esercito italiano: 60.000 fra morti e dispersi, 550.000 deportati in Germania.

Vent'anni di politica del fascismo, il dissennato ingresso in guerra, l'appoggio al regime del grande capitale nazionale, l'irresponsabilità dei Savoia: tutto giunge alla resa dei conti. Ma proprio tra lo sfacelo dei poteri, gli sbandati dell'esercito, molti sulla via del ritorno a casa, daranno vita alle prime formazioni partigiane, spesso in maniera improvvisata e per le ragioni più disparate. A questo livello di spontaneismo se ne aggiungerà un altro, ulteriore: il ritorno dei partiti antifascisti - in primo luogo dei comunisti, unici ad aver conservato un'organizzazione clandestina anche negli anni più bui del fascismo - e la nascita del Comitato di liberazione nazionale con l'appello "alla lotta e alla resistenza" rivolto a tutto il popolo. A giusto titolo l'8 settembre è considerato uno spartiacque tra la disgregazione del mondo precedente e la speranza di un mondo nuovo, di là da venire, fondato sull'antifascismo e l'aspirazione a una maggiore giustizia sociale. Ed è proprio contro questi due collanti della Resistenza - fatti propri dalla Costituzione repubblicana - che è sopravvissuto, attraverso canali sotterranei, un risentimento di revanchismo, una memoria nemica dei valori resistenziali che si è sempre riconosciuta nel definire l'8 settembre come una «morte della patria». Non è affatto raro leggere questa frase sui muri, nelle scritte di gruppi di estrema destra. E non è affatto trascurabile che proprio a questa memoria negatrice dell'antifascismo si colleghino, in una miscela pericolosa, i progetti - mai sopiti - di riscrittura della Costituzione da parte della destra in doppiopetto attualmente al governo.

La «morte della patria» è agli antipodi dello spirito di lotta, della passione politica, dello slancio etico, di quella consapevolezza del doversi schierare che coinvolse gran parte della popolazione italiana dopo l'8 settembre. E' questo elemento della scelta di campo che certe letture della storia - strumentali alle operazioni politiche della destra - tendono a negare, quando appiattiscono partigiani e repubblichini di Salò a due minoranze ideologiche, tra le quali il grosso degli italiani sarebbe rimasto indifferente, apatico, in tranquilla attesa degli angloamericani. Così non fu. Lo dimostrano le vicende dei tanti luoghi dell'8 settembre, la resistenza a Roma, a Porta S. Paolo, dinanzi ai tedeschi, i casi di resistenza dei soldati in diverse località, il tentativo dei militari italiani a Cefalonia di resistere alle truppe naziste, soffocato in una strage.

Tonino Bucci
Roma, 7 settembre 2003
da "Liberazione"