La «conquista dell’Impero» comincia con la criminale avventura in Etiopia

«Sua Eccellenza Benito Mussolini autorizza l’uso di gas su vasta scala»

C’era del buono nel colonialismo italiano?

«Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico e in caso di contrattacco» (27 ottobre 1935).
«Autorizzo vostra eccellenza all’impiego, anche su vasta scala, di qualunque gas e dei lanciafiamme» (28 dicembre 1935).

Sono due delle direttive di Mussolini a Graziani, per la conduzione della guerra finalizzata alla “conquista dell’Impero”, vale a dire la proditoria aggressione all’Etiopia. Quella che avrebbe poi visto incoronare Vittorio Emanuele III “re d’Italia e imperatore d’Etiopia” (proclama del duce, 9 maggio 1936, lo stentoreo annuncio che faceva: “Ufficiali! Sottufficiali! Gregari di tutte le forze armate dello Stato, in Africa e in Italia! Camicie nere della rivoluzione! Italiani e Italiane in patria e nel mondo! Ascoltate! I territori e le genti che appartenevano all’impero di Etiopia sono posti sotto la sovranità piena ed intera del Regno d’Italia. Il titolo di imperatore di Etiopia viene assunto per sè e per suoi successori dal re d’Italia“).

La gonfia retorica mussoliniana è in realtà il suggello di un atto di barbarie consumato con ferocia sotto gli occhi del mondo. E alla faccia della Società delle Nazioni che, contro l’aggressione fascista all’Abissinia, si è mossa proclamando le sanzioni.

”Ti saluto e vado in Abissinia“, è il motto che accompagna le truppe italiane che, senza dichiarazione di guerra, il 3 ottobre 1935, varcano il confine con l’Abissinia, il generale De Bono dall’Eritrea e il generale Graziani dalla Somalia. Badoglio subentra al comando l’anno dopo, 1936, la capitale Addis Abeba è rapidamente conquistata (il 6 maggio). Il 9 maggio Mussolini annuncia la fine della guerra e proclama la nascita del famoso Impero italiano d’Etiopia. Le tre colonie - Somalia, Etiopia ed Eritrea -vengono unite a costituire la non meno famosa Africa Orientale Italiana (Badoglio è nominato vicerè, poi sostituito dal famigerato Graziani).

La criminale avventura etiopica - il cui pretesto è un incidente di frontiere, a Ual Ual - costa la cifra astronomica di 40 miliardi di lire dell’epoca (che è pure l’epoca dell’Italia autarchica, dei salari abbassati per legge, della mancanza di lavoro per milioni di braccia che dovevano andare a cercarsi quel ”posto al sole“); ma questo è solo l’aspetto meno doloroso, alla fine.

La guerra abissina il fascismo la vince soprattutto grazie alla superiorità tecnologica, all’uso di armi e di tecniche militari terribilmente distruttive (i bombardamenti aerei, i gas vlelenosi, la iprite).

Museo storico italiano della Guerra. Sezione ”Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro delle colonie d’Africa“: lì si può trovare uno spaccato di testimonianze che racconta molto bene ciò che ”gli italiani brava gente“ di Mussolini andarono a fare laggiù. Gli etiopi aggrediti, pur miseramente armati, resistono strenuamente agli invasori dalla bandiera tricolore. I guerriglieri - è ad esempio la testimonianza del soldato Manlio La Sorsa - sono asserragliati nelle grotte inaccessibili sulla destra del fiume. Per stanarli, «si decise di inondarli di gas velenosi». I risultati furono definitivi e terrificanti. E c’è anche il diario segreto di Ciro Poggiali, inviato speciale del Corriere della sera, dal quale si ricavano altri illuminanti flash, sul tipo di occupazione là messa in atto. «Sovente i carabinieri incaricati di arrestare gli indigeni per sospetti reati, che magari non esistono, cominciano, secondo il costume, a caricarli di botte. Se poi si accorgono di averne date troppe e di aver prodotto cicatrici indelebili, li accoppano addirittura».

Dopo l’attentato che il ”vicerè“ Graziani subisce il 19 febbraio 1937, avviene un vero e proprio massacro, descritto con molti particolari dallo stesso Poggiali; i militi italiani sparano indiscriminatamente sulla folla, per tutta Addis Abeba si scatena la caccia all’uomo, un gigantesco rastrellamento colpisce oltre tremila etiopi. La rappresaglia dura due giorni interi e Mussolini, da Roma, raccomanda «di passare per le armi tutti i civili e i religiosi sospetti».

C’era del buono nel nostro colonialismo. Infatti, al termine della seconda guerra mondiale, quando il Negus, tornato dall’esilio, risale sul trono, parla di 30 mila vittime.

La iprite era già comparsa, nelle nostre imprese coloniali. Succede in Libia. Nel 1911, il liberale Giolitti, con il solito motivo pretestuoso, e senza approvazione né ratifica del Parlamento, dichiara guerra alla Turchia, imponendo un ultimatum, con scadenza entro 24 ore, per la cessione della Tripolitania e della Cirenaica, protettorati turchi. La guerra di conquista della Libia inizia con un devastante bombardamento del porto di Tripoli. Anche questa ”avventura“, propagandata come una facile passeggiata, è violenta e crudele. gli arabi resistono e combattono, il conflitto è cruento. Quando a Sciara Sciat (oasi di Tripoli), reparti turchi e abitanti arabi assaltano il presidio italiano uccidendo 500 bersaglieri, l’occupante italiano proclama la legge marziale e la reazione è feroce. Oltre 2000 arabi sono fucilatri o impiccati, 5 mila deportati nelle isole, a Ustica, Ponza, Favignana, Tremiti, in condizione disumane. Molti moriranno di stenti, sete e malattie. La Libia chiede ancora oggi di sapere la verità sulla sorte dei libici scomparsi in Italia.

Nel 1912 è però istituito il ”ministero delle Colonie“, Tripolitania e Cirenaica sono diventate colonie italiche. Ma gli arabi non si rassegnarono mai. Vent’anni dopo, poichè la resistenza libica è molto forte in Cirenaica, Rodolfo Graziani, colà inviato da Mussolini nel 1930, non esita a mettere a ferro e fuoco tutta la zona. L’intera popolazione dell’altopiano. centomila libici, viene deportata in campi di concentramento nel deserto della Sirte. In 40 mila moriranno per fame, epidemie, violenze, uccisioni. «L’impiccagione avveniva a mezzogiorno, ogni giorno 50 cadaveri uscivano dal recinto».

C’era del buono nel colonialismo italiano. La Libia, infatti, fu per l’Aeronautica italiana un campo sperimentale per l’impiego a scopo bellico di aerei, dirigibili e gas mortali. Anche di bombe cariche di iprite, gas al bando. E quando, nel 1943, finisce il periodo coloniale italiano, l’eredità lasciata è questa: il 94% della popolazione analfabeta, mortalità infantile al 40 %, reddito annuo pro capite al di sotto di 16 sterline, struttura sociale arretrata di trecento anni: solo 13 libici sono laureati, tra di loro non c’è nessun medico.

C’era del buono nel colonialismo italiano.

Maria Rosa Calderoni
Roma, 27 settembre 2006
da "Liberazione"