La memoria

2 giugno 1946 la seconda liberazione

Il primo voto libero dopo la cacciata del fascismo

Alla fine di maggio del 1946 c'erano ancora dappertutto case squarciate dai bombardamenti, gente ammucchiata in precari alloggi di coabitazione, famiglie in attesa degli ultimi militari prigionieri, campi inglesi e americani con la loro corte di piccoli traffici e malavita spicciola. I fascisti, prudentemente, stavano in ombra e in silenzio, i partigiani si preparavano ai compiti nuovi della pace: ricostruire case e fabbriche, aiutare la gente più colpita, dare un senso nuovo a un paese uscito da vent'anni di dittatura e da una guerra che aveva coinvolto, per la prima volta, i civili quanto gli eserciti.

Gli italiani imparavano la politica negli antri perennemente fumosi e affollati che ospitavano le sezioni del Pci e nelle parrocchie ingombre di derrate alimentari e vestiti smessi arrivati dagli Stati Uniti e distribuiti con oculatezza ai poveri non sospetti di simpatie comuniste.

Le prime elezioni libere e la campagna elettorale

La campagna elettorale - che abbinava il voto per l'assemblea costituente al referendum monarchia/repubblica - si faceva nelle strade, nelle piazze, nei mercati, nelle case chiedendo consiglio ai più anziani che avevano vissuto nell'Italia prefascista e nei paesi del loro esilio ma soprattutto inventando modi e luoghi. I simboli e gli slogan attaccati ai muri, i comizi - tutti gremiti - erano l'aspetto più vistoso e nuovo ma la propaganda vera era quella di migliaia di attivisti che giravano casa per casa e creavano momenti di discussione al mercato, in piazza, nei bar, i più preparati organizzando vere e proprie sceneggiate con pro e contro, spesso così realistiche da far rischiare le botte al compagno che si prestava al ruolo di monarchico. Scontri reali e cruenti erano invece all'ordine del giorno nel mezzogiorno d'Italia dove il partito monarchico era forte, organizzato e raccoglieva consensi anche in strati popolari e sottoproletari alternando la corruzione dei pacchi di pasta e delle scarpe nuove a vere e proprie aggressioni, come nella Napoli di Achille Lauro.

La campagna per la repubblica non era semplice. La guerra di liberazione aveva visto combattere insieme i comunisti delle brigate Garibaldi, gli azionisti di giustizia e libertà, il fronte militare di fede monarchica, tutti rappresentati nel Cln e in contatto con gli alleati e con il governo Badoglio; la democrazia cristiana aveva deciso di lasciare "libertà di coscienza" ai suoi elettori. Ricordo una coppia di contadini toscani decisi a votare Pci e Monarchia perché «quel povero principino è un bimbo, non si può cacciarlo via». I loro figli, partigiani comunisti, furibondi e sfiniti dalle discussioni chiesero aiuto al partito per convincerli. Ci riuscì a fatica il compagno Remo Scappini, forte per età e prestigio.

I protagonisti furono i giovani

Ma i principali protagonisti della campagna elettorale furono i giovani, la presenza più visibile nelle manifestazioni con cartelli fatti a mano, bellissimi con caricature, fotomontaggi, scritte fantasiose, bandiere, canzoni. Erano loro ad affiggere i manifesti con la colla casalinga, acqua e farina cucinate dal madri compiacenti, a fare le scritte di vernice rossa o inchiostro da stampa, se c'era qualche tipografia amica. Erano loro a distribuire volantini, a animare i dibattiti di strada e a insegnare a votare. Alla generazione che non aveva mai esercitato il diritto di voto si aggiungevano gli anziani che lo avevano dimenticato, molti dei quali analfabeti, e infine le donne. Per la prima volta c'erano donne in lista, per la prima volta, fra dubbi, perplessità, sfiducia di molti progressisti, tutte le donne italiane andavano a votare e a loro si poneva, oltre al problema dell'orientamento politico, quello dell'esercizio materiale del voto. Furono proprio ragazzi e ragazze a studiare i regolamenti e a spiegare ai coetanei e ai più anziani, cominciando dalla propria famiglia, «come si vota». C'erano gli antifascisti riottosi che insistevano per firmare la scheda «perché io non ho paura di nessuno», repubblicani decisi a cancellare con una croce il simbolo degli odiati Savoia e soprattutto uomini e donne che temevano di sbagliare, di confondersi, di farsi vincere dall'emozione e chiedevano di portarsi nella cabina un congiunto o un compagno più preparato. Quanta pazienza, quanto fiato, quanti pacchi di facsimili di scheda!

E per molti amarezza di non poter votare. Ragazzi di 19-20 anni appena scesi dalle montagne dove avevano combattuto, comandato formazioni partigiane, subito carcere e tortura, ragazze che avevano rischiato la vita ogni giorno portando armi, viveri e ordini nelle borse della spesa, arrancando in bicicletta fra un posto di blocco tedesco e un ponte crollato, non accettavano facilmente di non essere considerati idonei ad una operazione semplice e non rischiosa come il voto, di non essere chiamati a decidere sulla sorte del paese che avevano liberato. Ma si votava a 21 anni compiuti, bisognava rassegnarsi a insegnare agli altri a votare. E a spiegare che il re Vittorio Emanuele aveva aperto le porte al fascismo, l'aveva sostenuto e alla fine era scappato insieme a suo figlio Umberto, lasciando l'Italia in balia dei tedeschi. Che bisognava fare una repubblica democratica, con un presidente eletto. Ognuno si sbizzarriva in esempi e citazioni da Garibaldi a Lenin, dalla repubblica romana a quella dei soviet a quella partigiana dell'Ossola della quale si aveva appena avuto notizia.

La Repubblica ha vinto

Arrivò così il 2 giugno e gli entusiasmi si smorzarono in diffuso timore: come avrebbero votato i vecchi? E le donne ritenute dal diffuso maschilismo dell'epoca succubi di scrupoli religiosi o pietistici? Come avrebbe votato il sud? E i carabinieri? Si presidiarono i seggi tutta la notte per paura dei brogli dai quali qualcuno aveva messo in guardia. I risultati tardavano alimentando i peggiori sospetti. Poi il comunicato liberatore: la repubblica ha vinto. Fu come una seconda liberazione: mentre i rotocalchi preparavano i servizi fotografici di Umberto in borghese col solito fatuo sorriso sulla scaletta dell'aereo che ce lo avrebbe alla fine portato via, giovani e anziani, elettori e non invasero le strade cantando, gridando, abbracciandosi, sventolando, insieme a tante bandiere rosse, il tricolore con un gran buco in mezzo al bianco, dove era stato lo stemma sabaudo.

Bianca Bracci Torsi
Roma, 2 giugno 2002
da "Liberazione"