Alla fine di maggio del 1946 c'erano ancora dappertutto case squarciate dai bombardamenti, gente ammucchiata in precari alloggi di coabitazione, famiglie in attesa degli ultimi militari prigionieri, campi inglesi e americani con la loro corte di piccoli traffici e malavita spicciola. I fascisti, prudentemente, stavano in ombra e in silenzio, i partigiani si preparavano ai compiti nuovi della pace: ricostruire case e fabbriche, aiutare la gente più colpita, dare un senso nuovo a un paese uscito da vent'anni di dittatura e da una guerra che aveva coinvolto, per la prima volta, i civili quanto gli eserciti.
Gli italiani imparavano la politica negli antri perennemente fumosi e affollati che ospitavano le sezioni del Pci e nelle parrocchie ingombre di derrate alimentari e vestiti smessi arrivati dagli Stati Uniti e distribuiti con oculatezza ai poveri non sospetti di simpatie comuniste.
La campagna elettorale - che abbinava il voto per l'assemblea costituente al referendum monarchia/repubblica - si faceva nelle strade, nelle piazze, nei mercati, nelle case chiedendo consiglio ai più anziani che avevano vissuto nell'Italia prefascista e nei paesi del loro esilio ma soprattutto inventando modi e luoghi. I simboli e gli slogan attaccati ai muri, i comizi - tutti gremiti - erano l'aspetto più vistoso e nuovo ma la propaganda vera era quella di migliaia di attivisti che giravano casa per casa e creavano momenti di discussione al mercato, in piazza, nei bar, i più preparati organizzando vere e proprie sceneggiate con pro e contro, spesso così realistiche da far rischiare le botte al compagno che si prestava al ruolo di monarchico. Scontri reali e cruenti erano invece all'ordine del giorno nel mezzogiorno d'Italia dove il partito monarchico era forte, organizzato e raccoglieva consensi anche in strati popolari e sottoproletari alternando la corruzione dei pacchi di pasta e delle scarpe nuove a vere e proprie aggressioni, come nella Napoli di Achille Lauro.
La campagna per la repubblica non era semplice. La guerra di liberazione aveva visto combattere insieme i comunisti delle brigate Garibaldi, gli azionisti di giustizia e libertà, il fronte militare di fede monarchica, tutti rappresentati nel Cln e in contatto con gli alleati e con il governo Badoglio; la democrazia cristiana aveva deciso di lasciare "libertà di coscienza" ai suoi elettori. Ricordo una coppia di contadini toscani decisi a votare Pci e Monarchia perché «quel povero principino è un bimbo, non si può cacciarlo via». I loro figli, partigiani comunisti, furibondi e sfiniti dalle discussioni chiesero aiuto al partito per convincerli. Ci riuscì a fatica il compagno Remo Scappini, forte per età e prestigio.
Ma i principali protagonisti della campagna elettorale furono i giovani, la presenza più visibile nelle manifestazioni con cartelli fatti a mano, bellissimi con caricature, fotomontaggi, scritte fantasiose, bandiere, canzoni. Erano loro ad affiggere i manifesti con la colla casalinga, acqua e farina cucinate dal madri compiacenti, a fare le scritte di vernice rossa o inchiostro da stampa, se c'era qualche tipografia amica. Erano loro a distribuire volantini, a animare i dibattiti di strada e a insegnare a votare. Alla generazione che non aveva mai esercitato il diritto di voto si aggiungevano gli anziani che lo avevano dimenticato, molti dei quali analfabeti, e infine le donne. Per la prima volta c'erano donne in lista, per la prima volta, fra dubbi, perplessità, sfiducia di molti progressisti, tutte le donne italiane andavano a votare e a loro si poneva, oltre al problema dell'orientamento politico, quello dell'esercizio materiale del voto. Furono proprio ragazzi e ragazze a studiare i regolamenti e a spiegare ai coetanei e ai più anziani, cominciando dalla propria famiglia, «come si vota». C'erano gli antifascisti riottosi che insistevano per firmare la scheda «perché io non ho paura di nessuno», repubblicani decisi a cancellare con una croce il simbolo degli odiati Savoia e soprattutto uomini e donne che temevano di sbagliare, di confondersi, di farsi vincere dall'emozione e chiedevano di portarsi nella cabina un congiunto o un compagno più preparato. Quanta pazienza, quanto fiato, quanti pacchi di facsimili di scheda!
E per molti amarezza di non poter votare. Ragazzi di 19-20 anni appena scesi dalle montagne dove avevano combattuto, comandato formazioni partigiane, subito carcere e tortura, ragazze che avevano rischiato la vita ogni giorno portando armi, viveri e ordini nelle borse della spesa, arrancando in bicicletta fra un posto di blocco tedesco e un ponte crollato, non accettavano facilmente di non essere considerati idonei ad una operazione semplice e non rischiosa come il voto, di non essere chiamati a decidere sulla sorte del paese che avevano liberato. Ma si votava a 21 anni compiuti, bisognava rassegnarsi a insegnare agli altri a votare. E a spiegare che il re Vittorio Emanuele aveva aperto le porte al fascismo, l'aveva sostenuto e alla fine era scappato insieme a suo figlio Umberto, lasciando l'Italia in balia dei tedeschi. Che bisognava fare una repubblica democratica, con un presidente eletto. Ognuno si sbizzarriva in esempi e citazioni da Garibaldi a Lenin, dalla repubblica romana a quella dei soviet a quella partigiana dell'Ossola della quale si aveva appena avuto notizia.
Arrivò così il 2 giugno e gli entusiasmi si smorzarono in diffuso timore: come avrebbero votato i vecchi? E le donne ritenute dal diffuso maschilismo dell'epoca succubi di scrupoli religiosi o pietistici? Come avrebbe votato il sud? E i carabinieri? Si presidiarono i seggi tutta la notte per paura dei brogli dai quali qualcuno aveva messo in guardia. I risultati tardavano alimentando i peggiori sospetti. Poi il comunicato liberatore: la repubblica ha vinto. Fu come una seconda liberazione: mentre i rotocalchi preparavano i servizi fotografici di Umberto in borghese col solito fatuo sorriso sulla scaletta dell'aereo che ce lo avrebbe alla fine portato via, giovani e anziani, elettori e non invasero le strade cantando, gridando, abbracciandosi, sventolando, insieme a tante bandiere rosse, il tricolore con un gran buco in mezzo al bianco, dove era stato lo stemma sabaudo.