PAGINE
DELLA
RESISTENZA
CARATESE

CAPITOLO TERZO

I MARTIRI DI PESSANO (parte b)

Da questo punto in poi, la ricostruzione dei fatti è affidata alla testimonianza degli amici delle A.C.L.I. di Pessano, che raccontano come avvenne la fucilazione dei sette martiri in quel paese, e a quella di Don Baraggia di Monza, che li assistette fino alla fine.

Gli arrestati infatti, vittime della vendetta tedesca, pagarono con la loro vita, assieme ad altri giovani patrioti, l'attentato compiuto contro il comandante tedesco di Pessano da parte di una formazione partigiana che operava in quella zona.

Purtroppo, anche in questo caso, molti documenti ufficiali circa le operazioni partigiane realizzate nella zona di Pioltello, Cassano, Gorgonzola e Monza sono stati smarriti e non possiamo dire con certezza matematica chi fossero gli sparatori della Molgora, autori dell'attentato.

Ci atteniamo quindi alle testimonianze più numerose (vox populi) e alla ricostruzione dei fatti fornitaci da testimoni oculari.

Le famiglie degli Oggioni e dei Colombo, la cui abitazione si trovava sul luogo dell'attentato, ci hanno dichiarato che i partigiani erano tre; di essi due erano in bicicletta e uno a piedi.

Sempre secondo la deposizione resa da queste famiglie, le fattezze somatiche di uno dei tre sono riconoscibili nella persona del capo GAP di Gorgonzola, Luigi Restelli, il quale fu ucciso in un'altra azione partigiana a Cassano.

Anche riguardo al motivo del ferimento dell'ufficiale tedesco non siamo riusciti a trovare atti ufficiali.

La Signora Gessati dell'A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d'ltalia) di Milano ci ha fornito un suo ricordo dei fatti, che riportiamo.

Il comandante la guarnigione tedesca di Pessano era stato processato dal Tribunale Partigiano e condannato a morte per sue rappresaglie compiute nella zona nostra e in quella di Pavia. Gli era persino stato dato un nomignolo, «il Tigre».

Probabilmente, la notizia del trasferimento non era ancora giunta ai vari componenti partigiani del G.A.P. locali che già studiavano l'attentato.

Fu quindi un errore da imputare alla enorme difficoltà con cui, in quei momenti, le notizie potevano essere comunicate.

Per quanto riguarda la personalità del tenente ferito, abbiamo potuto concludere che a Pessano (pur essendovi da poco), costui era rispettato per il modo abbastanza umano di impostare le relazioni tra tedeschi e pessanesi. Molti anziani ricordano infatti di aver bevuto con lui nelle osterie locali.

Nelle officine della «Speer» di Pessano, durante il suo breve periodo di comando, non ci furono sabotaggi.

Il pomeriggio del giorno 8 marzo 1945, alle ore 16,30, dalla sede di comando del distaccamento dell'Organizzazione Speer di Pessano partiva diretta a Milano, l'automobile del tenente tedesco, la cui personalità abbiamo sommariamente cercato di ricostruire.

L'ufficiale era accompagnato da un militare italiano che fungeva da autista. Giunti all'imbocco della via Monte Grappa, i due sentono il rombo improvviso di alcuni aerei leggeri da mitragliamento.

Schiacciando l'acceleratore si spingono veloci per oltrepassare il ponte del torrente Molgora e girare quindi a sinistra.

Abbandonato quindi l'automezzo, cercano riparo accanto, meglio contro il muro della casa Colombo, che fiancheggia la strada. I Colombo erano allora allevatori di maiali.

Il luogo si presta particolarmente a soddisfare l'esigenza di un completo riparo, poiché la vegetazione, allora rigogliosa (vi erano infatti piante e sterpaglie), mimetizza pure l'automobile.

Trascorrono tre lentissimi minuti.

Improvvisamente, un brusco fruscio li fa sobbalzare: tre persone mascherate irrompono di scatto dal folto fogliame.

Sono i componenti di una delle diverse pattuglie G.A.P. appostate nei dintorni di Pessano, con l'incarico di procurare armi e di «dare una lezione» al Tigre, il comandante delle forze militari tedesche situate in questa zona. Ma i G.A.P. non sanno della recente sostituzione.

All'apparire delle tre persone, l'ufficiale tedesco tenta istintivamente di portare la mano alla pistola, ma una raffica lo precede raggiungendolo all'addome. Colpito da 2 proiettili, si accascia al suolo.

L'autista, con un balzo improvviso che sorprende i tre partigiani. riesce a scappare e corre terrorizzato fino al comando Speer.

In tutta fretta. i partigiani raccolgono l'arma del tenente esi dileguano nei campi circostanti. Sembra che siano fuggiti in direzione di Bussero e di lì siano stati trasportati fino a Pioltello, ad un comando S.A.P.

Portata a termine l'azione essi ne fecero un rapporto dettagliato al comando della 15a Brigata Matteotti.

La drammatica azione, svoltasi nel giro di brevissimo tempo, non ha alcun testimone all'infuori dei protagonisti.

Primo ad accorrere è il Signor Colombo che, avendo udito i sordi colpi della raffica, si porta a lato della casa e presta i primissimi soccorsi  al tenente ferito. Aiutato dalla moglie, lo porta in casa, gli slaccia il giubbotto e, rendendosi conto della gravità del caso, corre a chiamare il dottor Picollo.

Circa quindici minuti dopo, giungono una decina di militari tedeschi della Speer e il dottore il quale, constatando la gravità della ferita, prega il sergente tedesco di provvedere ad un immediato ricovero in ospedale.

Gli si risponde che il comando di Monza ha già inviato una auto ambulanza che giungerà sul luogo entro qualche minuto, preceduta da militari. Alle 17 infatti, con l'ambulanza, arriva un plotone di S.S., capitanato da un ufficiale che inizia subito la caccia ai partigiani. Viene rastrellata  tutta la zona compresa tra il paese, la cascina Canepa e la Pariana, poiché il numero di militari del plotone S.S. non è sufficiente per un'azione a raggio più vasto.

Frattanto, in casa Colombo, due infermieri tamponano nel migliore dei modi l'emorragia della ferita del tenente.

Sono presenti il Maggiore Wernik ed il fascista camerata Luigi Gatti. «No uomini di Pessano... no uomini di Pessano», sono queste le parole che vengono ripetute diverse volte dalla bocca contratta del tenente ferito, come affermano i Colombo.

Alle 17,20 l'autoambulanza parte alla volta dell'ospedale di Monza e gli ufficiali tedeschi con Luigi Gatti si radunano negli uffici della Speer.

Il paese frattanto è in subbuglio: la notizia è corsa in un baleno. Tutte le strade vengono presidiate da soldati tedeschi. I pochi uomini di Pessano sono sollecitati dalle mogli a scappare e a nascondersi, per paura di rappresaglie.

Alle 16,50 la moglie del Signor Scotti, podestà di Pessano, telefona al marito che si trova a Milano per commissioni. Immediatamente Scotti decide di tornare in paese. Si consulta con il cugino del Banco Ambrosiano, ma questi gli consiglia di non partire. Scotti, invece, capisce che la sua presenza in paese è di importanza capitale e quindi lascia Milano.

Giunto in bicicletta alla cascina Valera verso le 18,20, viene fermato dal signor Rusnati che lo ragguaglia dell'accaduto. Anche costui lo esorta a non entrare in paese. Ma il podestà prosegue, e arrivato a Pessano alle 18,35, trova il dottor Picollo, che gli narra come e quando il fatto sia accaduto, ma, ripetendo le parole del tenente ferito, gli assicura soprattutto che gli attentatori non sono del paese.

Giunto a casa. Scotti trova un soldato delle S.S. venuto per comunicargli di essere atteso al comando Speer per una riunione urgente. Presente al raduno c'è pure il dottor Luise, segretario comunale che, avvertito per telefono dalla moglie di Scotti, è appena tornato da Gorgonzola. Nella sala del palazzo (attuali scuole) inoltre sono convenuti il Maggiore Wernik. il suo interprete Karl Kreiske (attualmente vivente a Vienna) e gli ufficiali tedeschi.

La riunione ha subito inizio.

Da principio, le S.S. tentano di imputare la colpa del misfatto ai partigiani di Pessano ed invitano il podestà a stilare una lista di nomi di cittadini da fucilare.

Scotti risponde replicando che a Pessano non esistono partigiani e che non è mai successo nulla contro le forze tedesche e che, anzi, il tenente ferito, per la sua gentilezza e familiarità, era ben visto in paese.

Il manifesto  che annuncia la fucilazione dei sette Martiri di Pessano

Il manifesto di color rosso che annuncia la fucilazione dei sette Martiri di Pessano.

Per contro, quelli non vogliono accettare né ragioni né scusanti. Scotti allora gioca l'ultima carta che gli rimane: fa chiamare tutti i soldati tedeschi delle Speer di Pessano e, di fronte al superiori, chiede loro se abbiano qualche volta ricevuto un solo sgarbo da persone del paese.

Tutti dicono di no e ciò imprime una svolta decisiva alla situazione.

Gli ufficiali sono ancora perplessi, ma proprio in questo momento il gerarca Luigi Gatti propone una lista di nomi di alcuni carcerati di Monza. Vengono compiute diverse telefonate al comando monzese, di cui Scotti e il dott. Luise non riescono a capire il senso, perché fatte in lingua tedesca.

A mezzanotte, la riunione ha termine.

E' deciso che saranno fucilate dieci persone di alcuni paesi che stanno attorno a Pessano, ma di costoro non sono ancora specificati i nomi né il luogo e l'ora dell'esecuzione.

Calate le tenebre per tutta la notte, a Pessano non si dorme.

In chiesa la gente ha pregato.

Don Varisco, impaziente, va e ritorna continuamente dalla parrocchia alla casa del podestà. Quando finalmente lo vede arrivare dalla «Speer», gli si fa incontro con ansia per sapere della decisione.

Quasi tutti gli uomini sono scappati dal paese; chi vi è restato rimane chiuso in angusti nascondigli.

La mattina del 9 marzo a Pessano non si verifica alcun fatto degno di nota. Nell'animo di tutti c'è un'amara apprensione e la timorosa attesa di un pericolo che incombe minaccioso su tutti.

Frattanto, a Monza si mette in moto la spietata vendetta tedesca. Di essa, Don Baraggia lasciò scritto alcune pagine di un'accorata semplicità; eccole in forma integrale:

«Seppi subito in mattinata che si stavano giudicando una decina di carcerati tolti dal nostro S. Vittore di via Mentana, dovendo essere condannati per rappresaglia dopo il ferimento di un tedesco in quel di Pessano.

E cominciarono a passare le ore senza che si potesse sapere qualche cosa di preciso.

Un buon amico, al quale serbo imperitura gratitudine, mi poté riferire che, purtroppo, sette dei dieci condannati dal tribunale misto (tedeschi e italiani) andavano incontro alla fucilazione. Girai per non so quali e quante vie di Monza come uno sperduto: rientrai in casa, ne uscii non so quant'altre volte: sul viso di quanti incontravo leggevo un'impressione ben chiara di timorosa taciturnità. Anche i pochi tedeschi che (da un po' di tempo si accompagnavano a due a due) giravano per la città, mostravano un contegno riservato e diffidente: sentivano purtroppo che la caccia non solo ai fascisti, ma anche ad essi, era aperta e incombente!

Verso le 13 potei sapere che la sentenza ormai era sicura. Sette dovevano andare all'altro mondo.

Poco più tardi, varcando per l'ennesima volta la soglia di casa, raccolsi (orig. raccorsi NdR) un pezzetto di carta scritto a matita; esso diceva: “...sette stanno per andare al Creatore, saluti...”; seguiva una firma incerta ed un po'artefatta che riconobbi poco dopo quando un giovanotto mi avvicinò e mi disse quasi all'orecchio: “Non ha ricevuto un biglietto? faccia presto”. Lo prendo per un braccio e gli chiedo: “Chi manda?... e dove sono le vittime?”. Ma egli mi sfugge e scompare.

La provvidenza, finalmente, verso le 16 mi indirizza di preciso verso le scuole “Ugo Foscolo”, luogo dove operava il Tribunale ben presidiato e guardato dalle rigidissime SS. in pieno assetto di guerra.

Avvertii Monsignor Arciprete di quanto mi proponevo di fare e, inforcata la bicicletta, raggiunsi a precipizio il cortile delle scuole suddette.

Potei anzi salire al 1° piano del grande caseggiato ove erano i condannati e, ripensandoci bene, ancor oggi non riesco a comprendere come io abbia potuto arrivare fin lassù, passando innanzi alle sentinelle disposte in ogni angolo... Ed a quanti mi rivolgevo mi veniva risposto che bisognava attendere: e l'attesa si protrasse quasi per un'ora; ed intanto si avvicinava il momento dell'esecuzione!

Alzando gli occhi, mi fu dato di scorgere ad una finestra una signorina interprete, e tosto la pregai che spiegasse al comandante della polizia il motivo della mia presenza in quel luogo: e non le nascosi il mio timore di trovarmi solo sotto l'incubo di quegli sguardi delle S.S. che andavano e venivano squadrandomi dall'alto in basso e parlottando fra loro.

Ma ecco il comandante che mi si para dinnanzi e, gesticolando, mi grida che a simili delinquenti si deve l'inferno. il paradiso rosso ecc., lasciando me e l'interprete non poco sconcertati e impressionati assai.

Non mi mossi, quantunque avessi capito ben chiaro che di fronte a simili propositi nulla vi fosse da tentare; non mi persi d'animo.

E visto che nessuno ancora mi cacciava di là, mi avvicinai alla scala piantandomi vicino alle sentinelle: di lì, pensai, dovranno passare i condannati scendendo a piano terreno; avrò almeno la possibilità di vederli  e di dir loro una parola, sia pure di sfuggita. Nel mio abbattimento, mi ricordai che proprio tra i tedeschi addetti al servizio in quel fabbricato, doveva esservi un addetto alla S.S. di religione cattolica, che avevo un giorno incontrato nel nostro Duomo di Monza e che mi fu tanto riconoscente per avergli ritrovati i guanti da lui smarriti nello stesso Duomo.

Durò molto la mia fatica per poterlo rintracciare; poi all'improvviso lo vidi uscire da una porta: gli corsi incontro, lo pregai, anzi egli stesso intuì tosto, la ragione della mia presenza in quel luogo.

Corse, non mi fu dato sapere da chi, forse dallo stesso comandante, e tornò tutto felice di comunicarmi che mi era concesso qualche istante per incontrarmi coi condannati; bisognava però far presto perché urgeva partire per il luogo della fucilazione prima che cadesse la sera.

Mi feci innanzi nel corridoio, scortato da molte guardie delle S.S. in uniforme, ed abbracciai ad uno ad uno quei figlioli che compresero la triste realtà del loro destino!

E quando, sotto gli occhi dei tedeschi, si inginocchiarono tutti e sette abbracciandomi in un unico amplesso e stringendomi forte forte quasi a comunicarmi tutti i loro sentimenti e recitarono l'ultima preghiera con me, io alzai la mano a benedirli; infine si rialzarono sorridenti e mi rivolsero le loro ultime parole. Lo sguardo sempre insistente delle S.S. (evidentemente sorprese e commosse), non mi permise altro se non che mi consegnassero chi il fazzoletto, chi la sciarpa: qualcuno non aveva proprio nulla!

Sorse un'affrettata discussione tra di loro in quanto uno di essi, il più giovane, affermava di essere stato escluso dalla fucilazione: cosi almeno sembrava a lui d'aver sentito dire in tribunale.

Ma uno dei tre di Carate, mettendogli la mano sulla spalla lo rimproverò benevolmente dicendo: «Che paura hai di morire? Non temere: abbiamo qui il nostro padre che ci assiste e benedice: il nostro sangue non sarà dato invano. Ci vendicheranno, ne sono sicuro»!Io avevo gli occhi così pieni di lacrime che a stento potevo vedere. Abbracciati sempre l'uno all'altro (erano ammanettati a due a due) seguimmo  il comandante della SS. che si era avvicinato per farci premura.

Bisognava, diceva egli, arrivare sul posto dell'esecuzione prima dell'imbrunire. Scendemmo le scale, nel cortile attendeva il solito lugubre carrozzone che avrei rivisto otto giorni più tardi, accompagnando altri cinque al supplizio.

Un nugolo di armati accompagnava il corteo: poco dopo, a Pessano, si compiva la strage!

Questi dunque gli avvenimenti che ci portano fino alle 17 del pomeriggio di quel luttuoso 9 marzo.

Il Tribunale delPopolo annuncia la condanna a morte di Luigi Gatti e l'esecuzione della sentenza

Il Tribunale delPopolo annuncia la condanna a morte di Luigi Gatti e l'esecuzione della sentenza.

Nell'umido tramonto che precede la notte, Pessano è percorsa da una voce concitata che annunzia l'imminente fucilazione di dieci persone. Essa verrà compiuta nello stesso luogo dove fu aggredito il tenente tedesco. Verso le 17,15 le prime macchine SS. arrivano in paese. provenienti da Monza. Portano anche un giovanotto biondo tutto ammanettato e con numerosi segni di percosse. Si fermano nel cortile di casa Colombo.

Poi è un continuo giungere di soldati tedeschi. Di essi alcuni presidiano il paese nei punti principali ed altri si dislocano, piazzando fucili mitragliatori ai bordi della cava situata dietro la casa Colombo.

Questa operazione viene eseguita con scrupolo, poiché si teme il sopraggiungere di alcune forze partigiane che impediscano la fucilazione. Alle 17,30 arriva il lugubre carrozzone scortato da SS. e fascisti. Questi ultimi, da testimonianze, sembrano ubriachi o comunque alquanto eccitati.

Il racconto dell'amico Tremolada di Pessano, da noi intervistato, si interrompe momentaneamente: la sua memoria sta rivivendo i momenti tragici avvenuti trent'anni or sono. Allora ragazzino, appartato dietro l'angolo di casa, vede schierare otto persone al muro di una porcilaia che fiancheggia il torrente Molgora; nota un viavai di persone e, con raccapriccio, vede che vengono fatti sgombrare dalla porcilaia i maiali per paura che le pallottole possano uccidere qualche animale.

Compiuta questa macabra operazione, prima che venga dato l'ordine di sparare viene allontanato Carlettino Vismara («Pino»solo per la sua giovanissima età; viene salvato da un'atroce morte ma lo si costringe ad assistere al compiersi dell'eccidio.

E' l'ora: si punta la mitragliatrice, ma questa si inceppa; si fanno avanti due figuri neri, di cui uno è il caporione Gatti che, con fucili mitragliatori MAB. fanno fuoco, non prima che Alberto Gabellini possa gridare: «Sparate su di me, vigliacchi, non su questi ragazzi».

I corpi martoriati si ammucchiano, come per fondersi in un abbraccio eterno; alcuni rantolano ancora e vengono finiti tutti con il colpo di grazia alla nuca. Compiuta la carneficina, i massacratori decidono di gettane i corpi nella Molgora, forse nella speranza di nascondere o cancellare il loro misfatto.

Il parroco di Pessano, Don Vincenzo Varisco, interviene ed ottiene, dopo non poche insistenze e suppliche, l'autorizzazione a seppellire i corpi martoriati dei sette Martiri nel Cimitero locale.

Pessano - La lapide ai Martiri

Pessano - La lapide ai Martiri

Carlettino Vismara («Pino»), con ancora negli occhi la tremenda visione, viene riportato a Monza e successivamente trasferito a San Vittore a Milano unitamente a Carlo Riva e ad Attilio Bestetti che lasceranno il carcere ad insurrezione avvenuta.

I familiari degli uccisi chiedono invano di poter dare loro sepoltura nel Cimitero di Carate; ogni tentativo è inutile perché le Brigate Nere sioppongono con le armi spianate ad ogni umana richiesta, negando perfino ai congiunti più stretti di poter rivedere un'ultima volta le salme. L'unica concessione è che le suore di Pessano ripuliscano i cadaveri e ne ricompongano pietosamente le membra straziate.

Nel frattempo, alla «Wender» di Cusano, dove lavoravano Dante Cesana ed Angelo Viganò, i compagni dei giustiziati sono ai loro posti di lavoro, con gli occhi umidi di pianto e il cuore gonfio d'angoscia, in attesa di un particolare segnale per sfuggire ad una eventuale cattura dei resti della Brigata Partigiana.

Tutti sono vigili, assorti in una drammatica attesa; la cellula comunista clandestina è in allarme; le mani che manovrano le macchine utensili non si muovono con l'abituale scioltezza: la mente di tutti è rivolta ai compagni caduti. La vigilanza però non viene osservata da Carlo Vergani e da Giuseppe Merli che, con una decisione improvvisa, generosa ma anche colma di rischi, infrangono le ferree regole della clandestinità e abbandonano la fabbrica per recarsi in bicicletta al Cimitero di Pessano a rendere omaggio al compagni caduti, esponendosi in tal modo al pericolo d'altre tragiche rappresaglie e all'eventualità di essere individuati.

Nonostante la drammatica fine dei loro compagni, i superstiti della Brigata Partigiana non si dispersero, anzi, nella certezza della imminente vittoria, moltiplicarono la loro attività, le file si ingrossarono finché il vento di aprile soffiò così forte da spazzar via fascisti e invasori.

Il popolo insorse, cacciò i tedeschi e i fascisti rimasti tentarono invano ogni possibile nascondiglio per sfuggire al giusto castigo popolare.

Era il 25 aprile 1945.

Luigi Colombo
Carate Brianza, 28 febbraio 1975
Stampatore originale: “Tipo - lito - ripamonti” - Villasanta - Milano
Trascrizione per Internet: Romeo Cerri mail: webmaster@brianzapopolare.it
Versione in formato RTF: 19750201_pagine_resistenza_carate.rtf