Giulio Andreooti condannato a 24 anni
L'omicidio del direttore di "Op" , in attesa delle motivazioni della sentenza.

Pecorelli e quelle "cose politiche"

Le parole di Buscetta e la testimonianze di due donne sconosciute al grande pubblico

Per capire l'alchimia di un processo bisogna attendere le motivazioni della sentenza, o almeno conoscere i fatti del dibattimento, persino in uno strano paese come il nostro, dove i commenti sono sempre più lunghi delle notizie. A maggior ragione i fatti vanno conosciuti se il processo è indiziario, e se tra gli accusati c'è un personaggio che, nel bene e nel male, ha segnato la storia della prima Repubblica. Un personaggio che in cinquant'anni di vita politica ai vertici delle istituzioni è riuscito a seminare il suo cammino di sospetti, ma anche di simpatie trasversali all'intero arco politico e di uno stile ironico e sommesso che lo rende simpatico alla maggioranza degli italiani.

Persino ieri, all'indomani della condanna, Andreotti ha reagito con un garbo e un rispetto dei ruoli sconosciuto alla maggioranza dei suoi difensori, a cominciare dal premier Silvio Berlusconi. Per questo, mentre si deposita il prevedibile polverone della solidarietà e dello sconcerto suscitato dalla condanna del senatore a vita come mandante dell'omicidio di Mino Pecorelli, si deve cercare di analizzare i fatti. A partire da quello che appare come il buco nero della sentenza: com'è possibile che la Corte D'Assise di Perugia abbia condannato il mandante del delitto e assolto presunti killer.

A botta calda i due legali del senatore - e i moltissimi difensori non autorizzati - hanno puntato il dito su quest'incongruenza in maniera quasi irridente. Eppure, la spiegazione del mistero sarebbe abbastanza semplice secondo l'accusa: «La corte si è attenuta al principio di civiltà giuridica che impone di trovare riscontri alle accuse dei pentiti - spiega l'avvocato Alessandro Benedetti, uno dei difensori di parte civile della famiglia Pecorelli - E' accaduto, molto semplicemente, che per due degli imputati, Andreotti e Badalamenti, il processo ha appurato dei riscontri concordanti, mentre per gli altri questo non è accaduto».

Codici e morti

In particolare, per quanto riguarda i due presunti assassini, le posizioni vanno distinte: contro uno di loro, Michelangelo La Barbera, vi erano le accuse di un solo pentito, il boss della Banda della Magliana Antonio Mancini. Contro il secondo, Danilo Abbruciati, le testimonianze dei pentiti erano molte e concordanti. Ma Abbruciati è morto nel 1981, ucciso in uno scontro a fuoco, e quindi la corte non ha esaminato la sua posizione.

I riscontri dunque. Riscontri univoci e concordanti alle accuse lanciate per primo da Tommaso Buscetta, che nel 1984 fornì a Giovanni Falcone i codici segreti per capire la struttura della mafia e istruire il primo maxiprocesso di Palermo. Del delitto Pecorelli, Buscetta parlò ai giudici di Palermo il 6 aprile del 1993, in una località segreta della Florida, dove viveva protetto dal Fbi, ricostruendo le confidenze ricevute tra il 1980 e l'82 da Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti: «In base alla coincidente versione dei due - mise a verbale il pentito -, quello di Pecorelli fu un delitto politico voluto dai cugini Salvo in quanto a loro richiesto dall'onorevole Andreotti». Buscetta fece una pausa e poi aggiunse: «Secondo quanto mi disse Badalamenti, sembra che Pecorelli stesse appurando "cose politiche" legate al sequestro Moro. Pecorelli e Dalla Chiesa sono cose che s'intrecciano tra loro».

Da queste frasi partì l'inchiesta. Detto in soldoni, i magistrati considerarono l'ipotesi che Pecorelli potesse essere venuto in possesso di parti del memoriale scritto dal presidente della Dc Aldo Moro nella "prigione del popolo" brigatista. Quelle parti rimaste segrete nel 1978 e venute alla luce solo nel 1990. Parti che all'epoca sarebbero state occultate, perché contenenti rivelazioni di Moro - e "sgradite" ad Andreotti - sugli scandali Sindona e Italcasse.

Su questa ipotesi s'inserirono le rivelazioni di alcuni pentiti della Banda della Magliana di Roma, i quali confermarono le dichiarazioni di Buscetta, fornirono i nomi dei presunti killer, Abbruciati e la Barbera, e indicarono l'andreottiano Claudio Vitalone e il mafioso Pippo Calò come i due elementi di tramite tra mandante ed esecutori. Un impianto che costituì l'atto d'accusa del primo processo, nonostante le lamentele di Buscetta, che fece sapere di non essere convinto del coinvolgimento di Calò e La Barbera. Un impianto che fu ritenuto non credibile dai giudici di primo grado, che pure riconobbero la sostanziale attendibilità di Buscetta.

I giudici di secondo grado, per quello che si può intuire, hanno scelto di tornare al nucleo originario delle accuse, quelle di don Masino. E su quelle, solo su quelle, hanno considerato circostanziati e attendibili i riscontri.

E qui veniamo al secondo punto delicato: quali possono essere i riscontri all'accusa di essere il mandante di un delitto, posto che non esistono intercettazioni o pezzi di carta a testimoniare l'ordine dato da Andreotti?

A disposizione dei giudici vi erano molti indizi sulla effettiva conoscenza dei misteri del caso Moro da parte di Pecorelli, e ne parleremo. Ma a convincere la giuria popolare sarebbero state soprattutto le testimonianze di due donne, sconosciute al grande pubblico e probabilmente anche a molti di quelli che sono intervenuti in questi giorni in tv e sui giornali a difesa del senatore a vita. Queste donne si chiamano Chiara Zossolo e Franca Mangiavacca.

La signora Zossolo è la moglie di Tony Chicchiarelli, pregiudicato ucciso in circostanze mai chiarite nel 1981. E qui, per capire, bisogna aprire una parentesi su questo personaggio, abile falsario e depositario di molti misteri del caso Moro. In sintesi, Chicchiarelli è l'uomo che per conto - forse - dei servizi segreti, confezionò il falso comunicato numero 7 del sequestro Moro, quello che indirizzò legioni di carabinieri al lago della Duchessa, in cerca del cadavere dell'uomo politico. Ma Chicchiarelli, per quello che c'interessa, è soprattutto l'uomo che qualche tempo dopo il delitto Pecorelli (avvenuto il 20 marzo del 1979) confezionò e fece trovare in un taxi romano una serie di false "schede brigatiste" a carico di personaggi pubblici, insieme a oggetti che riportavano ai misteri del sequestro Moro (come una testina rotante Ibm da macchina per scrivere, simile a quella usata per stilare i comunicati dei terroristi).

Chiara Zossolo ha riferito alla Corte perugina un suo ricordo del 1981: al Senato era in corso la polemica sulla famosa cena al ristorante "la Famjia piemonteisa", nel corso del quale il senatore Vitalone e altri personaggi dell'entourage andreottiano avevano offerto soldi a Pecorelli perché cessasse di attaccare Andreotti sul suo giornale, "Op". Commentando quel fatto, Chicchiarelli spiegò di conoscere il vero motivo della morte del giornalista: «Pecorelli - disse l'uomo alla moglie - è stato ucciso perché aveva appurato delle cose sul sequestro Moro».

Nel 1981, quindi, Tony Chicchiarelli è al corrente delle stesse cose che Buscetta riferirà nel 1993. Il riscontro è importante perché Chicchiarelli e Buscetta non si conoscono, e perché la Zossolo è considerata un testimone molto attendibile, non avendo alcun motivo di mentire o di inventare su circostanze che conosce a malapena.

A rendere ancora più pesante questo riscontro è una seconda deposizione, resa dalla testimone Franca Mangiavacca, segretaria e ultima compagna di Pecorelli. La signora Mangiavacca ha infatti riconosciuto, in mezzo a decine di fotografie, quella di Chicchiarelli. E' lui l'uomo che ha pedinato lei e Pecorelli nei giorni precedenti all'omicidio del giornalista.

Riassumendo: i giudici hanno stabilito con sufficiente certezza che Chicchiarelli, poi a sua volta assassinato, partecipò alla fase di preparazione del delitto Pecorelli. Chicchiarelli dice alla moglie di conoscere il motivo per cui il giornalista è stato ucciso, e questo motivo è lo stesso indicato molti anni dopo da Buscetta: i segreti del caso Moro.

Questi due indizi, naturalmente, non sono appesi al nulla, ma s'inseriscono in un contesto, lo stesso già tracciato agli albori del processo di Perugia, nelle 507 pagine della richiesta di rinvio a giudizio firmata dal pm Fausto Cardella. Quella ricostruzione parte dal ruolo di Cosa Nostra nel sequestro Moro. O meglio dal mancato ruolo: vale a dire, dalla "precisa volontà di alcuni uomini del partito (la Dc, nda) di scongiurare qualsiasi tentativo di liberazione dell'onorevole Moro". Secondo i magistrati i tentativi di Cosa Nostra di individuare la prigione di Moro vengono bloccati, dopo essere stati sollecitati, per timore delle possibili rivelazioni del presidente della Dc contro altri suoi autorevoli esponenti. Da qui si passa al caso del cosiddetto memoriale Moro nelle due versioni: quella "censurata", trovata nel 1978, e quella integrale rinvenuta soltanto nel 1990. E' certo, secondo i magistrati, che il generale dalla Chiesa ha avuto tra le mani, fin dal 1978, la versione integrale. Ed è altrettanto certo che Dalla Chiesa e Pecorelli, entrambi iscritti alla P2, entrambi elementi anomali della loggia massonica, si sono incontrati almeno due volte dopo il rinvenimento del primo memoriale. Terza cosa certa è che Pecorelli sa bene che il memoriale pubblicato dai giornali è monco: «La lettura del testo del memoriale Moro - scrive su "Op" Pecorelli il 24 ottobre, due settimane dopo il ritrovamento da parte degli uomini di dalla Chiesa - ha già sollevato dubbi sulla sua integrità… Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli importanti segreti di Stato?».

Articoli sgraditi

La domanda sembra retorica. Anche perché nei successivi numeri di "Op" Pecorelli comincia a pubblicare notizie e documenti esclusivi proprio su quegli argomenti - scandalo Italcasse, caso Sindona, operazione Gladio - che sono contenuti nel memoriale integrale, quello che diventerà pubblico solo nel 1990.

Quindi, è l'ipotesi, Dalla Chiesa avrebbe consegnato a Pecorelli la versione integrale del memoriale Moro. Andreotti lo avrebbe saputo o intuito, e avrebbe chiesto alla mafia, attraverso i cugini Salvo di Salemi (entrambi deceduti) il "favore" di eliminare Pecorelli. E qui il quadro criminale dovrebbe allargarsi al generale Dalla Chiesa - «cose che s'intrecciano tra loro», aveva detto Buscetta - l'altro depositario dei segreti del memoriale. Tra gli indizi degni di nota, secondo la corte d'Assise che ha condannato Andreotti, c'è il fatto che la mafia avesse progettato l'omicidio di dalla Chiesa già nel 1979, tre anni prima che il generale, assumendo la carica di prefetto di Palermo, diventasse un potenziale pericolo per Cosa Nostra.

Questo è il nucleo di partenza dell'inchiesta. Su queste basi il pm Cardella accumula carte, cerca riscontri o smentite alle accuse dei pentiti. Nella sua stanza, dentro il piccolo e austero tribunale di Perugia, si svolgono a partire dal 1995 interrogatori sempre più drammatici: c'è il freddo Andreotti che a tratti annaspa o fa finta di annaspare, inguaia Vitalone che ha forsennatamente negato di conoscere i cugini Salvo, poi ritratta penosamente. C'è Vitalone che scarica tutto su un altro andreottiano, Franco Evangelisti, che è morto e non si può difendere. Ci sono testimoni che mentono e quando sono smascherati raccontano di aver ricevuto pressioni per farlo. Ci sono imputati marginali, come l'agente del Sisde Giancarlo Paoletti, che s'incartano e ricorrono alla metafisica: «Non ricordo, però preciso: non ricordare non vuol dire escludere o rinnegare».

Cardella vede sfilare quel pezzo d'umanità dolente e arrogante, compila verbali, legge i rapporti di Ros e Dia, incastra i pezzi e alla fine si convince: le dichiarazioni dei pentiti reggono il peso della verità. Sei anni dopo il tribunale gli dà ragione, in attesa dell'ultimo verdetto, quello della Cassazione.

Le tappe del caso Pecorelli

Michele Gambino
Roma, 19 novembre 2002
da "Liberazione"