Settembre 1943: periodo oscurissimo per le coscienze italiane.
Soltanto un'eletta minoranza sa veder subito la giusta via e l'imbocca senza esitazione; altri, anche di buona volontà, tentennano dubitosi del proprio giudizio, smarrendosi nel sovrapporsi caotico degli eventi.
Ma Giancarlo non può sbagliare. Sua guida è l'amore ardentissimo per l'Italia trasmesso a lui dalle generazioni di patrioti da cui discende.
Forse anche riecheggia in lui il suo stesso grido d'amore di quando, studente dodicenne, l'estro precoce gli dettava una composizione poetica sulla sua Patria. All'Italia appunto è intitolato quel breve saggio che non si può leggere senza meraviglia, non tanto per la sua forma -- sebbene eccezionalmente sicura e matura in un bambino -- quanto per la limpidezza del concetto sgomitolato senza titubanze dalla premessa alla recisa conclusione. Eccole nella sua integrità:

 

LA FORMA D'ITALIA

 
 

1

L'Italia uno stivale?
Io faccio una protesta
contro una plateale
sciocchezza come questa.
Un paragon sì frusto
è privo di buon gusto.

 

2

Oh, come avvicinare
le armoniose forme
ch'Ella disegna in mare
a una scarpaccia enorme?
Pensier da ciabattino
cui proprio non m'inchino.

 
         
 

3

L'Italia è un I maiuscolo
nel nostro mar disteso,
o un braccio, col suo muscolo
gagliardo, e un dito teso
imperiosamente
all'Africa, all'Oriente.

 

4

O piuttosto lo stelo
d'una incantata rosa
che tra il mare ed il cielo
sboccia meravigliosa,
e l'isole son tanti
petali svolazzanti

 
 

5

Ma no! L'augusto aspetto
di tale meraviglia
a nessun vano oggetto,
io penso, s'assomiglia,
e il paragon la guasta.
Dite: è l'Italia, e basta.

 
 

Proprio così, Giancarlo: con più vasta significazione, anche nell'istante di dedicarle la vita hai detto: è l'Italia, e basta. L'adolescente ha confermato l'assunto del bambino: non si discute quando è la Patria in gioco!
Forse, nel momento della decisione, gli suona nel cuore per le misteriose vie dell'eredità di sangue, la voce di quell'antenato arcivescovo che dal pulpito di Trento osava mescolare il grido dell'irredentismo alle parole della fede: oggi pure si tratta di redimere l'Italia da un selvaggio, e Giancarlo non fraintende il richiamo.
Ardente come non mai, nei giorni stessi del caos settembrino Giancarlo si butta allo sbaraglio. Menti più mature della sua brancolano ancora nel buio: dov'è il bene, dove il male? Ha diritto chi vuol comandare, ha ragione chi non vuole obbedire? Qual'è il nemico, quale l'amico?
Ma Giancarlo non esita; il suo entusiasmo è perfettamente sereno perchè scevro da incertezze. Il padre, patriota purissimo anch'egli, è tuttavia sgomento da tanto fuoco; non ostacolerà il figlio nel cammino intrapreso ma vorrebbe almeno che altri, più esperti, preparassero la via. Ma Giancarlo è una fiamma viva, dove tocca accende; e il padre non resiste.
Da quell'istante casa Puecher diviene una forgia di passione italica. Chiamati da Giancarlo, altri giovani, amici e compagni d'infanzia, vi si adunano; problemi altissimi vengono affrontati e discussi.
Giancarlo insegna, propone, s'infiamma. Nell'età in cui altri cercherebbero una guida, si fa guida e guida sicura.
Intorno a lui stanno all'inizio 12 ragazzi dai diciotto ai ventitrè anni; Ballabio Felice, Porro Antonio, Ratti Ilo, Zappa Rinaldo, Rossini Carlo, Redaelli Mario, Gerosa Felice, Magni Elvio, Porro Guido, Rigamonti Grazioso, Todeschini Alberto e, subito dopo, Meroni Dino, tutti di Lambrugo. Essi sono il buon terreno in cui la semente darà frutti di sofferenza e di sangue.
Ma parlare non basta, agire bisogna!
Già durante il periodo dello sbandamento militare i Puecher avevano ospitato, assistito, avviato verso la montagna o le case numerosi sbandati. Ci sono tre ufficiali che forse conservano ancora il vestito avuto in dono nella rossa villa di Lambrugo.
Ma adesso è il momento dell'azione costruttiva.
I ragazzi nascosti in montagna necessitano di viveri, medicinali, indumenti, denari: tutto. Giancarlo cogli amici pensa a raccogliere e distribuire. Ma fra gli stessi che gli stanno vicino son dei renitenti, "disertori" reietti dai posti di lavoro... Al termine d'ogni riunione Giancarlo si guarda intorno -- quello sguardo azzurro potranno mai dimenticarlo i compagni? --:
-- Ragazzi, c'è qualcuno che ha bisogno?...
E tiene già il portafogli in mano, quasi a incoraggiare il "sì" peritoso.
Camerata vero, amico impareggiabile, araldo di fede patria, vede il nucleo degli adepti aumentare. Tutti fidati? Sul conto di qualcuno gli amici tentennano, ma Giancarlo è puro, non sospetta l'impurità.
Ora sono in parecchi. Le forze vengono divise in due campi: uno, in difensiva a Lambrugo, l'altro comandato dal tenente Fuci, per il deposito di armi e materiali a Pontelambro, e San Salvatore, località elevata sopra Erba.
Le armi, certo, non son molte; qualcuna l'hanno lasciata i militari sbandati, due moschetti li offre il parroco di Lambrugo, un caro prete che ha fatto l'altra guerra come cappellano degli Arditi riportandone i distintivi dell'onore -- eh, don Edoardo Arrigoni, come sfavillano gli occhi, come si scalda il cuore ripensando a quel tempo! -- e che adesso rivive momenti eroici assistendo questi suoi ragazzi nell'impresa audace, nel rischio mortale.
Si pensa a qualche colpo di mano. A Ceriano Laghetto, la caserma dei carabinieri... A Desio, nel Collegio Arcivescovile ci sono armi occultate... Ma nè l'uno nè l'altro va ad effetto. Il rettore del Collegio di Desio va in Germania...
Le ricerche, i contatti non sono facili e richiedono tempo, per quanto le biciclette volino sulle strade brianzole. Occorrerebbero macchine.
Un giorno Giancarlo è a Milano. Davanti alla Stazione Centrale sosta un'automobile tedesca. Piena luce, piazzale popolato, nessuno penserebbe a combinare un tiro. Infatti Giancarlo non pensa, chè sarebbe perder tempo. Agisce. Un vetro spezzato da un pugno, la portiera aperta dall'interno... La macchina balza, fugge, è fuori vista, è in campagna.
Chissà se il ragazzo che adesso impugna il volante conquistato ha per un attimo la visione della sua prima macchina, anch'essa conquistata, ma in ben altre circostanze! Si chiamava "Eulalia I", e l'aveva costruita, giovinetto ancora, con le sue stesse mani dopo essersi procurato un miracoloso motore. Filava la straordinaria Eulalia; nei viali del giardino di Lambrugo profondi solchi testimoniavano della sua attività piuttosto turbolenta. Ma non avrebbe pensato il fanciullo d'allora, nè i parenti che assistevano con trepidazione a quelle manifestazioni d'esuberanza ardita, a quali sviluppi sarebbero giunte le precoci prodezze automobilistiche.
Via a velocità pazzesca guizzando sulle curve di quei serpenti che sono le strade di Brianza, le vetture "requisite" -- ne arriva poi un'altra, fascista -- compiono egregiamente l'imprevista missione.
Scarseggia però la benzina. Si sente dire che ve ne sia imboscata al Crotto Rosa di Erba. Lasciarla là a disposizione dei nazifascisti o dei borsaneristi sarebbe criminoso. Così la pensano i patrioti, così la pensa, fortunatamente anche il Maresciallo dei carabinieri di Erba.
Una notte, caso dovuto a un "miracolo", la pattuglia dei militi non esce per la solita ronda. Proprio la stessa notte, vedi coincidenza, alcuni giovani che non hanno l'aria di clienti s'introducono al Crotto. Non vogliono bibite; liquido sì, ma di un genere potabile soltanto per il motore.
Quando gli inattesi ospiti se ne vanno, nel Crotto vi sono dei bidoni in meno e un ricordo di più; il ricordo di due splendidi occhi azzurri, perchè Giancarlo, per non spaventare due donne presenti al colpo, s'è tolto la maschera...
I fascisti cominciano assai presto a farsi sentire. Bieche figure prendono ad agitarsi intorno agli animosi eroi dell'idea: Airoldi, Bruschi, Saletta, illustri nomi della criminologia mussoliniana. Ma i patrioti non desistono e la guerra sorda allinea i colpi ai colpi. Ci sono proseliti da fare, munizioni da scovare, muli e cavalli del disciolto esercito da sottrarre all'avversario; c'è da drizzar le orecchie al minimo sentore di buon bottino, e correre. Talvolta si arriva tardi, come a Missaglia, in una villa dove il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) aveva segnalato armi e le armi non si trovano perchè la previdenza fascista le ha fatte sparire un'ora prima.
Giornate di fatica strenua, di pericolo assillante. Fatica e pericolo che sul volto di Giancarlo, rincasante a notte, si traducono in un maggiore affinamento di lineamenti belli, in un più chiaro ardore, in maschia e adulta tensione.
Tuttavia prudenti bisogna essere, per i compagni se non per sè. La collina di San Salvatore non sembra più adatta a mantener segreti: si trasporta allora tutto ciò che contiene a Pontelambro, in un cascinale di gente fidatissima.
Un giorno vien presentato a Giancarlo un viso nuovo: un biondino; un capo partigiano, gli vien detto da persona degna di fiducia. C'è un bel colpo da fare: benzina all'albergo Milano di Bellagio. Benissimo, si combina: tutto è pronto nei particolari, macchina compresa.
Senonchè, la mattina dopo il biondino non c'è più; il biondino è sparito con la macchina.
Non lo rivedranno dunque più a Lambrugo? Oh si, lo rivedranno in compagnia di tedeschi. Perquisizione, in casa Puecher e altrove. Non trovano nulla. Seccatissimi portano via la zia di Giancarlo, l'intrepida signorina Gianelli, e altre persone che assaggiano il carcere nazifascista per tre giorni.
(Particolare piccante: il biondino risulta nipote di un giornalista e radiocommentatore fascistissimo, ben conosciuto e stramaledetto dagli ascoltatori dell'Eiar).
Lo sguardo limpido, il chiaro viso di Giancarlo ormai danno l'incubo al fosco podestà di Erba che incalza con denuncie e ricerche, tanto che il giovane è costretto per qualche tempo a lasciare la zona.
Ma presto ritorna perchè qui è il teatro della sua passione, perchè qui è la ragione della sua esistenza; torna consapevole del pericolo e presentendo la morte. Quante volte cogli amici più intimi non s'è lasciato sfuggire la parola del presagio che ora diviene, nel chiaroveggente spirito, certezza!
Il 12 Novembre 1943, due repubblicani sono assaliti e uccisi da ignoti a Erba: il centurione Pontiggia e l'amico suo Pozzoli.
Perchè le indagini siano avvelenate dallo spirito di vendetta, vengono affidate a un fratello del Pozzoli. Immediatamente i dintorni della cittadina brianzola si fanno per i patrioti scottanti.
Ventiquattr'ore sono appena scorse dal fatto, che Giancarlo Puecher e un suo compagno, forti della loro perfetta innocenza, si mettono in sella per una delle ormai solite missioni. A Lezza, tra Pontelambro ed Erba, un alt, poi colpi d'arma da fuoco...
Giancarlo, che ha subito gettato la pistola, viene preso, percosso. Perchè? Non ha sparato, non gli trovano indosso nulla di compromettente, agli occhi dei catturatori non dovrebbe risultar colpevole che di contravvenzione al coprifuoco. Ad ogni buon conto picchiano.
Il suo compagno, ferito, è in possesso di manifestini antifascisti dei quali, all'insaputa di Puecher, assume tutta la responsabilità.
La prigione si spalanca davanti ai due, richiudendosi alle loro spalle. La mattina dopo è incarcerato anche il Dott. Giorgio Puecher, il padre reo d'aver continuato nel figlio la tradizione eroica della famiglia sua.
Ed ha inizio, dopo le pagine dell'audacia disfidante, l'ultima, la sovrumana, quella del coraggio santo che non trova il suo sfogo nell'azione nè il suo premio nel successo, che attinge alle sole forze dello spirito mentre il corpo langue e la gioia dell'iniziativa è preclusa. Il coraggio dei martiri.
I giorni lugubremente scorrono nel carcere infame, martellando la resistenza fisica dei predestinati, non la resistenza morale; chè anzi tanto si eleva e palpita e vive la fiamma dell'idea, da erompere a un dato istante in un getto di luce fulgidissima, simile a quella che resta ad illuminare per sempre le celle di Sauro, di Battisti e di Oberdan.
Giorgio e Giancarlo Puecher potrebbero fuggire, se volessero; l'ha comunicato segretamente una voce amica: i carabinieri, al momento concertato, chiuderanno gli occhi...
Non fuggono. E' una cosa tanto semplice a dire: non fuggono. Con altrettanta semplicità padre e figlio la compiono, questa cosa sovrumana ch'è la rinunzia a un'evasione. Quando restare significa prigionia senza fine, umiliazioni, percosse, tortura, quando restare significa forse la morte, restano. Per non abbandonare i compagni incarcerati con loro, restano. E' tanto semplice per anime come Giorgio e Giancarlo Puecher.

 
 
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Irene Crippa
Renate Brianza, 6 novembre 1945
Editore originale: Stefano Pinelli - Milano
Trascrizione per Internet: Enrico Spreafico mail:sprea@libero.it