Proprio così, Giancarlo: con più vasta significazione, anche
nell'istante di dedicarle la vita hai detto: è l'Italia, e basta.
L'adolescente ha confermato l'assunto del bambino: non si discute
quando è la Patria in gioco!
Forse, nel momento della decisione, gli suona nel cuore per le
misteriose vie dell'eredità di sangue, la voce di quell'antenato
arcivescovo che dal pulpito di Trento osava mescolare il grido
dell'irredentismo alle parole della fede: oggi pure si tratta
di redimere l'Italia da un selvaggio, e Giancarlo non fraintende
il richiamo.
Ardente come non mai, nei giorni stessi del caos settembrino Giancarlo
si butta allo sbaraglio. Menti più mature della sua brancolano
ancora nel buio: dov'è il bene, dove il male? Ha diritto chi vuol
comandare, ha ragione chi non vuole obbedire? Qual'è il nemico,
quale l'amico?
Ma Giancarlo non esita; il suo entusiasmo è perfettamente sereno
perchè scevro da incertezze. Il padre, patriota purissimo anch'egli,
è tuttavia sgomento da tanto fuoco; non ostacolerà il figlio nel
cammino intrapreso ma vorrebbe almeno che altri, più esperti,
preparassero la via. Ma Giancarlo è una fiamma viva, dove tocca
accende; e il padre non resiste.
Da quell'istante casa Puecher diviene una forgia di passione italica.
Chiamati da Giancarlo, altri giovani, amici e compagni d'infanzia,
vi si adunano; problemi altissimi vengono affrontati e discussi.
Giancarlo insegna, propone, s'infiamma. Nell'età in cui altri
cercherebbero una guida, si fa guida e guida sicura.
Intorno a lui stanno all'inizio 12 ragazzi dai diciotto ai ventitrè
anni; Ballabio Felice, Porro Antonio, Ratti Ilo, Zappa Rinaldo,
Rossini Carlo, Redaelli Mario, Gerosa Felice, Magni Elvio, Porro
Guido, Rigamonti Grazioso, Todeschini Alberto e, subito dopo,
Meroni Dino, tutti di Lambrugo. Essi sono il buon terreno in cui
la semente darà frutti di sofferenza e di sangue.
Ma parlare non basta, agire bisogna!
Già durante il periodo dello sbandamento militare i Puecher avevano
ospitato, assistito, avviato verso la montagna o le case numerosi
sbandati. Ci sono tre ufficiali che forse conservano ancora il
vestito avuto in dono nella rossa villa di Lambrugo.
Ma adesso è il momento dell'azione costruttiva.
I ragazzi nascosti in montagna necessitano di viveri, medicinali,
indumenti, denari: tutto. Giancarlo cogli amici pensa a raccogliere
e distribuire. Ma fra gli stessi che gli stanno vicino son dei
renitenti, "disertori" reietti dai posti di lavoro... Al termine
d'ogni riunione Giancarlo si guarda intorno -- quello sguardo
azzurro potranno mai dimenticarlo i compagni? --:
-- Ragazzi, c'è qualcuno che ha bisogno?...
E tiene già il portafogli in mano, quasi a incoraggiare il "sì"
peritoso.
Camerata vero, amico impareggiabile, araldo di fede patria, vede
il nucleo degli adepti aumentare. Tutti fidati? Sul conto di qualcuno
gli amici tentennano, ma Giancarlo è puro, non sospetta l'impurità.
Ora sono in parecchi. Le forze vengono divise in due campi: uno,
in difensiva a Lambrugo, l'altro comandato dal tenente Fuci, per
il deposito di armi e materiali a Pontelambro, e San Salvatore,
località elevata sopra Erba.
Le armi, certo, non son molte; qualcuna l'hanno lasciata i militari
sbandati, due moschetti li offre il parroco di Lambrugo, un caro
prete che ha fatto l'altra guerra come cappellano degli Arditi
riportandone i distintivi dell'onore -- eh, don Edoardo Arrigoni,
come sfavillano gli occhi, come si scalda il cuore ripensando
a quel tempo! -- e che adesso rivive momenti eroici assistendo
questi suoi ragazzi nell'impresa audace, nel rischio mortale.
Si pensa a qualche colpo di mano. A Ceriano Laghetto, la caserma
dei carabinieri... A Desio, nel Collegio Arcivescovile ci sono
armi occultate... Ma nè l'uno nè l'altro va ad effetto. Il rettore
del Collegio di Desio va in Germania...
Le ricerche, i contatti non sono facili e richiedono tempo, per
quanto le biciclette volino sulle strade brianzole. Occorrerebbero
macchine.
Un giorno Giancarlo è a Milano. Davanti alla Stazione Centrale
sosta un'automobile tedesca. Piena luce, piazzale popolato, nessuno
penserebbe a combinare un tiro. Infatti Giancarlo non pensa, chè
sarebbe perder tempo. Agisce. Un vetro spezzato da un pugno, la
portiera aperta dall'interno... La macchina balza, fugge, è fuori
vista, è in campagna.
Chissà se il ragazzo che adesso impugna il volante conquistato
ha per un attimo la visione della sua prima macchina, anch'essa
conquistata, ma in ben altre circostanze! Si chiamava "Eulalia
I", e l'aveva costruita, giovinetto ancora, con le sue stesse
mani dopo essersi procurato un miracoloso motore. Filava la straordinaria
Eulalia; nei viali del giardino di Lambrugo profondi solchi testimoniavano
della sua attività piuttosto turbolenta. Ma non avrebbe pensato
il fanciullo d'allora, nè i parenti che assistevano con trepidazione
a quelle manifestazioni d'esuberanza ardita, a quali sviluppi
sarebbero giunte le precoci prodezze automobilistiche.
Via a velocità pazzesca guizzando sulle curve di quei serpenti
che sono le strade di Brianza, le vetture "requisite" -- ne arriva
poi un'altra, fascista -- compiono egregiamente l'imprevista missione.
Scarseggia però la benzina. Si sente dire che ve ne sia imboscata
al Crotto Rosa di Erba. Lasciarla là a disposizione dei nazifascisti
o dei borsaneristi sarebbe criminoso. Così la pensano i patrioti,
così la pensa, fortunatamente anche il Maresciallo dei carabinieri
di Erba.
Una notte, caso dovuto a un "miracolo", la pattuglia dei militi
non esce per la solita ronda. Proprio la stessa notte, vedi coincidenza,
alcuni giovani che non hanno l'aria di clienti s'introducono al
Crotto. Non vogliono bibite; liquido sì, ma di un genere potabile
soltanto per il motore.
Quando gli inattesi ospiti se ne vanno, nel Crotto vi sono dei
bidoni in meno e un ricordo di più; il ricordo di due splendidi
occhi azzurri, perchè Giancarlo, per non spaventare due donne
presenti al colpo, s'è tolto la maschera...
I fascisti cominciano assai presto a farsi sentire. Bieche figure
prendono ad agitarsi intorno agli animosi eroi dell'idea: Airoldi,
Bruschi, Saletta, illustri nomi della criminologia mussoliniana.
Ma i patrioti non desistono e la guerra sorda allinea i colpi
ai colpi. Ci sono proseliti da fare, munizioni da scovare, muli
e cavalli del disciolto esercito da sottrarre all'avversario;
c'è da drizzar le orecchie al minimo sentore di buon bottino,
e correre. Talvolta si arriva tardi, come a Missaglia, in una
villa dove il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) aveva
segnalato armi e le armi non si trovano perchè la previdenza fascista
le ha fatte sparire un'ora prima.
Giornate di fatica strenua, di pericolo assillante. Fatica e pericolo
che sul volto di Giancarlo, rincasante a notte, si traducono in
un maggiore affinamento di lineamenti belli, in un più chiaro
ardore, in maschia e adulta tensione.
Tuttavia prudenti bisogna essere, per i compagni se non per sè.
La collina di San Salvatore non sembra più adatta a mantener segreti:
si trasporta allora tutto ciò che contiene a Pontelambro, in un
cascinale di gente fidatissima.
Un giorno vien presentato a Giancarlo un viso nuovo: un biondino;
un capo partigiano, gli vien detto da persona degna di fiducia.
C'è un bel colpo da fare: benzina all'albergo Milano di Bellagio.
Benissimo, si combina: tutto è pronto nei particolari, macchina
compresa.
Senonchè, la mattina dopo il biondino non c'è più; il biondino
è sparito con la macchina.
Non lo rivedranno dunque più a Lambrugo? Oh si, lo rivedranno
in compagnia di tedeschi. Perquisizione, in casa Puecher e altrove.
Non trovano nulla. Seccatissimi portano via la zia di Giancarlo,
l'intrepida signorina Gianelli, e altre persone che assaggiano
il carcere nazifascista per tre giorni.
(Particolare piccante: il biondino risulta nipote di un giornalista
e radiocommentatore fascistissimo, ben conosciuto e stramaledetto
dagli ascoltatori dell'Eiar).
Lo sguardo limpido, il chiaro viso di Giancarlo ormai danno l'incubo
al fosco podestà di Erba che incalza con denuncie e ricerche,
tanto che il giovane è costretto per qualche tempo a lasciare
la zona.
Ma presto ritorna perchè qui è il teatro della sua passione, perchè
qui è la ragione della sua esistenza; torna consapevole del pericolo
e presentendo la morte. Quante volte cogli amici più intimi non
s'è lasciato sfuggire la parola del presagio che ora diviene,
nel chiaroveggente spirito, certezza!
Il 12 Novembre 1943, due repubblicani sono assaliti e uccisi da
ignoti a Erba: il centurione Pontiggia e l'amico suo Pozzoli.
Perchè le indagini siano avvelenate dallo spirito di vendetta,
vengono affidate a un fratello del Pozzoli. Immediatamente i dintorni
della cittadina brianzola si fanno per i patrioti scottanti.
Ventiquattr'ore sono appena scorse dal fatto, che Giancarlo Puecher
e un suo compagno, forti della loro perfetta innocenza, si mettono
in sella per una delle ormai solite missioni. A Lezza, tra Pontelambro
ed Erba, un alt, poi colpi d'arma da fuoco...
Giancarlo, che ha subito gettato la pistola, viene preso, percosso.
Perchè? Non ha sparato, non gli trovano indosso nulla di compromettente,
agli occhi dei catturatori non dovrebbe risultar colpevole che
di contravvenzione al coprifuoco. Ad ogni buon conto picchiano.
Il suo compagno, ferito, è in possesso di manifestini antifascisti
dei quali, all'insaputa di Puecher, assume tutta la responsabilità.
La prigione si spalanca davanti ai due, richiudendosi alle loro
spalle. La mattina dopo è incarcerato anche il Dott. Giorgio Puecher,
il padre reo d'aver continuato nel figlio la tradizione eroica
della famiglia sua.
Ed ha inizio, dopo le pagine dell'audacia disfidante, l'ultima,
la sovrumana, quella del coraggio santo che non trova il suo sfogo
nell'azione nè il suo premio nel successo, che attinge alle sole
forze dello spirito mentre il corpo langue e la gioia dell'iniziativa
è preclusa. Il coraggio dei martiri.
I giorni lugubremente scorrono nel carcere infame, martellando
la resistenza fisica dei predestinati, non la resistenza morale;
chè anzi tanto si eleva e palpita e vive la fiamma dell'idea,
da erompere a un dato istante in un getto di luce fulgidissima,
simile a quella che resta ad illuminare per sempre le celle di
Sauro, di Battisti e di Oberdan.
Giorgio e Giancarlo Puecher potrebbero fuggire, se volessero;
l'ha comunicato segretamente una voce amica: i carabinieri, al
momento concertato, chiuderanno gli occhi...
Non fuggono. E' una cosa tanto semplice a dire: non fuggono. Con
altrettanta semplicità padre e figlio la compiono, questa cosa
sovrumana ch'è la rinunzia a un'evasione. Quando restare significa
prigionia senza fine, umiliazioni, percosse, tortura, quando restare
significa forse la morte, restano. Per non abbandonare i compagni
incarcerati con loro, restano. E' tanto semplice per anime come
Giorgio e Giancarlo Puecher.
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