Tra qualche giorno in libreria il volume
"I me ciamava per nome: 44.787".
Renato Sarti ha elaborato alcune testimonianze di ebrei sopravvissuti alla deportazione e li ha resi in forma drammaturgica.
Risiera di San Sabba: un campo di sterminio dimenticato

Nel lager triestino morirono in cinquemila

Della Risiera di San Sabba di Trieste oggi in Italia c'è poco ricordo. I rari turisti che, specialmente nei mesi estivi, la vogliono visitare debbono fare i conti con l'apertura al pubblico limitata alla mattina. Eppure vi "passarono per il camino" circa cinquemila vittime e di lì transitarono oltre 1500 ebrei deportati e assassinati poi ad Auschwitz.

Ben venga quindi la pubblicazione del testo teatrale di Renato Sarti, I me cìamava per nome: 44.787 (ed. Baldini & Castoldi), che raccoglie ed elabora "testimonianze di sopravvissuti alla deportazione e allo sterminio nazi-fascista" raccolte da Marco Coslovich e Silvia Bon dell'Istituto regionale per la Storia del movimento di Liberazione del Friuli-Venezia Giulia. Diciamo subito che il libro è coinvolgente al massimo e non pone problemi di lettura anche per chi di solito ha qualche difficoltà a seguire una prosa destinata alla recitazione; anzi, proprio la forma teatrale con battute brevi e sintetiche aggiunge drammaticità e ritmo alla lettura.

La sagoma del forno crematorio distruttoChe anche nel nostro Paese ci sia stato un campo di sterminio è ancora oggi, a oltre sessant' anni dai fatti, quasi del tutto ignorato, come ignorato dai più è il fatto che praticamente nell'abitato di una città, Trieste, abbiano funzionato dei forni crematori. L'Adriatisches Kustenland, immediatamente dopo 18 settembre 1943 annessa al Terzo Reich, comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana ed è proprio a Trieste, che, requisendo uno stabilimento per la pilatura del riso, i nazisti installarono l'unico campo di sterminio sul territorio italiano. Di dimensioni ridotte, certo, ma non meno efficiente dei consimili Buchenwald e Auschwitz, San Sabba, mentre fungeva da transito per i campi di sterminio più grandi, eliminava sul posto quanti, fra slavi ed ebrei, era in grado di smaltire attraverso il suo forno.

Certo, le potenzialità di sterminio del campo triestino erano ridotte: niente a che vedere coi settecentomila ebrei uccisi durante la campagna di Russia e i 10 milioni che passeranno attraverso i camini dei grandi lager della morte, qui le dimensioni sono limitate e l'eliminazione quindi non riesce a superare le cinquemila persone. Poche per i piani di sterminio nazisti, ma troppe per chi, al momento della disfatta, non vuole lasciare testimonianze compromettenti. Come quel Lorenz Hackenholt che, prima di fuggire, ha cura di minare il forno crematorio della Risiera con la speranza di cancellare le tracce del crimine.

Sloveni e croati la maggioranza delle vittime della Risiera, ma molti anche gli italiani, ebrei essenzialmente. Il forno della Risiera comincia a funzionare poco prima del giugno 1944 e ha una capacità giornaliera di 50-70 corpi. Quasi sempre le esecuzioni avvengono di notte, o nel cortile, con un colpo alla nuca, o nel garage. La porta di accesso al forno crematorio è mascherata da un mobile di cucina: di solito le uccisioni sono eseguite da ucraini e da mongoli che prima vengono fatti ubriacare.

Chi ha pagato?

Chi ha pagato per questi massacri? Interrogati dai giudici di Francoforte, due dei comandanti della Risiera affermano di non essersi accorti di nulla. Uno dichiara: «se facevano un'altra fine (i prigionieri, ndr) non lo so: io di notte dormivo» e l'altro: «Non ho mai avuto sentore di alcuna uccisione avvenuta nel comprensorio della Risiera...».

Il libro di Sarti si legge tutto d'un fiato, e la stesura teatrale del testo facilita, anziché ostacolare, la lettura. Una lettura che prende fin dalle prime pagine e che turba, profondamente. Riuscendo a non cadere mai nella retorica, l'autore ricrea l'atmosfera di incubo di quei tempi e ne fa partecipe il lettore. Credo che anche i più giovani così lontani dal clima di quei tempi riescano a identificarsi in questa vicenda tragica e a far proprie le parole di speranza con le quali si chiude il libro: «Siamo in pochi, la generazione sta andando. Però la nostra Risiera potrebbe anche essere un punto di riferimento, d'incontro, di solidarietà».

Marisa Musu
Roma, 1 marzo 2001
da "Liberazione"