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Diritto all'acqua, diritto a vivere

Una gestione mondiale pubblica di un bene patrimoniale comune è non solo auspicabile ma soprattutto possibile

Oggi, parlare d'acqua equivale a parlare di tre grandi sfide, strettamente correlate: il diritto alla vita, il bene comune, la democrazia.

Il diritto alla vita

Diritto alla vita, perché ci sono nel mondo circa 1.680 milioni di persone che, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, non hanno accesso all'acqua potabile, con tutte le conseguenze immaginabili per la salute ed altre attività umane d'importanza vitale. Per chi è privo di questa risorsa fondamentale, il diritto alla vita non è garantito. Inoltre, una persona su tre al mondo non ha accesso ai servizi sanitari ed una persona su due non gode di alcun servizio di trattamento delle acque reflue. Ciononostante, ci definiamo una civiltà sviluppata, la civiltà della mondializzazione, orgogliosi di aver creato una nuova economia, ad alta intensità tecnologica, basata sulle conoscenze e sul sapere.

Il diritto alla vita per tutti va riaffermato perché nel contesto attuale di crescente mercificazione (tutto è ridotto a merce, persino il corpo umano, i nostri geni; per non parlare dei rapporti sociali, delle attività culturali, del mondo della natura) esso viene sempre più condizionato dalle logiche dell'economia capitalista di mercato. Le varie forme e fonti di vita sono oramai l'oggetto sistematico d'appropriazione privata grazie alla generalizzazione dei diritti di proprietà intellettuale, diventati lo strumento principale della privatizzazione del mondo. In altri termini, l'acqua rivela, in modo drammatico, lo stato attuale massiccio, insopportabile, d'esclusione dal diritto alla vita per centinaia di milioni d'esseri umani. Se le cose non cambiano é più che probabile che tra venti anni, quando il mondo sarà popolato da otto miliardi di esseri umani, i 1.680 milioni che non hanno accesso all'acqua potabile diventino 3 miliardi, se non di più. Si tratta di un "futuribile" inaccettabile. Cosa si deve e si può fare per cambiarle? Due azioni concrete meritano la priorità: iscrivere il diritto all'acqua in tutte le costituzioni degli Stati che si dicono democratici e nelle varie Dichiarazioni e Convenzioni internazionali, mondiali ed universali sui diritti umani e, soprattutto, vista la relazione stretta esistente tra povertà ed assenza di accesso all'acqua, promuovere una campagna mondiale per la dichiarazione dell'illegalità della povertà

La spartizione

La seconda sfida concerne l'attuale sparizione dell'acqua in quanto bene comune. Considerata sempre più come un bene economico da sottomettere alle regole degli interessi privati dei produttori, dei distributori, dei gestori dei servizi, dei consumatori, l'acqua sta per uscire in un numero crescente di paesi dal campo della res publica, dei beni comuni, dei servizi pubblici per far parte della categoria dei beni privati. Le nostre società stanno dimostrando di non avere più la voglia di essere fondate ed organizzate sulla base di beni e servizi comuni. Avendo privatizzato quasi tutto (i telefoni, i trasporti, gli ospedali, la televisione, le banche, le assicurazioni, l'energia…) esse non hanno più gran ché in comune.
Ora, più i membri di una comunità umana hanno poco da condividere, meno essi formano una società coesiva. La ricerca dell'interesse generale non figura più come il principio fondatore ed ispiratore del vivere insieme. Quel che conta è massimizzare l'interesse particolare dei più competitivi, dei più forti. Più l'acqua cessa di essere considerata un bene comune appartenente a tutti i membri della società, più le società saranno contaminate dal virus dell'individualismo ad oltranza e da conflitti interni duri tra gruppi sociali e territori in lotta attorno ad usi alternativi, competitivi, dell'acqua, esclusivi degli interessi degli altri. Le tanto annunciate "guerre dell'acqua" diventeranno una realtà
Fino ad ora, anche se l'acqua non è stata vista come un bene comune patrimoniale appartenente all'umanità, essa è stata considerata e vissuta come un bene "nazionale", appartenente alla "comunità nazionale", rappresentata dai poteri pubblici statali. L'assenza di una cultura dell'acqua come bene comune mondiale spiega perché l'acqua è stata e sta diventando oggi una delle cause principali di accentuazione, in un numero crescente di paesi, di conflitti fra nazioni, fra Stati.
A causa della rarefazione dell'acqua qualitativamente soddisfacente nella quantità voluta (l'inquinamento, i prelievi eccessivi, gli sprechi ed abusi dovuti all'attuale modo di produzione agricola ed industriale e, in misura minore l'aumento della popolazione, figurano fra i fattori esplicativi), gli Stati utilizzano l'acqua come uno strumento geopolitico ed economico al servizio delle loro strategie di potenza. Il caso della Turchia è a questo riguardo molto eloquente rispetto alle popolazioni curde ed ai paesi limitrofi quali la Siria e l'Iraq.
E' tempo, se si vuole promuovere una pratica della coesistenza, del co-sviluppo e della co-determinazione a livello internazionale continentale e mondiale, di definire un diritto mondiale dell'acqua, fondato sul principio che l'acqua appartiene all'umanità e non ai singoli paesi, e di riconoscere che tocca alle popolazioni che abitano sullo stesso bacino idrico di gestire in maniera solidale e cooperativa il bene comune in un contesto di promozione di cio' che potrebbe essere definita la "democrazia dei fiumi". Vengo cosi alla terza sfida.

La gestione

La terza sfida è, in effetti, rappresentata dalla democrazia. L'acqua rivela in maniera brutale il fatto che noi viviamo in una società sempre meno, o non ancora, democratica, capace cioè di gestire il diritto alla vita su basi collettive e partecipative. In Gran Bretagna, o in Francia, abbiamo accettato che l'acqua sia gestita da società private la cui logica è dettata dal tasso di rendimento degli investimenti (il rendimento medio attuale in seno ai paesi sviluppati é del 15%). Quando invece è ancora coinvolta l'autorità pubblica, il più delle volte si tratta di una gestione tecnocratica, inefficiente, corrotta, che giustifica e dà forza agli argomenti dei gruppi e delle forze sociali favorevoli alla privatizzazione.

La gestione dell'acqua è una questione di democrazia. Non è un problema di competenze tecniche, proprie ad ingegneri, idraulici, chimici, esperti contabili. Essa é soprattutto un fatto della comunità locale (la città, la regione, il bacino idrico). Privatizzare i servizi d'acqua significa concretamente privatizzare il politico, cioé la capacità legittimata di prendere le decisioni a nome della collettività e nell'interesse generale in materia di allocazione delle risorse comuni.
Esempio concreto: il prezzo. Il prezzo dell'acqua obbedisce sempre di più a logiche di mercato. L'esperienza britannica e francese dimostra che il prezzo di mercato non è lo strumento migliore per assicurare a tutti l'accesso all'acqua nella maniera la più efficace sul piano dell'economia pubblica locale e "nazionale" e dello sviluppo "sostenibile" della democrazia locale.
Nei Paesi Bassi, nelle Fiandre, nel Quebec, sta emergendo l'idea che tocca alla collettività di sobbarcarsi del finanziamento dei costi necessari per assicurare ad ogni cittadino l'accesso al minimo vitale di acqua(calcolato in 50 litri al giorno per usi idropotabili e 1700 metri cubi all'anno a persona, per tutti gli usi compresi). Il costo per garantire l'adduzione, l'epurazione, la distribuzione, il mantenimento, cosi come il trattamento delle acque reflue di questo minimo vitale deve essere un costo collettivamente condiviso. Al di là del minimo vitale, appartiene al cittadino di pagare l'acqua utilizzata in rapporto progressivo al consumo, e cio' entro limiti di accettabilità definiti dalla comunità. Oltrepassati detti limiti, si entra nella zona dell'interdetto. Questo vuol dire che il principio di "chi inquina paga" deve essere sostituito dal principio "chi inquina non può".

La copertura del finanziamento collettivo dei costi associati alla garanzia di accesso all'acqua per tutti gli abitanti del pianeta ed alla valorizzazione e cura dell'acqua come bene comune, passa evidentemente attraverso un sistema fiscale "locale" e mondiale a finalità redistributiva ed una politica di spesa pubblica definita e realizzata secondo procedure di avanzata democrazia ("locale" e mondiale, quest'ultima essendo praticamente da inventar di sna pianta).

Come si può, infatti, applicare un tale principio a livello mondiale? Attualmente, le grandi compagnie private riforniscono quasi 400 milioni di persone. Esse prevedono di dare acqua nel 2015 a 1650 milioni di persone. A più lungo termine, si ipotizza che quattro- cinque grandi reti di imprese private multi-territoriali e multi-servizi potranno gestire, sulla base di appalti e subappalti, l'insieme dei servizi idrici attraverso il mondo. Perché cio' che sembra essere possibile al privato dovrebbe essere impossibile ai poteri pubblici? Una gestione mondiale pubblica di un bene patrimoniale comune come l'acqua è, dunque, non solo auspicabile ma è soprattutto possibile.

L'idea di un Contratto Mondiale dell'Acqua consiste precisamente nel riconoscere la necessità, la pertinenza e la possibilità di una visione e di una pratica democratiche della gestione del diritto alla vita per gli 8 miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2020. La creazione di parlamenti dei bacini (fra i 442 principali bacini fluviali nel mondo, tutti, tranne due, sono binazionali o plurinazionali) rappresenta un passo importante sul cammino della creazione di istanze e strutture necessarie per favorire la partecipazione delle popolazioni alla gestione democratica dell'acqua nell'interesse comune.

Riccardo Petrella (Presidente del Comitato mondiale per l'Acqua)
Firenze, 20 marzo 2003
da "Liberazione"