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L'acqua della guerra

Megadighe in Anatolia, tra questione kurda e politica estera

Il prezzo non è poi tanto alto. Poco più di mille euro per fare, in due settimane, un singolare viaggio nel Kurdistan turco, compresa la visita a villaggi che - in pochi anni - rischiano di non esserci più. Perché sono quelli destinati a essere sommersi dalle acque del Gap, il megaprogetto di dighe e impianti idroelettrici sulla quale la Turchia sta lavorando da almeno quindici anni per ridisegnare il panorama economico e umano dell'Anatolia sudorientale.

Quello dell'agenzia di viaggi di Hegenloh, in Germania, è solo uno dei tanti pacchetti per turisti particolari che è possibile trovare in Internet per andarsene a visitare posti dai nomi difficili: Yusufeli, Hasankeyf, la valle di Coruh. Posti che, però, per i curdi che abitano in maggioranza l'Anatolia sono tutt'altro che sconosciuti. Come Hasankeyf, forse il centro più importante per la cultura curda, mèta di pellegrinaggio per oltre trentamila persone l'anno. Hasankeyf, sede di luoghi sacri e di siti archeologici di valore inestimabile, dovrebbe essere sacrificata per far posto a un bacino colmo d'acqua. Lo prevede il complesso progetto idrico che porta il nome del padre della patria turca, Ataturk: 90 dighe, pronte ad aumentare del 40% la superficie irrigata in Turchia, e 60 centrali idroelettriche, che dovrebbero fornire 27 miliardi di chilowattore, su un totale di 74mila chilometri quadrati e per un costo complessivo di 32 miliardi di dollari.

Hasankeyf sacrificata sull'altare del progresso e del benessere socioeconomico: questo, secondo le autorità turche, il prezzo da pagare per migliorare le condizioni di vita in Anatolia. I curdi, però, non sono d'accordo, e interpretano le decisioni di Ankara sull'acqua dei fiumi anatolici come un modo per controllare la popolazione curda, che nella regione rappresenta la maggioranza. Una popolazione civile, peraltro, che negli scorsi quindici anni ha pagato a caro prezzo la campagna militare combattuta dal governo turco soprattutto contro il Pkk di Abdullah Ocalan.

La piccola Hasankeyf, insomma, fa parte di un gioco molto più grande. Come, d'altro canto, è successo a Zeugma, antico centro del IV secolo avanti Cristo, gioiello dell'ellenismo, ricoperto dall'acqua della diga di Birecik, sul corso dell'Eufrate. Che ha allagato anche i campi di pistacchio e ha "ridislocato" migliaia di persone. Di Zeugma sono rimasti gli splendidi mosaici conservati nel museo del centro urbano più importante, Gaziantep, dove stanno lavorando anche gli italiani del Centro di conservazione archeologica di Roma. Gli altri mosaici sono ancora lì, sott'acqua: gli ultimi sono stati tirati fuori lo scorso ottobre, approfittando del fatto che i tecnici della diga hanno abbassato il livello del bacino per fare manutenzione.

Per Hasankeyf, però, il destino potrebbe essere diverso. Soprattutto grazie alle pressioni che associazioni ambientaliste e di difesa dei diritti umani (in gran parte inglesi) hanno esercitato sulle grandi società che fanno parte del consorzio internazionale per la costruzione della diga di Ilisu. Le campagne organizzate negli scorsi due anni, infatti, hanno fatto sì che alcuni tra i protagonisti del consorzio abbandonassero l'avventura di Ilisu. Considerata, a un certo punto, troppo onerosa dal punto di vista dell'immagine rispetto ai ricavi economici. È il caso, per esempio, della Balfour Beatty, il gigante britannico delle costruzioni che assieme all'italiana Impregilo ha gettato la spugna nell'autunno del 2001. Preceduta, qualche mese prima, dalla scandinava Skanska. A premere sulla Balfour Beatty, grazie anche a 30mila sterline di azioni acquistate per fare pressione, è stata soprattutto la sezione inglese di Friends of the Earth, che ha chiesto alla società il rispetto delle linee guida indicate nel 2000 dalla Commissione Mondiale sulle Dighe, l'organismo sponsorizzato dall'Onu che aveva modificato in senso molto restrittivo la politica sulle grandi opere.

Birecik, Ilisu, e poi anche Yusufeli non sono, però, solo tappe di uno scontro interno tra la strategia del governo centrale di Ankara verso i curdi e lo stesso Kurdistan racchiuso entro i confini turchi. L'acqua dell'Anatolia, insomma, è tutto meno che una semplice questione di politica interna. È, anzi, uno degli esempi classici di come la gestione delle proprie risorse idriche possa diventare un vero e proprio casus belli. Così è successo, per esempio, nel 1990, quando la Turchia ha bloccato per nove giorni il corso dell'Eufrate per far riempire il bacino della grande diga di Ataturk, il pilastro del Gap. Una chiusura per la quale l'Iraq - che dal canto suo ha costruito molto sui suoi fiumi devastando l'ecosistema - aveva minacciato di bombardare tutte le dighe sul corso d'acqua. Una chiusura contro la quale si era ribellato l'altro paese rivierasco, la Siria, sostenendo di non essere stata avvisata per tempo. Come che stessero le cose, dodici anni fa, la cosa certa è che "l'acqua dell'Eufrate è stata considerata come una questione di politica estera da tutti e tre i paesi rivieraschi", come ha scritto uno dei maggiori studiosi della questione dell'acqua nello scacchiere critico del Medio Oriente e del Nord Africa, l'inglese Tony Allan.

E la cosa non si è affato conclusa con la fiammata del 1990. Lo dimostrano le preoccupanti conclusioni a cui sono giunte tre tra le associazioni più impegnate sui bacini idrici del Tigri e dell'Eufrate, le britanniche Ilisu Dam Campaign, Kurdish Human Rigths Project, The Corner House. E la situazione nell'area inoltre, non potrà far altro che peggiorare, e non solo per la guerra annunciata. Lo scenario dipinto da una ricerca condotta l'anno scorso sull'impatto verso i paesi meridionali della costruzione delle dighe in Turchia è impressionante: Tigri ed Eufrate potrebbero diminuire della metà la loro portata in Siria e in Iraq, nel caso continuassero i lavori del Gap, che dovrebbero essere conclusi nel 2010; ma già ora, secondo i risultati dell'indagine, la portata d'acqua ha subito una riduzione del 20%. Con tutto quello che ne consegue dal punto di vista dello sfruttamento agricolo e della stessa sussistenza delle popolazioni che abitano lungo le rive dei due più importanti fiumi della nostra antichità.

In alcune zone, in sostanza, la siccità è già una realtà, accanto all'altro serio problema derivato dalla diminuzione del flusso, quella della qualità dell'acqua. Già peggiorata per un aumento della salinità e della concentrazione di pesticidi e agenti chimici.

Se non bastassero i tamburi di guerra contro Saddam, insomma, il rapporto parla a chiare lettere di un altro conflitto prossimo venturo. La prospettiva allarmante è che "…la costruzione delle dighe potrebbe portare a un conflitto regionale per l'acqua tra la Turchia da una parte, e la Siria e l'Iraq dall'altra". Una prospettiva di cui la martoriata regione mediorientale farebbe volentieri a meno.


Consigli per la lettura

The Downstream Impacts of Dam Construction in Turkey, rapporto della missione in Siria e Iraq di Ilisu Dam Campaign, Kurdish Human Rigths Project, The Corner House
Tony Allan, The Middle East Water Question. Hydropolitics and the Global Economy, London-New York 2002

Paola Caridi
Firenze, 20 marzo 2003
da "Liberazione"