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La grande truffa dell'acqua minerale

Spesso peggiori, ma molto più care, dell'acqua potabile

Il 10 marzo scorso 500 aziende produttrici di acqua minerale sono state raggiunte da un'ingiunzione del ministero della Salute nella quale veniva richiesta l'immediata notifica di nuove analisi, pena il ritiro dell'autorizzazione alla vendita. Cinquecento su cinquecento, niente male come media. Il ministero è stato costretto a muoversi dall'iniziativa dell'attivissimo procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello che, dopo la verifica di un paio di irregolarità - nella sorgente piemontese Pian della Mussa e in alcune bottiglie di Fiuggi - aveva sollecitato più volte, inutilmente, il ministero. Visto che le irregolarità erano passate inosservate ai regolari controlli era ovvio dubitare dei controlli in questione.

Per chi si occupa del grande business delle acque minerali questa non è che la punta dell'iceberg. In gioco non c'è soltanto la possibilità che alcune bottiglie siano contaminate quanto l'intero sistema, che dispensa le aziende produttrici dall'obbligo di rispettare i parametri e le procedure di controllo che sono invece imposte agli acquedotti pubblici.

Un prodotto virtuale

Se è notoriamente difficile vendere neve agli esquimesi non dev'essere facile nemmeno vendere acqua in un paese che pullula di sorgenti e che, nel corso degli anni, aveva costruito un sistema di gestione e di controllo delle acque di tutto rispetto. Per riuscire nell'impresa era necessario un piano basato sui tempi lunghi e sulla capacità di intervenire contemporaneamente su molteplici fronti. Prima di tutto era essenziale lasciare andare in rovina gli acquedotti, tagliando sui fondi destinati alla manutenzione pubblica e poi procedendo alla progressiva "aziendalizzazione" perché una volta che le reti idriche finiscono in mano ai privati, è noto, il risparmio sulla qualità è assicurato.

Il secondo fronte è quello mediatico: come riuscire a convincere gli esquimesi che devono pagare la neve? Anche in questo caso bisogna ragionare sui tempi lunghi e investire in martellanti campagne pubblicitarie. Sono anche utili giornalisti compiacenti che si gettino come avvoltoi sul primo scandalo dell'acqua "pubblica" mentre tengano un profilo più basso possibile sugli scandali dell'acqua "privata" che in due decenni sono stati molti, ma molti di più.

Oggi, dopo vent'anni, si può ben dire che la strategia ha avuto successo visto che siamo diventati i primi consumatori di acqua minerale del mondo. Più della metà degli italiani non bevono l'acqua del rubinetto e sono ben felici di riempirsi la casa di bottiglie, che pagano dalle 300 alle 600 volte di più di quella dell'acquedotto, bottiglie che poi vanno a riempire le discariche. Strano perché, in genere, i concittadini sono sensibili nel portafoglio. Eppure in questo caso niente sembra distoglierli dalla convinzione che l'acqua del rubinetto sia puro veleno. Non credono ai propri amministratori né a organismi internazionali come l'Organizzazione mondiale della sanità che, in un rapporto del '99, scriveva "benché l'acqua sia disponibile e di buona qualità (...) solo il 47 per cento delle famiglie intervistate dichiara di bere l'acqua del rubinetto". Potenza degli spot pubblicitari!

L'imbroglio

Così, un paese ricco di fonti e sorgenti di buona qualità ovunque, fatta eccezione per alcune regioni come la Lombardia, è stato colonizzato da multinazionali che riescono a vendere, appunto, la neve agli esquimesi. La quasi totalità degli grandi marche italiane, che avevano sfondato sul mercato internazionale proprio grazie all'ottima fama delle fonti italiche, sono divenute proprietà di imprese "straniere": San Pellegrino, Levissima e Panna sono state risucchiate dalla Nestlé mentre Ferrarelle e San Benedetto dalla Danone.

Fin qui non ci sarebbe niente di male. In fondo approfittare della credulità dei consumatori è un peccato veniale. Ma il business della minerale è così redditizio - malgrado le spese pubblicitarie - grazie a due pre-condizioni che hanno a che fare più con la compiacenza dei passati legislatori che con il libero mercato.

In primo luogo c'è la questione della materia prima. Nella maggior parte delle regioni, soprattutto in quelle del nord-est da dove proviene circa la metà dell'acqua imbottigliata in Italia, le aziende si servono delle stesse sorgenti dei privati cittadini, ma a condizioni economiche molto più favorevoli. Qualche anno fa Paolo Cacciari, consigliere regionale di Rifondazione, andò a fare due conti nelle tasche delle aziende venete, regione da cui proviene il trenta per cento delle bottiglie nazionali, e venne fuori che le aziende pagavano l'acqua circa 0,07 lire a litro, mentre ai cittadini costava una lira al litro. Visti i prezzi al consumo della minerale, i profitti sarebbero stati altissimi anche pagando l'acqua come i comuni mortali, ma quando Cacciari propose almeno di equiparare i prezzi, venne accolto da un silenzio tombale. Nessun altro, né prima né dopo, ha osato finora mettere in dubbio questo regime quasi gratuito.

L'aspetto sanitario

L'altro aspetto, più inquietante, riguarda l'aspetto sanitario. Perché l'acqua del rubinetto venga dichiarata potabile dai funzionari del ministero della Sanità, è richiesto il rispetto di alcuni parametri. Due volte al giorno negli acquedotti vengono prelevati e analizzati dei campioni per vedere se questi parametri sanitari - una trentina - sono rispettati. Per l'acqua in bottiglia, invece, i parametri sanitari richiesti sono molti di meno - circa la metà - e chissà perché non è stata mai stabilita la periodicità dei controlli che possono essere effettuati in modo casuale o dietro sollecitazione del magistrato.

Questo significa che mentre l'acqua "pubblica" deve dimostrare ogni mattina di essere potabile, quella "privata" è potabile fino a prova contraria. E se un magistrato come Guariniello richiede dei controlli, possono passare dei mesi prima che qualcuno, al ministero, decida di dargli ascolto. Quando il ministero richiede una verifica della qualità dell'acqua i controlli vanno effettuati subito, ma le analisi sono condotte dagli esperti delle aziende e non da ispettori pubblici come nel caso degli acquedotti. Una volta che i risultati delle analisi sono stati notificati al ministero della Salute l'azienda può rischiare che venga mandato un ispettore a verificare, ma eventi di questo genere succedono molto, molto di rado, e in genere non raggiungono i mezzi d'informazione perché potrebbero intorbidare l'immagine limpida della minerale in questione.

La profezia auto-avverantesi dell'acqua sta volgendo al termine. Con la privatizzazione degli acquedotti e la conseguenze necessità di abbattere i costi - e quindi i controlli sanitari - alla fine l'acqua del rubinetto sarà davvero meno salubre. E un bene collettivo prezioso sarà stato definitivamente mercificato e spartito in due distinti prodotti: quello in bottiglia, da pagare a peso d'oro - e poi, in seguito, da ripagare in termini di guasti ambientali (vedi alla voce discariche e trasporto) - e quello, non potabile, degli acquedotti. In vent'anni insomma, complice la televisione e i governi compiacenti, abbiamo smontato le conquiste ottocentesche e ridotto un paese europeo alla situazione idrica dell'India o del Pakistan.

In Memorie di Adriano Marguerite Yourcenar scriveva che la grandezza di una civiltà non si riconosce dalla potenza dei suoi eserciti ma dalla lunghezza delle sue strade e dalla tenuta dei suoi acquedotti. E' davvero un brutto scherzo del destino che la civiltà dell'acqua sia arrivata al capolinea proprio qui, dov'è nata.

Sabina Morandi
Firenze, 20 marzo 2003
da "Liberazione"