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L'acqua che scende dagli alberi

Il ciclo dell'acqua

Raccontava mio nonno di un Sultano d'Arabia in visita a Roma più di un secolo fa. Lo portarono a Piazza San Pietro, ammirò gli zampilli delle fontane, poi disse «adesso basta». «Basta che cosa?» gli chiesero. «Basta con tutta quell'acqua», rispose. «Guardi che quelle zampillano sempre così», gli spiegarono. Non ci voleva credere. «Siete pazzi» diceva, «tanta acqua sprecata». Veniva dal deserto. Oggi più vicini alle sue condizioni di allora ce ne sono nel mondo tanti di più.

Qui a Roma per l'acqua siamo viziati. Le alture boscose dell'Appennino pullulano di sorgenti. Mio padre era ingegnere della Società per l'Acqua romana, da ragazzino mi portava con sé sui lavori, ricordo la captazione di una fonte sopra Tivoli: prosciugarono un piccolo lago, gli operai con le ceste raccoglievano i pesci rimasti a sguazzare sul fondo per cucinarseli a casa. Da tempo, però, l'acqua dei monti per Roma non basta. Se ne prende dal lago di Bracciano, va depurata, sa di cloro, parecchi non la bevono più, comprano la minerale in bottiglia inquinata forse anche peggio. E per le fontane ci sono le pompe che la riciclano, l'acqua: sempre la stessa. Siamo ancora viziati comunque perché il sistema romano è in gran parte "a erogazione diretta" e non incoraggia a ridurre i consumi. In tutti i casi c'è chi sta peggio di noi. Molto peggio. Ma poi.

Il rapporto di Roma con l'acqua ha origine con la nascita stessa della città in riva al Tevere, e s'è poi sviluppato via via con gli acquedotti, le Terme, i rifornimenti via-fiume. E' stato però sciaguratamente interrotto da quei muraglioni balordi tirati su ai tempi prefascisti e fascisti per via delle inondazioni. Pericolo ormai scongiurato da tempo con la diga a monte della città e quelle per usi irrigui in Umbria e in Toscana: tanto che sarebbe ormai bene pensare, oltreché alla depurazione del fiume, a ridemolire qualche pezzo di quei muraglioni (c'era un progetto ai tempi di Petroselli e Vetere) così da ristabilire almeno un po' quei rapporti amichevoli tra fiume e città che oggi si godono soltanto i superstiti fans della tintarella e del canoino.

Fatto sta, in tutti i casi, che acqua del Tevere a Roma oggi ne arriva assai meno di prima. Il che ci porta a un altro ordine di riflessioni.

Tutto parte dai boschi

Il Chiarone è un fiumiciattolo che divide la Toscana dal Lazio. Non lontano dalla foce c'è il rudere di un'antica fucina pontificia dove si forgiavano le armi per le soldataglie dei Principi Odescalchi e Corsini. Enormi ingranaggi per azionare i mantici e alimentare i fuochi azionati dalle acque di quel fiumicello: allora evidentemente abbastanza copiose e veloci da farcela, mentre oggi quel che ne rimane non farebbe girare nemmeno un temperalapis. Questo perché a monte c'era a quei tempi un gran fitto di boschi, e perciò d'acqua ne veniva giù tanta.

Qui volevo arrivare. Altri su queste pagine parla dei modi per risparmiarla, l'acqua potabile, usarla più razionalmente, depurarla e quant'altro: di gestione pubblica o gestione privata. A me sembra utile richiamare ancora l'attenzione sul suo processo naturale di formazione: le chiome arboree che raccolgono l'umidità, l'evaporazione, le nuvole, le rugiade, le piogge. Il lento ritorno delle acque meteoriche attraverso il fogliame al terreno a fertilizzarlo e ad alimentare sorgenti e falde profonde.

Mentre se il bosco scompare, se non c'è più la vegetazione a fare da filtro la pioggia dilava il terreno, lo scorteccia dell'humus e se ne va via. Si passa così dalle rovinose alluvioni alle lunghe stagioni di magra che generano ancora aridità.

Questo per ricordare - come l'esempio del Chiarone dimostra - che i boschi non solo funzionano da regolatore per tutto il ciclo ma accrescono le quantità delle acque di sorgente e di falda. Con l'umidità che trattengono modificano i microclimi locali anche indipendentemente, in certa misura, dagli indici di piovosità complessiva. E dio sa se di queste correzioni microclimatiche c'è bisogno in un paese che soffre già le avvisaglie del clima più caldo per l'effetto-serra, e le cui Regioni meridionali sono già esposte da tempo (da assai prima che di effetto-serra si cominciasse a parlare) all'inaridimento portato dai venti desertici in arrivo dal Sahara.

Contro le privatizzazioni

E così se veramente vogliamo migliorare la situazione idrica del paese faremo bene, certamente, a batterci contro le privatizzazioni, contro l'assimilazione a una merce qualunque della risorsa vitale cui tutti abbiamo diritto, e per i risanamenti dei vecchi acquedotti, e contro le cause d'inquinamento, e perché il problema-acqua sia annoverato fra quelli cui vanno dedicate le cure maggiori. Faremo bene a sostenere con forza che sono queste le Grandi opere di cui il paese ha bisogno. Senza mai dimenticare, però, che a monte di tutto c'è la partita di Grandi opere ancora più necessaria che è quella del rimboschire dovunque. Soprattutto le alture. Nelle Regioni del Sud soprattutto.

Mettendoci il tempo che ci vorrà, certamente. Impiegandoci tutte le risorse e tutto il lavoro che serviranno. Per tempi lunghi: decenni e decenni. Lavori difficili, ingrati, un continuo fare-e-rifare. Ma chi sa come farli questi lavori, chi ne conosce bene i problemi, in Italia c'è: forestali, studiosi di agraria... si tratta di metterli in condizione di lavorare.

Riflettiamo. Più il mondo impazzisce più c'è bisogno di cavarcela il meglio possibile con le nostre risorse. A partire dall'agricoltura ovviamente: dalla terra, dalla "sovranità alimentare"... E in uno scenario così il tema-rimboschimenti non può non stare al primissimo posto. Sarebbe una gran bella cosa se il cambiamento in meglio del nostro paese cominciasse proprio da lì.

Fabrizio Giovenale
Firenze, 20 marzo 2003
da "Liberazione"