Deregulation e uso del territorio fuori da ogni disegno coerente: salviamoci dagli «improvvisatori»

La "nuova" urbanistica liberista.

E la città diventa occasionale

Nel 1943 Giuseppe de Finetti, singolare figura di architetto e urbanista milanese, che nell'immediato dopoguerra ricoprì anche l'incarico di assessore nella deputazione ciellenistica alla Provincia di Milano, in uno scritto profeticamente intitolato "Per la città del 2000", con singolare antiveggenza scriveva: «Guai a lasciar prendere la mano ai praticoni od ai cosiddetti uomini d'azione, che credono di fare la civiltà d'oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci od il danaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, l'industria del domani, la ricchezza del domani. E questi realizzatori noi sappiamo sin d'ora che balzeranno alla ribalta alla prima occasione a bandire programmi mirabolanti e semplicistici, a chiedere libero campo per le loro imprese, a battersi per il sistema del fare pur di fare perché il tempo stringe e la necessità è grande. Conviene dunque precederli e cercar di fissare qualche concetto fondamentale per lo sviluppo della città, che valga anche a difenderla dagli improvvisatori».

Sono parole di straordinaria attualità che mi sono tornate alla mente leggendo l'articolo di Giuseppe Campos Venuti pubblicato sul numero 190 di "Urbanistica Informazioni", in cui lo storico protagonista di tante battaglie contro la rendita fondiaria dichiara: «Non ci resta altra strada che approfittare della proposta avanzata dall'on. Lupi (Fi) e di quella dell'on. Mantini (Margherita) per rilanciare il dibattito sulla riforma della legge (urbanistica) e del piano, non potendo accettare come terreno di confronto l'elefantiaco progetto dell'on. Sandri (Ds), che rappresenta nella forma e nella sostanza un arretramento preoccupante rispetto al testo licenziato nella passata legislatura dalla Commissione parlamentare presieduta dall'on Lorenzetti (Ds)».

Se accettassimo questa rinunciataria impostazione si affermerebbe definitivamente una concezione urbanistica caratterizzata dal più dilagante liberismo in termini di uso della città e del territorio, al di fuori di qualunque disegno urbano coerente e consapevolmente assunto da parte della collettività. I progetti di legge indicati da Campos come terreno di confronto, infatti, non fanno altro (un po' come è accaduto per il sistema televisivo) che fotografare la destrutturazione logica dell'apparato legislativo in campo urbanistico registratasi in una serie di legislazioni regionali che si sono andate evolvendo in modo del tutto eterogeneo sotto la spinta della deregulation introdotta nel 1992 dalla legge Botta Ferrarini e smantellando via via le storiche conquiste ottenute dalla sinistra con la Legge Ponte del 1967 e la legge Bucalossi del 1977.

La città occasionale

Si è consentito, infatti, ai privati di avanzare proposte di edificare aree e quantità non previste come tali dai piani regolatori, sulla base di contrattazioni spesso assai poco limpide con amministrazioni comunali che si dimostrano sempre più condizionabili, quando non apertamente conniventi con gli interessi particolaristici consolidati. La prospettiva di quei disegni di legge è, dunque, quella che Francesco Indovina ha connotato come la città occasionale.

Essa ha avuto i suoi prodromi nelle Colombiadi, nei Mondiali di calcio, nel Giubileo e oggi prosegue con le Olimpiadi invernali in Piemonte ed i Mondiali di sci in Valtellina. La Coppa America per ora è sventata, ma qualcosa d'altro non tarderà ad arrivare. Insomma, panem (per imprese e proprietari d'aree) et circenses (per i sudditi teleguidati).

Occorre che il nostro Partito si dichiari nettamente contrario a questa prospettiva e apra da subito una discussione su un'ipotesi alternativa di legge urbanistica quadro nazionale che, ferma restando la possibilità per le regioni di declinarne al meglio i principi, si basi, tuttavia, sulla prevalenza dell'interesse pubblico, che in quanto riferito ad una sorta di carta costituzionale o statuto del territorio su cui la collettività è insediata, deve essere espresso da decisioni assunte attraverso una vasta consultazione e maggioranze assai più ampie di quelle della ordinaria gestione amministrativa.

E' una prospettiva che tenderebbe a fare giustizia di quella congerie di strumenti deregolativi della pianificazione pubblica diffusisi nello scorso decennio (piani integrati, piani di riqualificazione, accordi di programma) e dell'ambigua idea della perequazione, che ha visto una netta divergenza tra i consiglieri comunali del Prc e lo stesso Campos in sede di approvazione del Piano regolatore del Comune di Roma e che ora si vorrebbe legittimare a livello nazionale.

Credo che questa debba essere una delle discriminanti su cui verificare la possibilità di una convergenza tra le forze politiche su un programma di reale alternativa al liberismo dilagante che, come dimostrano le parole di Campos, ha ormai contagiato gran parte di quella che pretenziosamente vorrebbe ancora definirsi opposizione.

Sergio Brenna (docente di urbanistica alla Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano)
Milano, 28 dicembre 2003
da "Liberazione"