«La monocultura napoletana che domina tutto: i giovani della periferia napoletana, controllati o non controllati dalla camorra, sono in ogni caso controllati dalla napoletanità»

Rifiuti, napoletani prigionieri di un immobilismo culturale

Le periferie del capoluogo campano non riescono ad esprimere un reale antagonismo nei confronti della criminalità organizzata a differenza di quanto accade in Calabria e Sicilia, o nella banlieue parigina contro la disoccupazione e l'emarginazione

Di nuovo assistiamo in questi giorni all'esplodere di una conflittualità extraproduttiva che trasforma il territorio in una zona di guerra e ci spinge a ricercare una nuova forma teorica alla contraddizione fondamentale che sembra non essere più nella fabbrica sociale, all'interno del rapporto di produzione, ma dentro i "processi di valorizzazione" (sfera del consumo e della circolazione delle merci e del denaro) che si dispiegano sul territorio. Non solo. Le difficoltà del conflitto asimmetrico all'interno di teatri urbani contro moltitudini il cui criterio di formazione e di organizzazione è il clan e che sono motivate da disperazione e rabbia rendono il controllo del territorio, proprio nell'era del virtuale e dell'informatica, un elemento determinante rispetto alla governabilità. A tutto questo va solo aggiunta una costatazione che non è di secondaria importanza: e cioè che nella maggior parte dei casi non si riesce a pacificarli se non al duro prezzo di perdite economiche e di vite umane.

Nel caso in questione la domanda è: come mai solo a Napoli non è stata risolta l'emergenza rifiuti? In molti hanno cercato di rispondere puntando il ditino accusatore in tutte le direzioni: i comuni, la regione, gli ambientalisti, la camorra, lo Stato, il governo, le forze politiche di sinistra e quelle di destre, le industrie del nord, la Chiesa. Tutto vero, ma proprio per essere tutto vero non spiega nulla. Ma i napoletani? Perché non mettere in questo calderone di grandi accusati anche i napoletani e la loro cultura? Non sono forse questi a eleggere i loro rappresentati al Comune e alla Regione? Non sono forse loro a ingrossare le file della camorra? E non sono sempre loro ad aver ridotto il territorio a una vera e propria economia di risulta dell'abusivismo generalizzato? Certo, né la spontaneità del costruito, né l'occupazione abusiva di suolo sono delle novità qui in Italia: seguono e soddisfano da sempre le logiche del mercato che riducono il territorio a spazio indifferenziato nel quale si depositano volumi edilizi di qualsiasi forma e tipologia. Né l'aumento vertiginoso dei soggetti di questa transumanza modifica di per sé la natura del fenomeno. La novità, per quanto riguarda Napoli, sembrerebbe stare nella impossibilità di un cambiamento di rotta.

Ma soprattutto: perché il silenzio abissale delle periferie napoletane viene solamente rotto al grido di "no alla monnezza" (si ricordi la rivolta di Palma Campania nel 2001 per la riapertura della discarica "Pirucchi") che assomiglia un po' troppo all'assalto ai forni di manzoniana memoria?
Perché la banlieue parigina si ribella alla disoccupazione, alla emarginazione, alla disuguaglianza degli spazi della vita e dell'abitare, al dissesto urbanistico, e quella napoletana, pur con gli stessi problemi, rimane piantata nell'immobilismo più assoluto? E dove sono i giovani che in molte città del meridione si mobilitano contro la mafia e la ‘ndrangheta?
Perché non ci sono i cortei contro la camorra a Napoli?

Rino Genovese, filosofo napoletano, in un ottimo articolo sulla rivista Gomorra (2006), cercava di spiegare questa rarefazione del conflitto sociale nella «monocultura napoletana che domina tutto: i giovani della periferia napoletana, controllati o non controllati dalla camorra, sono in ogni caso controllati dalla napoletanità.» Non sono creolizzati né in via di creolizzazione come i banlieusards parigini. Né, si può aggiungere, rappresentano, come gli stessi banlieusard , minoranze sociali di massa legate tra loro da appartenenze fondate, non su destini o su radici comuni, ma sul territorio, sulla mobilità, sul conflitto che sono l'unico loro modo di essere in comune e il baricentro della loro identità, seppure effimera.
Minoranze che, proprio nella loro immanenza radicale e nella contingenza del loro rapporto, delle loro azioni e della trasformabilità dei luoghi che attraversano, si costituiscono come soggettività antagoniste che si compongono e si destrutturano di continuo. Dunque, nè creolizzazione nè agire da minoranze. Per questo dalla napoletaneità non se ne esce. Ma cos'è la napoletanità? E', risponde Rino Genovese, il familismo racchiuso nell'espressione del "tene famiglia"che riduce l'individuo a funzione del clan: «dal familismo al familismo amorale non c'è che un passo, e poi, da questo al familismo delinquenziale, solo un altro passo ancora; il percorso verso la rivolta resta invece sconosciuto.» Ma che "vvuo'fa": frase, seguita Genovese, che segnala proprio questa avvenuta rinuncia e apre alla successiva estetizzazione della vita. «Te piace ‘o presepe è il ritornello - neanche la domanda- di Natale in casa Cupiello di Edoardo De Filippo: è la frase cui non ci si può sottrarre e in cui si condensano il vuoto di una tradizione […] e insieme il mutamento generazionale, il contrasto con il padre, che però lascia tutto com'è: appunto l'irredimibilità.» A Napoli, conclude Genovese, mancano proprio i presupposti antropologici-culturali per una trasformazione profonda di qualsiasi tipo, mentre quelli economici, sociali, anche politici, ci sarebbero tutti.

Eppure è a Napoli che si concentra una lunga tradizione di rivolte e di insurrezioni: basti qui ricordare la crisi rivoluzionaria della metà del Seicento quando la città tentò di mettersi alla testa della guerra contadina che era scoppiata nelle sue campagne, la più vasta e impetuosa che abbia conosciuto l'Europa occidentale, proponendo l'obiettivo politico dell'indipendenza dalla Spagna. Un avvenimento fondamentale per capire il grado di sviluppo dei rapporti sociali e i caratteri della società meridionale di quel periodo. Non solo. Per tutto il secolo la rivolta di Masaniello rimase fonte di paura per l'emergente politica dello Stato borghese europeo ed esempio di speranza per i proletari di tutti i paesi del continente.

A questo punto, sembra quasi che la spinta inarrestabile della storia che produce mentalità e modelli culturali si sia di colpo bloccata: quelle mentalità e quei modelli di allora non sono riusciti a produrre nel tempo masse e cultura. La cesura, afferma lo scrittore napoletano Raffaele La Capria in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera martedì scorso, è dentro il fallimento della rivoluzione del 1799, dopo che i giacobini furono annientati dal fanatismo dei lazzaroni sanfedisti che urlavano «viva la santa Religione» e per essa combattevano, morivano e compivano anche orrende stragi. E' proprio qui, in questo tradimento, che nascerebbe la napoletaneità come forma minore di cultura e di lingua. E' solo una ipotesi, ma rimane il fatto che quello che colpisce andando a Napoli e attraversando la sua periferia, non è solo l'illegalità, l'anti-Stato, il degrado, l'occupazione senza regole del territorio che ritroviamo purtroppo anche in altre zone del nostro paese ma la loro estensione e il loro grado estremo. Qui non c'è solo la ferocia del mercato, il profitto della speculazione, la disperazione della povertà, qui c'è il loro eccesso che può essere spiegato, non solo ricorrendo al fatto che ci sono bisogni e necessità che sfiorano i limiti della sopravvivenza, ma proprio a quella categoria della napoletanità che per la risoluzione di questi bisogni e necessità cerca non la decisione ma l'adattamento.

Massimo Ilardi
Roma, 10 gennaio 2008
da “Liberazione”