Expo 2015: affari per immobiliaristi e palazzinari. Una catastrofe metropolitana. Sotto l'occhio vigile di Ligresti e della famiglia La Russa.

Non facciamo piangere la Madonnina

Ma c'è un'altra possibilità

Expo 2015: plastico

Expo 2015: plastico.

C'è chi aspetta Godot, c'è chi aspetta l'Expo. A Milano chi aspetta l'Expo ha deciso di farlo sorgere alla periferia post-industriale del Nord-Ovest metropolitano, in una brutta area schiacciata tra Autostrade (Laghi e Milano - Torino) e Tav, di proprietà Sviluppo Sistema Fiera e Cabassi. In quel terreno inospitale si apriranno cantieri per 6 anni, cui seguiranno i 6 mesi di esposizione, dopo i quali partiranno altri 10 anni di cantieri. In quei 6 mesi del 2015 dovrebbero arrivare, almeno nelle previsioni ottimistiche degli organizzatori, 28 milioni di visitatori attraversando una metropoli nel frattempo resa attraente e ospitale, sempre per gli organizzatori, dal recupero - fantasia irrealizzabile - delle antiche vie d'acqua dei Navigli, da un tunnel di addirittura 14 km che colleghi Linate a quell'area, da due nuove linee di metropolitana e altro, per un insieme di 35 grandi opere e poi alberghi, parcheggi, poli logistici e ovviamente strade, per far contenti Marcellino Gavio e Benetton. Sintesi del progetto Expo 2015: una via di mezzo tra Dubai e Disneyland, con un pizzico di Shangai.

E non è tutto, perché nel contempo il Comune di Milano, e non casualmente, sta sostenendo, come stralcio al Piano di governo del territorio, il proposito di innalzare l'indice di edificazione dallo 0,65 all'1%. Indirizzo folle per una città ipercementificata, ma ancor più folle è l'obbiettivo strategico che lo sottende: una città dai cento grattacieli, una “metropoli verticale” per 700mila nuovi milanesi che, “chissamaiperché”, dovrebbero abbandonare le 200 piccole cittadine della provincia per trasferirsi nell'invivibile e costosa Milano. Ci vorrebbe Pol Pot per convincerli all'esodo biblico verso questa pazzesca Housing sociale della Moratti. Tutti sanno che è impossibile, ma si procede comunque - grandi opere per l'Expo, nuovi indirizzi urbanistici per la città - perché c'è un fine che giustifica questi mezzi a prescindere dalla impraticabilità degli indirizzi: quello della rivalutazione delle aree a favore degli immobiliaristi, alcuni dei quali in affanno, come Zunino e Aedes. Solo che non c'è nulla che giustifichi questo fine. Per salvare i palazzinari si prospetta perciò la catastrofe metropolitana e, il tutto, avviene sotto l'occhio vigile di don Salvatore Ligresti e della famiglia La Russa. Baciamo le mani.

Ma torniamo all'Expo. L'aspettano la sindaca Moratti, il presidente della Regione Formigoni e, ahimè, quello della Provincia Penati. L'aspettano? Si fa per dire, perché da un anno a questa parte, da quando costoro sono scesi dal carro dei vincitori che avevano sconfitto i turchi di Smirne, pagando un conto salatissimo per comperare i voti necessari (una centrale del latte in Nigeria, una metrotranvia in Costa d'Avorio e via elargendo), costoro non hanno mai smesso di accapigliarsi su chi avrebbe avuto in mano la cassa per quelle 35 grandi opere. La grande battaglia per quella che chiamano “governance”. Questo scontro è tuttora dispiegato, asperrimo, le alleanze trasversali mutevoli, i miliardi di euro in gioco tanti. In attesa dell'esito aspettano appollaiati soggetti economici (e non solo) molto ma molto interessati, configurabili nei tre cerchi concentrici che, di fatto, assediano le istituzioni. Nel primo cerchio c'è la Camera di Commercio e la Grande Distribuzione, le transnazionali dell'alimentazione e della produzione farmaceutica, le banche, la potente Compagnia delle Opere alla cui ombra ormai si attesta la LegaCoop e, infine, l'Assolombarda, la cui presidente Diana Bracco è, in un evidente conflitto di interessi, anche presidente della Soge, la Società di gestione dell'Expo.

Nel secondo cerchio si affolla una torma di cementieri, giganti delle costruzioni (come Impregilo, Astaldi, Caltagirone) e proprietari di aree, da Risanamento a Pirelli Real Estate, talune di queste aree già rivalutate del 300%. Tra le aree spicca quella, immensa, dell'ex Alfa di Arese confinante con i terreni della Fiera. Su quest'area, e non a caso, è ritornata la Fiat. Vai dove ti porta il cuore.

Nel terzo cerchio c'è la mafia. Gomorra è anche Milano. L'ultima relazione della Direzione nazionale anti-mafia lo dice chiaro: «Gli interessi in gioco con l'Expo 2015 sono maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del ponte sullo stretto di Messina». E, a Milano, la n'drangheta, che ne ha fatto la sua capitale, non più con le canne mozze ma con il riciclaggio, vede questa esposizione come lo stimolatore di interessi forsennati che imporrebbero alla magistratura l'esigenza di dotarsi di strumenti in grado di individuare almeno la “tracciabilità del denaro”. Ma al Comune e alla Provincia si guarda altrove, ai lavavetri ad esempio, indicati come l'incubo degli incroci. Nell'indifferenza di Castelli, sottosegretario con delega all'Expo, che oppone alla mafia globalizzata una sua visione del mondo che va da Lecco a Monza.

La pressione formidabile, la morsa, dei tre cerchi concentrici che stringono le istituzioni pubbliche ha, purtroppo, già portato a un risultato: in un solo anno i costi previsti per le infrastrutture sono stati fatti lievitare da 4 a 15 miliardi di euro. I soggetti dei tre cerchi gongolano, ma questo è uno scandalo pazzesco e va denunciato come tale: sono quattrini anche pubblici gettati nel pozzo senza fondo di opere tanto costose quanto non necessarie, soprattutto oggi nel pieno della crisi economica e quando c'è un Abruzzo da ricostruire. Ma questa (rappresentata) è anche la resa di quella politica che antepone l'interesse privato, anche il più imbarazzante, all'interesse del cittadino. Un vero e proprio patto di ferro tra amministratori e speculatori. Si giri pagina. Forse siamo ancora in tempo.

In questo anno di intrighi e di frenetico accaparramento di posti (l'Expo è anche il vero programma elettorale per la Provincia di Milano oggi, per la Regione fra un anno, per il Comune di Milano fra due) è andato in dissolvenza il fine, lo scopo, quello rappresentato dal logo “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Cosa c'è oggi nella scatola Expo? Nulla di tutto questo, se non la zuffa per la famosa governance e la scalpitante impazienza, da astinenza da business, dei soggetti di quei tre cerchi concentrici. Il logo usato a pretesto, l'imbroglio del tema. Si è rimasti al dossier della vittoria comperata un anno fa a Parigi su Smirne. Mi sa proprio che il pianeta dovrà aspettare un bel po' prima di saziare l'ingordigia di quel popolo vorace. E' la vittoria del contenitore sul contenuto.

Taluno, nei talk-show, parlava di opportunità o di rischio. L'opportunità ci sarebbe ancora - ma siamo ai tempi supplementari - se, ad esempio, si cominciasse a discutere di filiera alimentare proponendoci, magari, di esporre il Parco Sud come il più vasto sistema di agricoltura periurbana d'Europa, che il Presidente Penati vuole svendere utilizzando a cavallo di Troia il “Centro Cerba” del professor Veronesi. Il rischio sarebbe invece quello che l'Expo diventi la kermesse delle trasnazionali del bio-tech, degli Ogm, e delle monoculture. L'opportunità, ancora, ci potrebbe essere se si pensasse di rappresentare gli scenari dell'ecosostenibilità, del risparmio energetico, delle fonti rinnovabili, di una diversa mobilità urbana ed extraurbana, proponendosi di esporre, ad esempio, l'area ex Alfa di Arese, così come il polo hi-tech del vimercatese, come i luoghi anche industriali di una fattibile riconversione ecologica. Esponiamo luoghi modello. Il rischio è dato dalla sfilata degli inquinatori e dei divoratori della risorsa suolo che faranno ancora, ad esempio, della stessa area ex Alfa un (annunciato) immane polo logistico con tanto di parcheggio e, a fianco, la città mercato più grande d'Europa. Perdendo quelle opportunità non avanza solo il rischio ma la sciagura. Questa è la verità.

Taluno, per non interrogarsi, agita però una carta ad effetto: «Ci saranno 70mila nuovi posti di lavoro». Non è vero, è un ricatto, innanzitutto perché quel lavoro sarà a termine, finiti i cantieri tutti a casa. Temo oltretutto che, prevalente, sarà comunque il lavoro nero esposto a infortuni, lavoro non più protetto nemmeno dal Testo unico sulla sicurezza cancellato oggi dal governo. Expo quindi come moltiplicatore della precarietà, un evento che costa troppo (tanto paga Pantalone), dura poco, lascia più svantaggi che vantaggi. Che fare?

Dinnanzi a noi ci sono tre vie. La prima è quella finora praticata dai “signori degli appalti” e dalle istituzioni al loro servizio: la via dell' “Expo sciagura”. La seconda è quella della rinuncia all'Expo, la sostiene anche l'architetto Gregotti: veniamone fuori, rinunciamo, questi amministratori non sono all'altezza e, inoltre, è impensabile uscire dalla crisi consumando il residuo territorio. Sarebbe la strada più saggia, ma siamo ancora in tempo per percorrerla? La terza via, non fosse praticabile la seconda e rifuggendo dalla strada della sciagura, si prova a rispondere a un semplicissimo quesito: un'altra Expo è possibile? Sarebbe questa la via di una sobria “Expo Sociale” magari collocata su un'area più ridotta e già costruita, come quella della Fiera di Rho-Pero, oltretutto ospitata sotto le splendide vele di Fuksas, che sono ben altra cosa rispetto ai tre grattacieli sghembi di Citylife alla ex fiera campionaria. Un'esposizione rinegoziata, low cost e a basso impatto ambientale (si usino gli spazi esistenti, con il criterio “fuori salone” per le mostre) che, come contenuti, recuperi e sviluppi, già vi facevo cenno, i dimenticati temi del logo e, nelle infrastrutture, giri pagina sulla cementificazione ulteriore della metropoli - “la città verticale” dell'assessore Masseroli o, anche la Milano che fa selezione di censo come già avviene nel quartiere Santa Giulia - mettendo invece mano alla città dei cittadini. E, al contenitore che cancella il contenuto, contrapponiamo in una “Expo diffusa” un contenitore città in cui scompaiano le periferie degradate; dove appaia un piano di edilizia popolare che, prima di nuove costruzioni, utilizzi gli 80mila appartamenti sfitti che, come ci ricorda l'architetto Tito Boeri, sono pari a 30 grattacieli Pirelli; dove si rivaluti il verde della città e della sua cintura; e dove, infine, si promuova lo sviluppo sostenibile accompagnato dal lavoro sicuro, certo, sostenibile anch'esso. Questa è la nostra Expo: luoghi modello in un modello di metropoli.

Come del resto seppero fare gli amministratori illuminati che, con le belle intelligenze di cui era ricca la città, progettarono l'Expo di Milano del 1906, in cui esposero certo i prodigi dell'innovazione del tempo - dal motore a scoppio all'energia elettrica, dal traforo del Sempione al cinematografo - anteponendo però il benessere dei cittadini e dei lavoratori: venne allora inaugurato uno splendido padiglione sulla sicurezza sociale e la prevenzione degli infortuni. Dalla quale Expo uscì il progetto della “Clinica del lavoro”. Queste le priorità anteposte agli appetiti della grande borghesia che anche allora si manifestarono. Altri tempi si dirà, certamente, ma anche altri sindaci che davano voce al popolo dei quartieri e non ai soggetti di quei tre cerchi. Sintesi: fermiamo l'Expo degli immobiliaristi, che da rischio sta diventando sciagura, tanto è vero che taluno giura d'aver visto piangere la Madonnina del Duomo.

Bruno Casati
Milano, 30 aprile 2009
da “Liberazione”