Gaber, un figlio del suo tempo capace di raccontare la gente. Uno «storico», non un profeta

Un musico senza eredi

Dal punto di vista artistico Giorgio Gaber non lascia eredi. Non soltanto perché il suo lavoro è imperniato su una profonda quanto individuale elaborazione artistica che, come tale, è unica, ma piuttosto perché è figlio di un tempo, di una cultura e di un'epoca irriproducibili.
In fondo anche questa storia del Gaber eremita che osserva con disincanto dal suo angolino esclusivo il tempo che passa è falsa. Lui stesso, probabilmente, riderebbe in questi giorni di quelle descrizioni che ne fanno quasi un profeta, una sorta di astratto pensatore capace di anticipare i processi sociali e relazionali della comunità in cui vive.
Il suo lavoro è proprio l'opposto: accompagna la realtà, ne sviscera gli umori, ne porta in evidenza le contraddizioni, ne irride gli aspetti più esasperati e ne blandisce le virtù nascoste.

Al centro delle sue attenzioni c'è l'umanità quale essa è, ci sono i corpi e le emozioni delle persone vere, quelle che vivono sulla loro pelle gli spostamenti progressivi dei rapporti sociali. Si può dire che gli stessi rapporti sociali gli interessino più per i loro effetti sulle persone che per semplice curiosità scientifica. Per usare un gergo a lui usuale, riguardassero le bestie gli sarebbero indifferenti. A suo modo è uno storico che vive e descrive le evoluzioni progressive della società dalla parte di chi, in genere, rimane sullo sfondo delle fotografie ufficiali o addirittura non compare.

Eppure attraverso le sue opere teatrali, gli umori dei suoi anonimi protagonisti, si può ripercorrere la storia degli ultimi trent'anni del nostro paese. L'idea di un Gaber astratto rielaboratore delle proprie percezioni intellettuali è una favola.
La sua carriera, fin dagli inizi, è caratterizzata da due elementi fondamentali: un processo di elaborazione collettiva con altri artisti che qualcuno, un po' riduttivamente, negli anni successivi chiamerà "scuola milanese" e la capacità di immergersi fino in fondo, non soltanto dal punto di vista concettuale, nella realtà che lo circonda.
Se non si capiscono questi due elementi, non si capisce Gaber.
È, infatti, sbagliato, oltre che concettualmente scorretto, immaginare il Cerutti Gino che ruba Lambrette o il Riccardo che da solo gioca al biliardo separati dal teatrale Signor G, quasi ci fossero due Gaber, uno dei quali più maturo dell'altro.
Nel Signor G, infatti, ci sono sia il Cerutti che il Riccardo, soltanto che la società che li circonda è cambiata e, allora, si fanno nuove domande e si danno nuove risposte. Si sono lasciati alle spalle la Milano dei primi anni Sessanta, quella nella quale la vita, gli scambi sociali e la cultura popolare giravano intorno alle osterie (i Trani), ai bar e a locali come i mitici Santa Tecla, Arethusa e Taverna Messicana, e si sentono sempre più disumanizzati.
Il processo di disgregazione coinvolge anche i protagonisti della "scuola milanese" le cui strade artistiche tenderanno a divaricarsi sempre di più, fino a entrare talvolta in contraddizione.
C'è chi, come Luigi Tenco, muore travolto dal sistema che si evolve, chi come Tony Renis insegue e raggiunge il sogno americano, chi come Jannacci tende a dare continuità a un proprio progetto, chi come Celentano rischia di diventare un'icona di se stesso.
Gli stessi Gufi, dopo la dissoluzione del gruppo, finiranno per avventurarsi su terreni molto distanti tra loro. Tutto ciò accade perché l'esperienza artistica di quel periodo è profondamente, quasi inscindibilmente, connessa a un tessuto sociale di cui segue contraddizioni e destini.
Giorgio Gaber ne ha piena consapevolezza, si lascia permeare dai cambiamenti e li racconta nel suo lavoro. Solo se si assume questo punto di vista si riesce a comprendere quale sia il legame tra "Ciao ti dirò" e "La mia generazione ha perso".
Anche per questo Gaber non lascia alcun erede artistico, perché nessuno tra i giovani talenti in circolazione gli assomiglia. Qualche anno fa c'erano un paio di cantautori capaci di coniugare ironia, poesia e capacità di vivere gli umori dei propri tempi. Si chiamavano Rino Gaetano e Franco Fanigliulo, ma sono scomparsi prima di lui.

Gianni Lucini
Roma, 5 gennaio 2003
da "Liberazione"