E' morto, a ottanta anni, uno dei più grandi attori di tutti i tempi

Addio Marlon, uomo del desiderio

Quella a fianco degli indiani d'America è stata una delle sue principali battaglie civili, assieme a quelle anti-razziste e per l'ambiente.

Aveva ottant'anni, era ridotto uno straccio. Ma eravamo tutti convinti che fosse immortale. Perché lo era. Lo ha reso tale, in vita e ora in morte, il grande schermo che lo amava nonostante Brando non sempre ricambiasse. La pellicola ha trasformato in simbolo non solo il suo sguardo, il suo volto e il suo corpo, ma anche qualsiasi cosa con cui l'attore venisse a contatto. Dalla canottiera di "Un tram chiamato desiderio", alla giacchetta bullonata del "Selvaggio", al cappotto slabbrato di "Ultimo tango". Come un re mida del grande schermo, Brando trasformava in luce e ombra ogni angolo del fotogramma.

Marlon Brando

Marlon nasce nel 1924 a Omaha, Nebraska. E nasce ribelle, tanto che i genitori decidono di mandarlo all'accademia militare del Minnesota, da dove viene regolarmente cacciato. Sceglie allora di seguire la strada delle sorelle e della madre e di provare con la recitazione. Segue corsi per attori e di ballo. Ma chissà cosa sarrebbe stato di lui se non avesse incontrato sulla sua strada di formazione un grande mentore, Elia Kazan, e l'Actor's studio di Lee Strasberg. E' la svolta della sua vita, è l'opportunità di esprimere e trasformare in arte la rabbia che aveva in corpo. Non è un caso che Tennessee Williams, già nel 1947, lo approvi immediatamente per interpretare il brutale Stanley Kowalski nella versione teatrale di "Un tram chiamato desiderio". Ma la bomba esplode quando Brando incontra lo schermo, a partire da quel primo ruolo in "The men" ("Il mio corpo ti appartiene", 1952), di Fred Zinnemann, in cui impone i primi silenzi, i primi sguardi, insomma il famoso "metodo" strasberghiano così aderente alla sua psicologia. Degli anni all'Actor's Studio, ricordiamo il giudizio della sua insegnante, Stella Adler: «Marlon non ha mai avuto davvero bisogno di imparare a recitare. Lo sapeva naturalmente», disse una volta.

Il mito Brando nasce con la sua interpretazione in "Un tram chiamato desiderio" (1952) di Kazan, si ispessisce con il "Selvaggio" (1953) di Lazlo Benedek - film che lo elegge a simbolo dell'insofferenza nei confronti delle regole e del puritanesimo americano - e si consolida definitivamente con "Fronte del porto" (1954), ancora di Kazan, che gli fa vincere il suo primo Oscar. Per il secondo, dovrà aspettare il ruolo di don Vito Corleone, ne "Il padrino" (1972) di Coppola, statuetta che si rifiuterà di ritirare per solidarietà ai nativi americani. Quella a fianco degli indiani d'America è stata una delle sue principali battaglie civili, assieme a quelle anti-razziste e per l'ambiente.

La sua ascesa continua inesorabile per tutti gli anni Sessanta ("I giovani leoni", "Gli ammutinati del Bounty") mentre i primi Settanta sono segnati dalle sue interpretazioni italiane, quelle nel bel "Queimada" di Gillo Pontecorvo e nell'indimenticabile "Tango a Parigi" di Bertolucci. Poi la sua immagine andrà diradandosi, il suo rapporto con il cinema, inasprendosi («recitare è una professione vuota e inutile», ebbe modo di dire). Lo faceva per i soldi, diceva, per pagare i danni di quel casino che è stata la sua vita privata. Christian Brando, il figlio avuto dalla sua prima moglie, l'attrice gallese Anna Kashfi, fu condannato a 10 anni di prigione per l'omicidio nel 1990 del fidanzato della sorellastra Cheyenne, che nel 1995 si suicidò, a 25 anni. Brando, che fu pagato la cifra di 14 milioni di dollari per la sua performance nel 1978 in "Superman", rimase più volte impelagato in liti relative al suo patrimonio. Spese milioni a Tetiaroa, un atollo dei mari del sud che comprò nel 1966, ai tempi del Bounty e del matrimonio con la tahitiana Tarita Tariipia.

Nelle biografie, tutte non autorizzate, uscite negli anni Novanta, Brando e la sua vita vengono fatti a pezzi. Si è scritto di lui che fosse di un appetito sessuale frenetico, che spingesse le persone che lo amavano al suicidio, che avesse figli illegittimi ovunque, che macinasse donne ogni giorno per nascondere la sua omosessualità. L'attore cercò di mitigare il colpo con un'autobiografia in cui tentò di distinguere l'uomo dal mito. Confermando però il suo rapporto con le donne («La mia passione principale? Farmi le donne, tutte») e il disprezzo nei confronti della madre alcolizzata («Ho spesso pensato che sarebbe stato meglio crescere in un orfanotrofio»).

Non sappiamo se Brando avesse paura della morte o, più probabilmente, la desiderasse. Per noi, come e più degli altri grandi dello schermo, è ancora vivo. Il cinema gli ha regalato un passaporto per l'immortalità.


Filmografia

Roberta Ronconi
Roma, 3 luglio 2004
da "Liberazione"