Con Gianni Agnelli esce di scena una dinastia laica, cosmopolita

L'ultimo Grande Borghese

Un uomo a doppia dimensione, una locale e una globale

"Il Re è morto"; ma non possiamo aggiungere, comunque la si pensi, la frase che di solito seguiva all'annuncio mortifero, ossia, in relazione all'insediamento dell'erede, "Viva il Re! ".

La scomparsa di Gianni Agnelli, da lunga pezza attesa, e addirittura molte volte sussurrata ("dicono che è morto l'Avvocato…"), lascia un vuoto assolutamente incolmabile. In primo luogo, perché il fratello Umberto non è paragonabile, in termini di autorevolezza, di vero e proprio carisma, ma anche di capacità imprenditoriali e gestionali, all'"Avvocato" - il solo esponente della categoria che in Italia potesse fregiarsi della maiuscola; secondariamente, perché, venuto meno precocemente l'erede diretto, Giovannino, figlio di Umberto ma con capacità ereditate dallo zio, e affidata la continuità a chi è poco più che un fanciullo, Elkan jr. (del resto ancor prima che morisse, suicida, il figlio maschio di Gianni, Edoardo), nessuna figura del management o del parentado sembra avere caratteristiche vicine a quelle del leader.

Dunque non c'è successione possibile. E, ad accrescere la tragedia, con tutte le sue straordinarie simbologie, l'uscita di scena dell'Avvocato, si colloca nel momento centrale di una crisi epocale della sua azienda, l'azienda di famiglia che più di qualsiasi altra, è stata identificata - ed era oggettivamente identificabile - nell'industria italiana: e questo da molto prima che Gianni ne assumesse il comando, a metà degli anni Sessanta, rilevando "il professore", ossia Vittorio Valletta, e addirittura, in larga misura già prima che egli stesso venisse al mondo (1921).

Già, perché la Fabbrica Italiana Automobili Torino, fondata da un gruppo di amici nel 1899 (non tanto amici, visto che uno di loro, Giovanni Agnelli, fece le scarpe agli altri, liquidandoli), divenne una grande industria solo con la Prima Guerra Mondiale, il che significò un vero e proprio salto nella quantità e nella qualità, nei metodi di produzione e nei profitti d'impresa, ma anche una altrettanto decisiva crescita numerica e politica dei lavoratori che nell'industria lavoravano o che intorno ad essa trovavano lavoro, in quello che si chiamò "l'indotto".

La Fiat divenne da allora la città dove era stata costituita, si integrò con Torino, fino a condizionarne potentemente (e spesso prepotentemente) non soltanto la composizione sociale, la vita politica, i flussi migratori, l'urbanistica, le politiche pubbliche, ma la stessa vita culturale nel senso più ampio, la struttura antropologica. Fiat significò per Torino centinaia di migliaia di "meridionali" che giunsero all'arrembaggio, disperati e volenterosi "vu cumprà" che si arrangiavano in situazioni di fortuna, ospiti di "paesani", pronti a chiamare "su" altri conterranei, e poi, via via che riuscivano ad emendarsi dalle coabitazioni forzose, i familiari.

Fiat significò una struttura istituzionale alternativa e parallela a quella pubblica, dalla Mutua aziendale (la mitica MALF che ancora oggi tanti rimpiangono!) ai servizi per il dopolavoro, dalle colonie alla "grande famiglia" che andava dagli "allievi" agli "anziani Fiat", un titolo che suona tutt'oggi come una qualifica di merito nei necrologi della Stampa.

Fiat fu, appunto, La Stampa, il quotidiano di famiglia, che in qualche modo, sia pur con cedimenti, tenne fede alla linea del suo fondatore il liberale democratico Alfredo Frassati, poi sloggiato dal fascismo, che acconsentì così a un antico desiderio di colui che ormai era diventato senatore, Giovanni Agnelli, il fondatore. Il quale, dopo la morte prematura e tragica del figliolo Edoardo "tirò su" il nipote Giovanni, detto Gianni: troppo giovane per prendere le redini alla morte del nonno, egli lasciò campo a un "estraneo", il siciliano Valletta: quasi un'altra scelta simbolica per l'azienda e la città che si apprestava a diventare la seconda città meridionale d'Italia, dopo Napoli. E poi la Juventus, la squadra che più di ogni altra seppe essere "italiana": non a caso i suoi sostenitori spaziano dalle Alpi a Pantelleria, aiutati in fondo da quella sobria e realizzativa concretezza che, con le "vetturette" a buon mercato, portava per la Penisola in lungo e in largo, una Torino sempre più italiana, appunto, rigurgitante di "terroni", diventati "fiattini" e "juventini" (ma tra gli operai "indigeni", per dispetto verso il padrone, persistette sempre il "cuore granata", ossia pro Toro).

Oggi la morte di Agnelli, Giovanni II, eroe come suo nonno di un capitalismo d'antan, segna emblematicamente non solo la fine di un'epoca e di un modo di fare industria, non solo nel nostro paese; era l'industria che condizionava il potere politico, fino ad essere quasi un superpotere, il Potere sostanziale, parallelo e superiore a quello formale. Poi si sarebbe passati - e lo vediamo - agli uomini dell'imprenditoria più spregiudicata, pronti a transazioni con gli ambienti della corruzione e persino della malavita, e, infine, a dare l'assalto diretto al potere politico.

L'uscita di scena di Gianni Agnelli può essere letta, altresì, come segnale della sconfitta di uno stile. Lo stile degli Agnelli, questa dinastia laica a metà tra i Buddenbroock e i Kennedy, lo stile di Gianni in particolare, si fondava in primo luogo su un cosmopolitismo da Grande Borghese, su di una globalizzazione praticata ante litteram, dove la ricchezza era potere e profitto, ma era anche investimento, era incontro con finanzieri, con politici, con intellettuali; era, insomma, cultura, era stile, appunto. Lo "stile Agnelli" faceva, secondo la migliore tradizione subalpina, della sobrietà la sua cifra, e dunque si fondava piuttosto sul nascondimento che sull'ostentazione, sull'essere che non vuole apparire, sull'understatement, su un certo modo di vestire e di parlare che divenne moda (l'orologio sul polsino, la camicia fuoruscente dai pantaloni, sotto il pullover, il jeans stazzonato, le scarpe sportive: insomma una trasandatezza forse studiata, che divenne tuttavia naturale al punto da essere autentica eleganza …).

Non uno dei tanti "santi sociali" della tradizione piemontese, certamente, Gianni Agnelli; ma è indubbio che egli, salvaguardando il profitto innanzi tutto, ad ogni costo, riconobbe sempre piena legittimità al sindacato in fabbrica e ebbe un atteggiamento di sostanziale rispetto nei confronti dei lavoratori, dai tecnici agli impiegati, dagli operai qualificati agli operai di mestiere. Anche in questo caso agiva il genius loci: ossia la dignità del lavoro, l'esaltazione del travail ben fait, l'etica del produttore, che nell'ambiente subalpino hanno avuto sempre un posto d'onore.

Eppure, se Agnelli è stato il volto e il nome simbolo della Fiat, e dunque di Torino, egli non si è mai identificato nella città: troppo provinciale e un po' bigotta, per i suoi gusti. Uomo a doppia dimensione, una locale e una sovranazionale, che rifiutò la logica della piccola patria, ma amò non solo il Piemonte e Torino, ma anche la sua Villar Perosa, di cui fu per decenni sindaco-imperatore. Soprattutto Torino, "grande madre", l'ha visto sempre ritornare, sia fisicamente, sia imprenditorialmente, sia culturalmente; negli anni della malattia, rinchiuso nella sua dimora collinare, dentro e insieme fuori della città, a Torino volle ritornare definitivamente, ma sempre rimanendone un po' à l'écart.

Ebbene, mettendo uno accanto all'altro tutti codesti elementi ne esce non solo il ritratto di un personaggio degno di entrare nella storia, con le luci e le ombre inevitabili (non si possono dimenticare gli errori, le incertezze, e talora una scarsa lungimiranza politica), ma altresì un personaggio che, oggi, al cospetto con i parvenus dell'impresa, con i rampanti della finanza, e con i "signor nessuno" della politica, emerge come un vero gigante della storia italiana del Novecento.

Angelo D'Orsi
Roma, 25 gennaio 2003
da "Liberazione"