Sarà bene non sottovalutare il crack della Parmalat. Per i soldi spariti:
7, 10 qualcuno dice, addirittura, 12 miliardi di euro sono una cifra enorme.
Per il crollo del titolo in borsa: in un mese la capitalizzazione di borsa
della società è passata da 1,8 miliardi di euro a 90 milioni. Ma, soprattutto,
per il modo come tutto questo è avvenuto, per chi ha coinvolto, per la durata
della truffa: in discussione non è il caso Parmalat, ma quello che, un po´
enfaticamente, viene definito il sistema paese.
Come logica conseguenza, è impensabile che l´Enron europea, come è stato definito
negli Stati Uniti il caso Parmalat, non abbia anche riflessi politici.
Cominciamo a delinearne i contorni. Primo punto. L´economia italiana si
caratterizza, rispetto a quella dei paesi più industrializzati, per un elevato
numero di piccole e medie imprese. Motore della crescita del paese una elevata
propensione all´export, in particolare da parte di aree con produzione omogenea,
i famosi distretti. Poche le grandi imprese, pochissime quelle che possono
essere definite multinazionali (nelle prime 1.000 società quotate in Borsa
censite dalla rivista statunitense Business Week, quelle italiane sono solo
24; paesi economicamente molto più piccoli come Canada e Australia ne hanno
rispettivamente 41 e 27).
Il rallentamento dell´export italiano, molto più marcato rispetto a quello
degli altri paesi europei, la performance delle esportazioni dei prodotti
cinesi, visti come diretti concorrenti di quelli italiani, l´uscita di alcuni
pregevoli pubblicazioni (Gallino sulla grande industria italiana), la crisi
della FIAT, hanno dato il via ad un dibattito sullo stato di salute dell´economia
italiana nel quale ha prevalso la convinzione che il "piccolo è bello" non
consenta più, qualora lo abbia mai consentito, di tenere il passo dell´economia
mondiale. Solo la grande impresa può fare ricerca, innovare, muoversi sul
mercato mondiale, garantire il paese da un inevitabile ridimensionamento.
Il crack della Parmalat si inserisce in questo dibattito e porta acqua al
mulino dei sostenitori dell´Italia in fase di ripiegamento, ma anche di chi
ritiene necessario che lo stato torni ad avere un ruolo attivo nell´economia
del paese. Per questo quel che accadrà della Parmalat sarà particolarmente
significativo per l´economia di questo paese.
Non va dimenticato che Parmalat è il nono gruppo industriale del paese, una
delle poche multinazionali italiane con 140 impianti sparsi in tutto il mondo,
37 mila dipendenti dei quali solo 4 mila in Italia, un fatturato pari a 7,5
miliardi di euro realizzato in Europa (il 35%), nel nord e centro America
(35%) e in sud America (22%).
Un colosso che si è costruito poco a poco acquisendo, fra il 1997 e il 2001,
imprese in Canada, Australia, Spagna, Stati Uniti, Argentina, Venezuela, Brasile,
per un importo pari a 2,4 miliardi di euro. Con una buona capacità di stare
sul mercato: molti dei suoi marchi sono oggi nel mirino di colossi del settore
come Coca Cola, Kraft, Nestlè.
Secondo punto. Partendo dal caso Parmalat il Financial Times, in un editoriale,
ha sostenuto che l´Italia è un paese dove chi investe corre "rischi significativi"
e che questo crack è una lezione generale per gli investitori europei. Il
giornale inglese ci mette dentro tutto ma, in particolare, collega il crack
Parmalat all´alto debito dello stato italiano: la perdita di credibilità del
paese rischia di aumentare i costi per finanziarlo. Il problema è che questo
crack non riguarda solo l´Europa ma il mondo intero.
Se le banche italiane e le loro filiali all´estero vantano dalla Parmalat,
secondo la Banca d´Italia, un credito complessivo di 3,14 miliardi di euro
le banche estere, quelle statunitensi ma anche olandesi e tedesche, dovrebbero
vantare almeno il doppio. Insomma non è una truffa che resta chiusa dentro
i confini del paese.
Una truffa che può avere un pericolosissimo effetto domino: basta guardare
le perdite fatte registrare dai titoli delle banche italiane coinvolte.
Terzo punto. La raccolta di denaro tramite l´emissione di obbligazioni ha
conosciuto in Europa, dopo l`avvio dell´euro, una crescita impetuosa.
Un recente studio della Banca d´Italia stima che le obbligazioni lanciate
dalle imprese europee abbiano raggiunto nel 2002 il 59% del PIL, con un aumento
in cinque anni del 35%. Non siamo al livello USA, il 63% del PIL, ma poco
ci manca.
In Italia questo modo di raccattare soldi ha visto una crescita, nello stesso
periodo, di oltre il 90%, passando dal 28% al 47% del PIL. Va detto che questi
soldi non servono solo alle necessità manifatturiere dell´impresa che li chiede.
Servono anche ad altri scopi: "è logico emettere bond e investire il ricavato
in altri strumenti finanziari: se non altro per motivi fiscali" (dichiarazione
di un consulente di Parmalat riportate dal Corriere della sera del 23/12).
Il caso delle obbligazioni Cirio, dichiarate carta straccia, quello di oggi
della Parmalat, non favoriscono sicuramente questo modo di finanziarsi da
parte delle imprese. Non a caso ci sono "altri casi di cui si sussurra" (Il
sole 24 ore 23 dicembre). Difficile pensare che il collocamento delle nuove
emissioni previste da alcune grandi imprese per il 2004 (Autostrade, Finmeccanica
e Lottomatica) possa avvenire con la stessa facilità e alle stesse condizioni
previste alcuni mesi fa.
E' difficile anche pensare che dormano sonni tranquilli i possessori dei quasi
24 miliardi di euro di obbligazioni in scadenza nel 2004. A poco servono le
assicurazioni delle società di controllo, anche per la fama che si ritrovano,
che giudicano la salute dell´Italia non peggiore di quella degli altri grandi
paesi europei.
Quarto punto direttamente legato al precedente. Mentre negli Stati Uniti
la legislazione riguardante i bilanci non veritieri delle società veniva inasprita,
il governo Berlusconi varava il nuovo diritto societario, con la depenalizzazione
del reato di falso in bilancio. Una scelta che "potrebbe essere considerata
un incoraggiamento ad attività fraudolente" (IL Sole 24 ore del 24 dicembre).
Nello stesso articolo si fanno i conti all´euro della sanzione che, a norma
della nuova legge, cadrebbe sui manager della Parmalat qualora emergessero
responsabilità penali: 10.329 euro. Massimo di detenzione, dovesse arrivare
una querela, un anno.
Negli Stati Uniti i manager responsabili di un caso come quello Parmalat rischiano
venti anni di galera. Qualcuno può pensare, stando ai numerosi scandali che
ci sono stati in quel paese, che le carceri americane siano piene di ex manager.
Non è così. in carcere pare ce ne sia uno solo, molti sono liberi su cauzione,
molti altri sono in attesa di processo. Tutti quelli scoperti con le mani
nel sacco ci hanno però rimesso un bel mucchio di soldi, anche se nessuno
è finito fra gli homeless.
Ma, detto questo, il problema oggi sul tappeto in Italia è che subito dopo
aver varato una legge che depenalizza chi fa bilanci falsi, il governo si
trova davanti ad una truffa di proporzioni colossali che mette in discussione
la credibilità del sistema stesso. Per il governo fare marcia indietro su
quella legge è quasi un obbligo.
La situazione è parecchio complicata per la semplice ragione che in gioco
c´è la trasparenza dei mercati e la fiducia dei consumatori.
Una cosa è il crollo delle Borse, magari in contemporanea in tutto il mondo:
si tratta di un fenomeno negativo ma che rientra negli alti e bassi del sistema.
Stessa giustificazione può avere il crollo di una singola impresa anche se
viene fuori che ha fatto carte false.
Il problema è quando viene fuori che le carte false sono una regola delle
imprese, che una delle attività più redditizie delle banche è quella di disfarsi
di crediti a rischio distribuendoli fra i risparmiatori. E´ il sommarsi dei
casi a mettere in difficoltà il sistema.
In meno di un anno, in Italia, 30-35.000 risparmiatori hanno visto andare
in fumo obbligazioni pari a oltre un miliardo di euro (quelle della Cirio).
Nello stesso periodo 450 mila risparmiatori che avevano acquistato, tramite
banche, 11 miliardi di euro di bond argentini si sono accorti che il loro
valore si era ridotto ad un quarto. Da dicembre, a questi risparmiatori truffati
si sono aggiunti i 100 mila in possesso dei bond della Parmalat, per una cifra
superiore sicuramente ai 5 miliardi di euro, che al massimo potranno valere
un quinto di quanto hanno investito.
Ha ragione l´anonimo banchiere che ha dichiarato "ci vorranno anni per recuperare
credibilità e immagine alle banche italiane" (La stampa 23/12). Il governo
ha tempi strettissimi davanti. Ed è la stessa Confindustria a dettare la linea:
è indispensabile un intervento immediato che coinvolga anche l´opposizione
nello spirito dell´alternanza, della condivisione del sistema, abbandonando
lo scontro su nuovi organismi di controllo che avrebbero il sapore di una
resa di conti fra governo e Banca d´Italia.
La Confindustria ringrazia per le nuove regole sul mercato del lavoro, "oggi
è un dato di fatto che l´Italia si colloca ai primi posti sul mercato mondiale
della flessibilità" (Il sole 24 ore del 24 dicembre), ma quella riforma di
Berlusconi sul falso in bilancio va rivista. Più in generale il governo deve
"cambiare ritmo di marcia in economia (...) sapendo che si muove sul filo
del rasoio, non tanto per quello che ha fatto ma per quello che non ha fatto
e deve assolutamente fare (...) basta fare catenaccio ieri sulla Cirami, oggi
sul Salvarete4, domani sulla legge Gasparri". Più chiari di così non si potrebbe
essere.
A leggere le cronache dei giornali il modo come è stata gestita la Parmalat
sa dell´incredibile.
Anche se non c´è nulla di nuovo sotto il sole: da questo punto di vista sbaglia
il Manifesto quando segue Guido Rossi nella sua critica al capitalismo familiare
italiano che appena conosce i meccanismi della finanza si fa travolgere. Non
è vero che "il caso Parmalat dimostra quanto sia straccione il capitalismo
italiano" perché rientra nella stessa logica dei casi Enrom, Worldcom, Adelphia,
Global Crossing, Kmart e via dicendo.
Come al solito, anche nel caso Parmalat compaiono una miriade di società che
si prestano soldi fra loro, alcune in perdita altre con profitti, molte con
sede nei cosiddetti paradisi fiscali che, sia detto di passata, sarebbe bene
considerare organici al sistema e non escrescenze dello stesso. Al centro
del caso Parmalat una società, la Bonlat, collocata alle isole Cayman, sulla
quale venivano scaricati gran parte dei passivi coperti da bilanci falsi.
Ma al centro anche le società di controllo, che avrebbero dovuto garantire
la correttezza della gestione e non hanno visto un buco pari al PIL della
Slovenia. Società che pare abbiano anche aiutato a truffare, fatto tutt´altro
che nuovo.
E al centro anche organismi pubblici (Banca d´Italia e Consob) che oggi si
rimpallano le responsabilità di mancati controlli. E a proposito di Banca
d´Italia e Consob c´è da rimanere allibiti a pensare a questa sequenza: la
Parmalat emette, nel febbraio scorso, obbligazioni pari a 300 milioni di euro.
Non trova collocatori e ritira la proposta. A giugno ci riprova con la stessa
cifra e Banca Intesa li accetta. A settembre nuova emissione, questa volta
di 350 milioni; li prende Deutsche Bank. Dopo due mesi si scopre che Parmalat
ha un buco di 7 miliardi di euro e falsifica i bilanci da quindici anni.
Saremo degli inguaribili ottimisti, ma quel contabile che ad un certo punto
ha detto "non ce la faccio più", voglio parlare col magistrato che indaga
(La Repubblica 24 dicembre) era in grado, da solo, di fermare fin dall´inizio
quello che poi è diventato un crack, che in Italia ha un solo precedente,
quello di dieci anni fa dei Ferruzzi. Come era in grado di fermare la macchina
fin dall´inizio quell´impiegato della banca di Collecchio che, stando ad una
dichiarazione della moglie (Corriere della sera del 24 dicembre), "già quindici
anni fa diceva che la Parmalat aveva problemi e una montagna di debiti".
Il controllo diretto dei libri contabili da parte dei lavoratori è l´unica
soluzione per evitare truffe come questa. La proposta può far sorridere vista
la complessità del sistema, ma se si pensa al tentativo di distruggere le
prove prendendo a martellate un computer oppure alla lettera della Bank of
America, quella che "lavora meglio degli altri", attestante un credito di
4 miliardi di euro fatta con lo scanner, un paio di forbici, un foglio A4
di carta un po´ più pregiata e scritta, pare, anche in un inglese pieno di
errori, chi parla di complessità del sistema è semplicemente in mala fede.
Il sistema non è per niente complesso. Caso mai quello che è diventato complesso,
col tempo, è il sistema di spartirsi la fetta di torta che il lavoro produce
e che non va al lavoro. Fetta, quest´ultima, che è aumentata in misura considerevole:
oggi non va al lavoro il 45% della ricchezza prodotta in questo paese; mai
nella storia dell´ultimo mezzo secolo, chi non lavora si è appropriato di
tanta ricchezza. Negli anni ´50, a chi non lavorava, andava "solo" il 35%.
Una volta strappata al lavoro la fetta di torta più grande possibile, inizia
la guerra fra chi gestisce il sistema, chi lo controlla, chi controlla chi
controlla, chi amministra i soldi, chi li presta, chi li custodisce, chi li
difende. Una guerra che provoca fra i contendenti, molte volte, morti e feriti.
Il guaio è che in questa guerra viene tirato per i capelli anche chi lavora.
Qualcuno potrebbe pensare che chi lavora, una volta che si è visto sfilare
da sotto il naso una bella fetta della torta che ha prodotto, ha terminato
le sue pene. Neanche per idea! Siccome ha sempre qualche incertezza sul suo
futuro cerca sempre di risparmiare qualcosa. Una virtù che, viene da dire
cinicamente, lo Stato celebra in pompa magna in un particolare giorno dell´anno.
Ebbene quella parte di torta che chi lavora riesce a risparmiare, secondo
la Banca d´Italia oggi vale il 6% del PIL, diventa un´altra quota da spartirsi
nella guerra detta sopra. Con chi lavora che, in questo conflitto, non può
fare altro che stare a guardare. E perderci, chiunque vinca. Non facciamoci
impressionare dal moltiplicarsi degli indicatori, dai mille modi di raccogliere
risparmi, dai mille modi per investirli: alla fine della fiera c´è sempre
la spartizione di una torta.