Il decreto Alemanno punisce gli allevamenti meridionali e appenninici, mentre favorisce quelli intensivi

Un colpo mortale per la zootecnia “buona”

La possibile riconversione a zootecnia da carne rischia di cancellare in diverse zone una identità culturale, che si esprime attraverso produzioni tipiche (formaggi) legate alla nostra storia e alle nostre tradizioni

L'eterna vicenda delle quote latte mette a nudo tutta l'inadeguatezza della classe dirigente del Paese. L'Italia, pur essendo un Paese a buona capacità zootecnica, può produrre solo 10.580.000 tonnellate di latte ponendosi in Europa al quinto posto dopo Germania, Francia, Regno Unito e Paesi Bassi. Una produzione che copre appena il 56% del fabbisogno nazionale, ponendoci al ventesimo posto tra i paesi dell'Ue nel rapporto tra quote e fabbisogno. Di questo 56% poi circa il 40% viene utilizzato per i nostri grandi Dop, il Parmigiano Reggiano (21%) e il Grana Padano (19%). E' evidente quindi la drammatica debolezza del comparto nel nostro Paese.

L'accettazione nel 1983 di quote così basse da parte dell'allora ministro democristiano e "padano" Pandolfi, sembra sotto la spinta dell'industria di grande trasformazione, e in particolar modo la Parmalat, favorì l'afflusso di latte dall'estero a prezzi stracciati (il Marco valeva all'epoca 450 lire). Contemporaneamente gli allevatori onesti hanno lottato, non sempre riuscendoci, per la mera sopravvivenza. Altri, meno onestamente ma sicuramente non demoralizzati dalla politica o dalle stesse organizzazioni professionali agricole, hanno continuato secondo la logica liberista a produrre, inquinare, sforare e tirare avanti, tanto poi, in cambio di voti, qualcuno avrebbe pagato le multe. Altri ancora, per non sforare la quota, vendevano il prodotto in nero senza alcuna garanzia per i lavoratori del settore nonché dei consumatori. E qui il "duro" Alemanno, che aveva istituito una commissione di inchiesta su questo fenomeno, ha ammesso in un'assemblea (il 5 aprile scorso a Treviglio nel Bergamasco) che «c'è tanto latte in nero, al punto che abbiamo dovuto non andare troppo a fondo per non causare problemi a livello europeo».

Il decreto, approvato con il voto di fiducia e salutato positivamente dai vertici delle stesse organizzazioni professionali agricole, non ha ovviamente risolto nessuno dei problemi del settore. Nonostante la campagna di criminalizzazione fatta a mezzo stampa con inserzioni pubblicitarie del Ministero dell'Agricoltura e a spese della collettività (perfino sulla Gazzetta dello Sport), pochissimi allevatori hanno pagato le multe e molti hanno ripreso la lotta nelle strade e nei tribunali che continuano a dar loro ragione.

Il fatto è che la partita delle quote latte si gioca in Europa e, al di là della boria del Presidente del Consiglio, questo governo nell'Unione conta meno di niente, tant'è che il semestre di presidenza italiana dell'Ue si è chiuso con un totale fallimento per la nostra agricoltura. Neanche un litro di latte in più in sede negolaziale e tante penalizzazioni per le produzioni italiane tipiche, di qualità e ad alto valore aggiunto di lavoro, come il biologico e le produzioni mediterranee (tabacco, macellazione di carne, olio d'oliva, ortofrutta, etc).

Nonostante la propaganda di Bossi e l'antileghismo "a prescindere" di tanta parte dei dirigenti del centrosinistra, il decreto Alemanno sulle quote latte appare fortemente punitivo nei confronti della zootecnia appenninica, meridionale, nonché delle zone montane alpine, in quanto la liberalizzazione delle quote favorisce la politica degli allevamenti intensivi, con il rischio, già denunciato dagli allevatori meridionali, di un vero e proprio assalto alle quote latte rilasciate in zone marginali. Garante del mercato delle quote dovrebbe essere un commissario di dubbia costituzionalità, nominato direttamente dal Consiglio dei ministri, alla faccia del federalismo. Non fosse che per questo motivo, il decreto Alemanno è stato duramente criticato da gran parte delle regioni italiane con decise prese di posizione di tanti amministratori anche di An e Udc, gli stessi che oggi si stracciano le vesti per difendere la legalità e il decreto.

Questo decreto è insomma un colpo mortale per la zootecnia meridionale che sarà espropriata e cancellata, quella stessa zootecnia che è la più esposta alla crisi della Parmalat e al vaccino obbligatorio anti Bluetongue che sta decimando le greggi e le mandrie.

La Revisione Intermedia della Politica Agricola Comunitaria (Pac) prevede compensazioni collegate alle quote di produzione effettivamente possedute, per cui, se le aziende delle aree difficili perderanno quote, perderanno anche significativi flussi finanziari provenienti dall'Ue con ripercussioni drammatiche sul territorio.

La politica agricola dell'Ue, pur tra molti limiti, pone sempre più attenzione alla funzione di presidio sul territorio che può essere garantito, nelle zone interne e montane, anche dal permanere di attività fortemente ancorate ad esso, come nel caso della zootecnia da latte. La stessa possibile riconversione a zootecnia da carne rischia di cancellare in diverse zone una identità culturale, che si esprime attraverso produzioni tipiche (formaggi) legate alla nostra storia e alle nostre tradizioni, ai nostri saperi e ai nostri sapori, che rappresentano punti di forza della nostra cultura e della nostra economia.

Il nostro Paese ha le carte in regola dal punto di vista della vocazione agricola del territorio, nonché di capacità professionale, per richiedere un aumento significativo di quote latte legate magari alla capacità di carico del bestiame e del benessere animale in modo da valorizzare e potenziare, tramite il ciclo corto, quel grande patrimonio latteo-caseario che, con oltre 30 formaggi, tutto il mondo c'invidia.

Ivan Nardone
Roma, 31 dicembre 2003
da "Liberazione"