Il declino industriale è ormai una dura realtà

Il capitalismo è scaduto

Liberalizzazione dei mercati reali e finanziari, privatizzazione delle industrie e delle banche pubbliche, flessibilità nell'uso della manodopera, abbattimento del costo del lavoro attraverso la compressione salariale, recupero dei margini di profittabilità, agevolazioni fiscali e sussidi alle imprese private: tutto l'armamentario delle politiche neoliberiste è stato messo in campo nel corso del decennio

Con i crack di due colossi dell'industria agroalimentare come Cirio e Parmalat, l'Italia rischia di perdere un altro pezzo del suo già malconcio patrimonio industriale. Nell'ultimo decennio se ne sono già andati l'elettronica, la chimica, la farmaceutica, buona parte dell'aerospaziale. L'industria automobilistica non se la passa tanto meglio. Né la crisi della grande industria è compensata dalla vivacità delle piccole e medie imprese. Anzi, queste non attraversano di certo un buon periodo, schiacciate, come sono, dalla rivalutazione dell'euro e dalla concorrenza asiatica. D'altra parte, non potrebbe essere altrimenti. I distretti industriali sono, per lo più, cresciuti come propaggini esterne della grande impresa committente, come sacche di flessibilità all'interno di processi produttivi fortemente integrati. Senza un sistema industriale forte e organizzato, in grado di produrre ricerca e innovazione, la piccola impresa non può vivere. Il declino industriale non è più, quindi, una minaccia ipotetica, ma una dura realtà.

E' questo l'amaro frutto della politica industriale perseguita negli anni Novanta. Perché non è vero che in Italia è mancata una politica industriale. Al contrario, essa c'è stata, eccome. Liberalizzazione dei mercati reali e finanziari, privatizzazione delle industrie e delle banche pubbliche, flessibilità nell'uso della manodopera, abbattimento del costo del lavoro attraverso la compressione salariale, recupero dei margini di profittabilità, agevolazioni fiscali e sussidi alle imprese private: tutto l'armamentario delle politiche neoliberiste è stato messo in campo nel corso del decennio. E gli obiettivi prefissati sono stati raggiunti. Il nostro mercato del lavoro è ormai il più flessibile e precario d'Europa. I diritti sociali sono tornati ad essere concessioni regie. L'industria pubblica è praticamente scomparsa. Una gigantesca redistribuzione del reddito ha trasferito immense risorse dai salari ai profitti e alle rendite. A questo proposito le cifre sono impressionanti.

All'inizio degli anni Ottanta i redditi lordi da lavoro, dipendente e autonomo, rappresentavano il 70,3% del reddito primario totale. Vent'anni dopo sono scesi al 62,2%. Tutto a vantaggio dei redditi da capitale, che hanno accresciuto il loro peso sulla torta del reddito di ben 8 punti percentuali. Siccome, nel frattempo, gli occupati sono aumentati di circa due milioni di unità, l'effetto redistributivo è ancora più accentuato. Negli ultimi venti anni i profitti e le rendite sono aumentati sette volte più rapidamente dei salari! Il sistema fiscale ha addirittura accentuato questi processi, agendo in forma regressiva sul piano distributivo. Negli anni Novanta il gettito del prelievo fiscale diretto sui redditi da lavoro dipendente e assimilati è aumentato del 40,4%, mentre quello sui redditi da capitale e da lavoro autonomo è diminuito del 3,6%. Queste aride cifre hanno avuto un forte impatto reale. E' tornato il fenomeno dei working poors, che sembrava scomparso dagli albori della Rivoluzione Industriale. Milioni di lavoratori oggi vivono in povertà, insieme a tanti disoccupati e anziani. E coloro che sono, per ora, scampati a questo baratro faticano comunque ad arrivare alla fine del mese.

Ma allora dove sono finite queste immense ricchezze, che hanno remunerato il capitale come mai prima d'ora? Perché non hanno prodotto nuovi investimenti e nuove occasioni di lavoro? La risposta non è difficile da trovare. Si chiama finanziarizzazione dell'economia. Il grande capitale italiano, reso florido da questo fiume di denaro, si è lanciato nella grande avventura della finanza internazionale. Come in una fantastica giostra, gli anni Novanta hanno visto un susseguirsi di fusioni, acquisizioni, scalate di borsa, ardite speculazioni su tutti i più sofisticati e rischiosi strumenti finanziari, da parte dei principali gruppi industriali italiani. L'utile d'impresa è sempre meno derivato dalla produzione reale e sempre più dalla remunerazione delle poste puramente finanziarie. Rendita e profitto si sono fusi, riconfigurando così la catena del valore. Il profitto puramente industriale si è via via ristretto al sistema delle piccole imprese. La gran parte del surplus economico si è incanalato lungo le vie della vecchia rendita finanziaria e della nuova rendita monopolistica, fatta di predominio commerciale e comunicativo. Tutte le principali crisi industriali di questi anni hanno avuto origine da speculazioni finanziarie finite male.

E quando non bastavano le risorse proprie per questi giochi speculativi, arrivavano pronte in aiuto le banche. Le responsabilità del sistema bancario sono grandi. Esso ha favorito questi processi, aprendo i cordoni della borsa per finanziare o gestire operazioni improduttive, prive di garanzie e di prospettive reali. Di più, con la liberalizzazione e la privatizzazione del sistema bancario è anche venuto meno il divieto della commistione tra banca commerciale e industria. Abbiamo così assistito ad un connubio sempre più stretto di partecipazioni azionarie incrociate tra grandi istituti bancari e finanziari e grandi imprese industriali. La banca è diventata proprietaria dell'industria e viceversa. In questo modo, i potenziali conflitti di interesse si sono moltiplicati a dismisura, fino a diventare la norma. La storia economica ha dimostrato come in queste condizioni il credito perde la sua funzione di filtro, per assumere una funzione conservativa e parassitaria.

La Banca d'Italia ha assecondato questo andazzo, chiudendo tutte e due gli occhi di fronte a tale spettacolo. La politica fiscale e la gestione del debito pubblico, più attente alle esigenze dei mercati finanziari che alla minimizzazione degli oneri, hanno fatto il resto, promuovendo la cultura della rendita e del facile guadagno. In questo modo si sono bruciate non solo le risorse ricavate dal maggiore sfruttamento del lavoro, ma anche quelle di tanta parte del piccolo risparmio. Perché, quando la grande giostra si è fermata, con lo scoppio della bolla speculativa e con la recessione, il castello di carte è crollato. Ci si è accorti allora che agli abnormi livelli di indebitamento di alcune grandi imprese corrispondevano ben poche ricchezze reali. Si è scoperto che i lauti margini di utile non derivavano dalla produzione, ma dai debiti di altri.

Eccoci allora nella situazione di oggi: una crisi economica profonda e strutturale, una crisi sociale sempre più acuta. A ben poco servono i proclami e gli appelli solenni. Occorre che il Paese prenda coscienza di quanto è accaduto, per ripartire lungo nuovi percorsi, radicalmente alternativi a quelli finora battuti. Nei primi decenni postunitari, il Parlamento italiano ha dato un contributo decisivo ad elevare e diffondere la conoscenza sulle grandi emergenze del Paese. I risultati delle grandi inchieste parlamentari sulla povertà o sull'agricoltura costituiscono ancora oggi documenti di alto valore scientifico e morale. La stessa cosa servirebbe oggi. Una commissione d'inchiesta parlamentare che indaghi sullo stato del nostro capitalismo, sulle responsabilità delle sue classi dirigenti, sui progetti e sugli strumenti da attivare per rilanciare su basi nuove lo sviluppo economico e sociale. Una commissione d'inchiesta che non lavori nel chiuso dei palazzi, ma che si immerga nella realtà viva del Paese, fatta anche di tante e nuove energie vitali, oggi mortificate. Come quelle espresse dai movimenti. Sarebbe questo il miglior segnale di speranza e di fiducia, di fronte al degrado civile e morale dei padroni del vapore, che le istituzioni potrebbero dare al popolo italiano.

Andrea Ricci
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