La crisi dell’industria.

La Fiat in mano pubblica: così si salva l'auto italiana.

Parte 2. L'industria dell'auto

L'inedita crisi industriale che stiamo attraversando può e deve essere colta dalla sinistra come una occasione: dal rapporto, tutto da costruire,tra bisogni sociali e produttivi, beni e servizi, compatibilità ambientale possono e devono scaturire risposte e soluzioni alternative a quelle del centro destra. Il sindacato è chiamato a contribuire alla costruzione di un nuovo rapporto tra politica, istituzioni, conflitto sociale.
Milano è il luogo dove, prima che altrove, si manifestano le trasformazioni dell’impresa e del mondo del lavoro e dove, più che altrove, si è evidenziata la necessità di politiche e pratiche sindacali diverse dal passato e l’esigenza di instaurare un differente e più equilibrato rapporto tra capitale e lavoro.
Su questi nodi abbiamo deciso di ospitare quattro interventi di Maurizio Zipponi, segretario generale della Fiom di Milano, incentrati sui grandi temi della contrattazione e della rappresentanza, dell’industria dell’auto, delle telecomunicazioni e del ruolo dell’attuale industria pubblica.

La crisi dell'industria italiana per eccellenza, la Fiat, è la cartina di tornasole della cecità e degli errori dei suoi gruppi dirigenti e il frutto delle scelte sbagliate dei governi che si sono succeduti, che per anni hanno finanziato surrettiziamente l'azienda senza tentare di indirizzarne le decisioni. Risolvere positivamente questa crisi rappresenta oggi il banco di prova per un governo che abbia a cuore non solo gli interessi dei lavoratori, ma gli interessi del paese.

Cessioni e vendite di tutto ciò che aveva un valore (di "prezioso" rimangono solo Iveco e Case New Holland), allontanamento di intelligenze e professionalità, investimenti in prodotti fallimentari, smantellamento dei siti dove, seppur timidamente, si cominciavano a studiare e progettare i prodotti del futuro: di questo è lastricata la strada che ha portato Fiat alla soglia del fallimento. La crisi Fiat è, contemporaneamente, crisi di prodotto (cioè assenza di modelli innovativi) e di progettualità, cioè capacità di guardare al futuro investendo nella ricerca e nella sperimentazione di prodotti nuovi e ambientalmente compatibili. Mentre le grandi case automobilistiche si stanno attrezzando per competere nella produzione di autoveicoli con motori non inquinanti, Fiat perde fette di mercato e regge solo nei segmenti a bassissimo valore aggiunto, dove per realizzare un minimo di redditività è necessario far uscire almeno tre milioni di pezzi all'anno, mentre è fuori dalle gamme alte dove maggiori sono i margini di guadagno.

Ad una situazione finanziaria drammatica (per la fine del 2004 è prevista una ulteriore perdita del gruppo attorno a 1,3 miliardi di euro) si aggiunge la sistematica crisi del gruppo dirigente dell'impresa: solo negli ultimi due anni si sono susseguiti ben quattro amministratori delegati, e in questi giorni viene annunciato l'arrivo di una "nuova squadra". I successori dei capi della più potente dinastia industriale e lobby politica del paese si sono rivelati degli incapaci e la famiglia Agnelli, oggi, non è che un insieme di percettori di rendita. Nel settembre del 2005 le otto grandi banche che nel 2002 avevano concesso a Fiat prestiti per 3 miliardi di euro potrebbero decidere di esercitare l'opzione di conversione, diventando così, con il 28% delle quote, i primi azionisti del gruppo.

C'è infine l'alleanza con General Motors, che si è tradotta in un abbraccio mortale. L'accordo siglato tra Fiat e GM nel marzo del 2000 prevedeva uno scambio di azioni: il 20% delle quote Fiat contro il 5,1% delle azioni GM (poi vendute) che incassava un diritto di prelazione-obbligo sull'eventuale futura vendita del restante 80% di Fiat. General Motors ha costituito con Fiat due società paritarie: la prima per la produzione dei motori e dei cambi (la Powertrain), la seconda per la gestione degli acquisti. Questa sinergia industriale, che sulla carta avrebbe dovuto dare respiro a Fiat, si è tradotta in realtà nell'appropriazione, da parte della casa automobilistica americana, delle parti migliori di Fiat e nella collocazione di dirigenti Gm nei gangli fondamentali di governo della Powertrain, oltre alla possibilità per Gm di spostare ricerca e progettazione nei luoghi dove ha già i suoi centri.

E' una storia già vista: seguendo lo stesso schema General Motors ha distrutto, nel giro di pochi anni, la Daewoo coreana, appropriandosi del mercato nazionale, lasciando aperti pochi stabilimenti di montaggio, scaricando i debiti sul sistema bancario, quindi sull'intera collettività. Ma senza andare lontano, la vicenda che ha portato l'Alfa di Arese (acquistata da Fiat nel 1987) al rischio di chiusura definitiva è l'emblema di ciò che potrà accadere all'intero settore dell'auto in assenza di un intervento deciso capace di invertire il processo in corso.

Fiat non scomparirà dall'oggi al domani (ci hanno messo 20 anni a smantellare Arese), ma le quotidiane perdite di denaro, di prodotto, di mercato, di competitività tra poco non saranno più recuperabili. Allora chiunque abbia l'ambizione di governare il paese, in alternativa al centro destra, deve porsi il problema di dare una prospettiva che regga nel tempo non solo alla più grande industria italiana, ma ad un intero settore. A mio avviso, infatti, la crisi del gruppo Fiat non può essere considerata una questione aziendale ma una questione politica nazionale, perché i nuovi bisogni sociali collettivi, la produzione dei beni conseguenti, la loro compatibilità ambientale e una occupazione qualificata sono i parametri attraverso i quali ragionare di politica industriale.

L'esperienza che stiamo facendo a Milano per rilanciare l'Alfa di Arese va in questa direzione: dal coinvolgimento di più soggetti - sindacato, istituzioni, enti di ricerca, università e aziende che lavorano su prodotti innovativi - può tradursi in realtà il "Polo per la mobilità sostenibile" in grado di dare un futuro ai lavoratori e all'intera area. Fiat, che avrebbe potuto e dovuto essere l'interlocutore privilegiato in questo percorso, non ha voluto o saputo cogliere l'occasione, dimostrando ancora una volta di essere fuori gioco. Allora, per prima cosa è indispensabile rispondere sul serio alla domanda: è interesse del paese avere una industria automobilistica autonoma? Dove per industria automobilistica autonoma si intende una industria che ricerca, progetta, ingegnerizza e costruisce nuovi modelli e nuove tecnologie da applicare al trasporto pubblico e privato e occupa mercati consistenti sia a livello europeo che mondiale.

La risposta al quesito dipende dal considerare l'auto un prodotto "maturo", cioè in via di esaurimento, di estinzione e in quanto tale senza prospettiva oppure, al contrario, un prodotto che subirà significative evoluzioni dal punto di vista tecnologico. Io sono convinto di questa seconda ipotesi. Nel 2002 nel mondo sono stati venduti 47 milioni di autovetture e le grandi case automobilistiche americane, giapponesi ed europee si stanno apprestando a immettere sul mercato nuovi prodotti (a partire da quelli con motori ibridi ad idrogeno), che rispondano all'esigenza di compatibilità ambientale e di spazio delle congestionate metropoli.

Agli inizi di aprile del 2003 è stato reso noto un accordo tra General Motors e Bmw che ha tra gli obiettivi: fissare degli standard internazionali relativi allo stoccaggio, al trasporto ed alla distribuzione dell'idrogeno per rendere possibile il rifornimento di vetture ad emissione inquinante zero che verranno commercializzate su larga scala entro il 2010. Contemporaneamente la Dailmer Chrysler ha consegnato venti autobus ad idrogeno alle amministrazioni pubbliche delle principali capitali europee, Italia esclusa, mentre Toyota, ha presentato la seconda generazione della "Plus", l'auto ibrida con doppio motore (a benzina ed elettrico) della cui prima versione, negli ultimi cinque anni (e nonostante gli alti costi) sono stati venduti 120mila pezzi.

A questo punto la risposta è scontata: uno dei settori dove vengono fatti e previsti maggiori investimenti è l'industria dell'auto e la sua evoluzione compatibile con l'ambiente. Questo vale per tutte le grandi case, tranne che per Fiat, da anni priva dell'ambizione e della capacità progettuale per porsi a livello mondiale tra i protagonisti della trasformazione del prodotto auto. In questo scenario le strade possibili sono due. La prima è già scritta e porta dritta all'Alfa e alla Daewoo. La seconda è un tentativo, da sottoporre a verifica nell'arco di 5 anni, che prevede non solo un intervento dello Stato e una classe dirigente imprenditoriale capace ma anche un nuovo, significativo apporto del sindacato con il diretto coinvolgimento dei lavoratori interessati.

In primo luogo per rilanciare il settore auto in Italia occorrono ingenti risorse finanziarie ed un nuovo assetto societario di Fiat. Per questo lo Stato, con il concorso di quattro regioni - il Piemonte ( "patria" della Fiat), la Campania (sede del più importante stabilimento, l'Alfa di Pomigliano), la Lombardia (il più grande e congestionato sistema metropolitano dove sono si trovano l'Alfa di Arese e gli stabilimenti Iveco di Brescia, Mantova e Milano), la Sicilia (dove è ubicato lo stabilimento di Termini Imerese) - dovrebbe impegnarsi nell'acquisto del 25 - 30 % delle azioni Fiat, riducendo al minimo la presenza della famiglia Agnelli (che ormai per l'impresa non rappresenta che un costo) e garantendo un controllo pubblico nella gestione dell'azienda per il periodo necessario al risanamento.

Non è una proposta fantascientifica: lo Stato francese detiene consistenti quote della Renault, mentre la regione della Bassa Sassonia, con circa il 20%, è l'azionista di riferimento della Volskwagen: queste due aziende sono riuscite contemporaneamente a migliorare i prodotti, incrementare le vendite ed affrontare enormi ristrutturazioni con strumenti diversi dalla semplice riduzione di manodopera. L'intervento pubblico ed il nuovo assetto societario devono essere esplicitamente accompagnati da un vero piano industriale che garantisca l'occupazione e abbia come obiettivo lo studio, la progettazione e la realizzazione di nuovi modelli e nuovi prodotti tecnologicamente avanzati, compatibili con l'ambiente e, quindi, competitivi. Ma perché l'operazione abbia qualche possibilità di riuscita è necessario anzitutto sostituire l'attuale management Fiat con un gruppo dirigente capace di ragionare in termini industriali sul medio e lungo periodo e di considerare il valore del lavoro una risorsa ed il sindacato un soggetto con cui dialogare e confrontarsi.


Per produrre auto, vecchie o nuove che siano, servono, comunque, persone capaci di farlo: qui entra in campo il sapere dei lavoratori. Ridurre al minimo o chiudere gli stabilimenti Fiat non significa solo perdere migliaia di posti di lavoro ma, anche, cancellare professionalità e competenze. Per questo, condizione necessaria perché il progetto di rilancio della Fiat auto sia attuabile è il mantenimento dei lavoratori nei siti produttivi e corsi di formazione che li mettano in grado di intervenire nei nuovi processi.

Al sindacato spetta il compito non solo di difendere l'occupazione e di contrattare migliori condizioni di lavoro ma, anche, di rivendicare il diritto di decidere i nuovi indirizzi e le scelte dell'impresa. E' indispensabile realizzare un patto tra sindacato e azienda che affronti la ristrutturazione partendo da un presupposto inedito: i periodi di inattività dei lavoratori, coperti da cassa integrazione e mobilità, devono oggi essere sostituiti da momenti formativi (finanziati con il contributo dello Stato) e dal mantenimento di una presenza del lavoratore all'interno dell'impresa (anche di sole 20 ore alla settimana). Nel periodo di formazione il lavoratore deve percepire una integrazione al reddito superiore agli attuali 650 euro mensili della cassa integrazione, dal momento che delle nuove competenze acquisite beneficerà anche l'azienda. Al temine del percorso nessun lavoratore dovrà essere trasformato in "esubero" ma dovrà essere considerato un valore, un soggetto che, difendendo i propri interessi, contribuisce al risanamento.

Non penso che lo Stato debba sostenere ed indirizzare perennemente Fiat, ma sono consapevole che una situazione complessa e drammatica come l'attuale non si ribalta nell'arco di un giorno. Credo, però, che in presenza di una nuova strategia industriale, di investimenti mirati, di un nuovo e serio gruppo dirigente imprenditoriale, nuove relazioni industriali che prevedano il coinvolgimento dei lavoratori, sia possibile coinvolgere - nel giro di tre, quattro anni - anche i principali fornitori nella gestione della "nuova Fiat", responsabilizzandoli e selezionandoli sulla base del loro interesse a far progredire l'azienda.

L'obiettivo che ci dobbiamo dare è quello di ritrovarci entro cinque, sei anni, con un'azienda sana, competitiva, capace di reggere sul mercato: a quel punto sarà possibile prevedere l'uscita dello Stato dal pacchetto azionario mettendo le quote sul mercato, con l'unica clausola di vendere ad industriali e non a speculatori finanziari, come è accaduto per Telecom. Quella che ho delineato non è una ricetta magica, né, forse, l'unica opzione possibile: è fondamentale, però, che chiunque sia interessato ad evitare al paese una catastrofe occupazionale e un declino irreversibile, si impegni a discutere e sperimentare un percorso diverso dall'attuale.

Maurizio Zipponi (Segr. gen. Fiom Milano)
Milano, 5 settembre 2004
da "Liberazione"