Ma che cavolo ha l’articolo 41 della Costituzione che non va? Insomma, è rimasto
lì per 60 anni, non lo toccavano nemmeno ai tempi di Scelba, quando la polizia sparava sugli
operai in sciopero, e ora, all’improvviso, è diventato un insopportabile ostacolo alla
libertà d’impresa, un freno alla libera concorrenza e un rimasuglio di quel socialismo
reale che in Italia non c’è mai stato (a differenza di Scelba, delle stragi di Stato
e del regime democristiano, beninteso).
L’articolo 41 va riscritto. L’hanno detto Berlusconi e Tremonti e l’ha confermato
un “tecnico” d’eccellenza, come il presidente dell’antitrust. I capi di Confindustria,
da papà e mamma fino ai figli, si sono messi a sbraitare come ossessi: ci vuole la “deforestazione
normativa”.
E allora, siccome la memoria potrebbe anche ingannarmi, sono andato a rileggermi l’articolo
dello scandalo. Chissà, magari mi era sfuggito qualcosa in tutti questi anni.
Inizio a leggere. Il primo capoverso recita così: “L'iniziativa economica privata è libera.” Non
mi pare roba da Carlo Marx, anzi, potrebbe averlo scritto Adam Smith in persona.
Passo quindi al secondo capoverso: “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale
o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” E
questo mi pare persino ovvio. Mica può essere considerato lecito ridurre un cittadino in
schiavitù o mutilarlo pur di ricavarne un guadagno. Insomma, ci vuole pure un confine tra
l’imprenditoria e il crimine organizzato.
E poi, a pensarci bene, cose del genere si sentono dire e ridire anche da banchieri, imprenditori
e manager, almeno nei convegni e nei seminari dedicati alla responsabilità sociale dell’impresa,
o Corporate Social Responsibility, se preferite.
Mi leggo allora il terzo e ultimo capoverso: “La legge determina i programmi e i controlli
opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e
coordinata a fini sociali.” Nulla di strano neanche qui, mi pare. In fondo dice soltanto che
le cose affermate al punto secondo non sono semplici auspici, bensì prescrizioni obbligatorie
da tradurre in pratica con apposite leggi. Certo, questo rappresenta sicuramente una differenza con
la storia della responsabilità sociale dell’impresa, che è un atto soggettivo
e volontario, ma dall’altra parte è anche vero che lo stato di diritto è cosa
diversa da un convegno di Bill Gates.
A questo punto, però, continuo a non capire dove stanno tutti questi impedimenti alla libertà d’impresa
che frenano la ripresa economica. E così, per cercare di capire meglio, mi armo delle sagge
parole del mio prof di Istituzioni di Diritto Pubblico di tanti anni fa -“quando c’è contrasto
tra realtà materiale e realtà normativa, allora la prima tende a prevalere sulla seconda”-
e volgo lo sguardo verso Sud, a Pomigliano d’Arco per la precisione.
Lì c’è uno stabilimento Fiat, ex-Alfa, con oltre 5.000 dipendenti, ai quali
andrebbero aggiunti quelli generati dall’indotto. A dire la verità, in quella fabbrica
c’è stato ultimamente un tasso di assenteismo un po’ altino, visto che i lavoratori
hanno passato più tempo in cassa integrazione che al lavoro.
Comunque sia, gli operai di Pomigliano sono fortunati, perché la Fiat gli offre l’opportunità di
non fare la fine dei loro colleghi siciliani dello stabilimento di Termini Imerese, destinato alla
chiusura per fine 2011. No, per loro c’è sul tavolo l’offerta di 700 milioni di
euro di investimenti e la produzione della nuova Panda a partire dal 2012.
Come si fa a non esultare, a non ringraziare la Fiat per la sua generosità? Invece di spostare
anche la produzione della nuova Panda all’estero, dove ormai viene prodotta la grande maggioranza
delle automobili Fiat, alla faccia del tanto decantato Made in Italy e, soprattutto, del
mare di miliardi girati dalle tasche del contribuente italiano a quelle della multinazionale, il
signor Marchionne ha deciso di fare un patriottico sacrificio.
Tuttavia, c’è una condizione. I sacrifici devono farli anche gli operai. Insomma,
c’è la crisi e la competizione internazionale e quindi bisogna rinunciare a qualche
piccolo privilegio italiano, per avvicinarsi maggiormente alle situazioni di avanguardia in termini
di condizioni di lavoro, tipo la Polonia. Quindi, riduzione delle pause da 40 a 30 minuti giornalieri,
aumento degli straordinari comandati da 40 a 120 ore a testa per anno, da fare anche durante la pausa
mensa – peraltro spostata a fine turno-, deroga all’obbligo di riposo di almeno 11 ore
tra un turno e l’altro, possibilità per l’azienda di non pagare la malattia al
singolo lavoratore se l’assenteismo medio in fabbrica supera una certa soglia eccetera eccetera.
Ovviamente, questo accordo deve essere roba seria e, quindi, entrerà a far parte del contratto
di lavoro individuale di ogni lavoratore. In altre parole, se a un operaio dovesse saltare in mente
di partecipare a uno sciopero degli straordinari, per esempio, questo rappresenterebbe una violazione
del contratto di lavoro, punibile con le sanzioni disciplinari, fino al licenziamento.
Gli estremisti-ideologici-irresponsabili-conservatori della Fiom hanno presentato delle proposte
alternative, in grado di garantire l’obiettivo produttivo della Fiat di 280mila vetture all’anno,
ma senza violare le regole del contratto nazionale, le leggi e il diritto di sciopero, peraltro costituzionalmente
tutelato e pertanto indisponibile.
Ma Marchionne ha detto niet e ha ribadito: mangiare la minestra o saltare la finestra,
accettare il diktat o finire disoccupati, portare la Polonia a Pomigliano oppure portare il lavoro
in Polonia.
I sindacalisti responsabili di Fim, Uilm e Fismic hanno responsabilmente detto di sì, ma
questo a Marchionne non basta. Ci vuole anche il plauso degli operai e quindi va fatto il referendum,
cioè quella cosa che venne negata ai lavoratori ai tempi del contratto separato dei metalmeccanici.
Comunque, la Fiat ci tiene alla democrazia e quindi i suoi rappresentanti hanno già iniziato
a contattare i singoli dipendenti, per informarsi se hanno intenzione di andare democraticamente
al voto, per esprimere liberamente il loro sì alla generosità della Fiat.
Insomma, Marchionne non chiede un accordo sindacale che garantisca gli obiettivi produttivi, ma
chiede molto di più. Chiede agli operai di nobilitare un volgare ricatto, di chinare la testa,
di arrendersi. Non lo fa per cattiveria o ottusità, beninteso, perché Marchionne non è né un
pazzo, né un estremista, ma lo fa perché la vicenda di Pomigliano è una vicenda
che va oltre Pomigliano.
Dall’altra parte, che la produzione della Panda venga avviata effettivamente nel 2012 e
nella dimensione annunciata è ancora tutto da vedere. A differenza degli impegni chiesti ai
lavoratori, infatti, quelli assunti dalla Fiat sono corredati da diversi se e ma.
No, il punto è un altro. Pomigliano deve fare scuola, deve sfondare gli argini. Dopo Pomigliano
arriveranno gli altri stabilimenti Fiat e non Fiat. E deroga dopo deroga toccherà all’istituto
del contratto nazionale e alla legislazione, Statuto dei Lavoratori compreso.
Vi ricordate della Thatcher e della sua guerra contro i minatori? Ebbene, è la stessa
cosa. Non si aggredisce più l’anello debole della catena, ma si tenta lo sfondamento
centrale. Insomma, si cerca di spezzare le reni ai metalmeccanici e alle loro organizzazioni ancora
indipendenti, per avere campo libero dappertutto.
Si combatte a Pomigliano, ma la posta in gioca è nazionale e generale. Ecco perché in
partita entra anche l’articolo 41 della Costituzione. Non perché impedisca la semplificazione
burocratica o la velocizzazione delle pratiche per aprire una nuova impresa –ma quando mai!-,
ma perché è necessario riscrivere il codice genetico della nazione, stabilendo anche
simbolicamente che la libertà d’impresa, cioè la libertà dell’imprenditore, è un
valore assoluto, mentre la libertà del lavoratore e della lavoratrice è soltanto una
sua variabile dipendente.
E, last but not least, ecco perché oggi è giusto e necessario stare apertamente
dalla parte di quelli come la Fiom. Perché i silenzi, le ambiguità e i balbettii equivalgono
alla complicità.