Dopo i referendum e gli accordi separati a Pomigliano e Mirafiori

Alcune considerazioni sulla vicenda Mirafiori

Il nocciolo della questione è uno solo, la modifica del ruolo di un’organizzazione di classe come il sindacato e la definitiva, secondoi padroni, instaurazione di un sistema di relazioni sindacali che non metta in discussione il ruolo di guida dell’impresa e dei suoi interessi

L'akkordo.

Photo by Vauroinfo

Sono passati alcuni giorni dalla chiusura della campagna referendaria a Mirafiori e soprattutto dalla imponente campagna mediatica che l’ha accompagnata.

Da osservatore esterno, ma interessato, la cosa che più stupisce è come sia stato possibile inculcare nella mente degli italiani che le sorti di una delle poche multinazionale con base nel nostro paese siano determinate dalle scelte dei 5000 lavoratori di Mirafiori.

E’ pazzesco che nella fase in cui il movimento operaio è meno visibile, e l’Italia attraversa una crisi senza precedenti, si instauri una sorta di democrazia economica interessata con diritto di veto sugli investimenti miliardari, altro che modello tedesco. A Mirafiori abbiamo sperimentato i Soviet con democrazia diretta.

Mettiamo da parte l’ironia, la situazione è seria. Talmente seria che si è dimenticato in battibaleno le responsabilità decennali della proprietà, la mancanza di una politica industriale, le colpe di un sistema finanziario che ha sempre coperto le scorribande della famiglia più potente d’Italia. Tutto ciò spazzato via dalla campagna mediatica in pochi giorni.

Se facciamo un passo indietro e riprendiamo la vicenda che ha interessato Pomigliano possiamo, col senno di poi, almeno per quanto mi riguarda, ammettere una sottovalutazione. Quella vicenda è stata letta quasi esclusivamente come ricatto occupazionale in un territorio ad alto tasso di disoccupazione, l’identica logica che ha portato negli anni scorsi alla creazione di mostri come i patti territoriali per lo sviluppo, spesso con nomi roboanti ma dal contenuto univoco, scambio diritti-lavoro. Si capisce così anche la posizione espressa, chi più apertamente e chi meno, da parte dei livelli confederali della Cgil Campana. In realtà era parte di una strategia che la Fiat ha dimostrato poi di perseguire con grande determinazione, riformare il modello di relazioni sindacali a colpi di clava, prendendo in ostaggio non solo i lavoratori ma le stesse organizzazioni delle imprese, o perlomeno le parti più attente al mantenere relazioni con l’insieme della rappresentanza.

Comincia quindi a delinearsi una strategia più ampia, non solo determinata dai colpi di testa del “cavallo pazzo” Marchionne, come qualcuno ha provato in modo semplicistico a ridimensionare il valore della vertenza, ma una vera e propria prosecuzione della strategia dell’alternativa, isolamento o adeguamento. Utilizzando lo strumento, tristemente conosciuto, degli accordi separati con i quali i diretti interessati vengono posti nel ruolo di spettatori o ancora peggio di tifosi. Si utilizza in modo spregiudicato l’assenza di regole condivise in tema di democrazia sindacale, o meglio si precostituisce una innaturale maggioranza interclassista impensabile nei decenni precedenti. La mancanza di una legge che regolamenta rappresentanza e rappresentatività, ovvero democrazia sindacale, non è una dimenticanza ma la consapevolezza nel novecento che gli interessi rappresentati sono inconciliabili, da una parte i lavoratori con le proprie organizzazioni, dall’altra i padroni con Confindustria. I rapporti di forza determinavano, di volta in volta, quale mediazione possibile, fra chiari interessi contrapposti,così avviene ancora in migliaia di vertenze. Oggi è necessario rivendicare una legge che regolamenti la democrazia sindacale, ma lo si fa in uno dei momenti più difficili.

Quale è la vera partita?

Io credo che il nocciolo della questione sia uno solo, la modifica del ruolo di un’organizzazione di classe come il sindacato e la definitiva, secondo loro, instaurazione di un sistema di relazioni sindacali che non metta in discussione il ruolo di guida dell’impresa e dei suoi interessi. Questo produce una serie di conseguenze sia sugli strumenti di regolazione del rapporto capitale-lavoro, sia nei soggetti che rappresentano gli interessi.

Brevemente vorrei soffermarmi su due questioni:

1. CONTRATTO NAZIONALE DI LAVORO

È forse l’aspetto più chiaro a tutti, si è cominciato in modo “soft” con la riforma del modello contrattuale, si prosegue con la clava Marchionne. Ancora in queste settimane proseguono i tentativi di smantellare il Contratto Nazionale: la tesi è semplice, bisogna permettere alla contrattazione aziendale di derogare, cioè sostituire, la contrattazione superiore nazionale. Si prefigura un sistema in cui i grandi e piccoli gruppi daranno vita ad un proprio contratto, che si badi bene, non riguarderà solo l’aspetto salariale, ma quello normativo e ancora più delicato l’aspetto del così detto welfare contrattuale. Come succede già in altri Paesi il rapporto di lavoro determina anche il grado di copertura del welfare che si trasforma in workfare, per chi sta fuori un sistema minimo e residuale. Tutto ciò porterà in poco tempo alla decadenza del Contratto Nazionale di Lavoro che si limiterà a dare coperture minime per quelle aziende dove non si riuscirà a produrre una contrattazione aziendale e che, per quanto riguarda la parte salariale, potrebbe essere velocemente sostituito da un salario minimo legale. Solo un pazzo, o un malamente, può pensare che possano resistere condizioni migliori per qui lavoratori che lavorano in aziende dove non si pratica la contrattazione, a meno che la parola “contratto” non assuma il triste declino che ha assunto la parola “riforma”.

2. IL SINDACATO CHE VOGLIONO

Un tema questo che ritengo determinante per l’esito di questa sfida. Di pari passo con gli scontri frontali prosegue un lavoro di tessitura istituzionale governato dal ministro Sacconi che vuole creare le condizioni per la definitiva mutazione genetica del sindacato. Come dimostrano le vertenze Pomigliano e Mirafiori il sindacato che vogliono può essere definito “complice”, intendiamoci non significa venduto come spesso vengono etichettate alcune scelte, la valenza ben più importante si vuole un sindacato che condivida il piano generale dei valori: l’impresa, il mercato e la competizione. Su questi valori si vuole condivisione, chi non accetta viene definito ideologico o politico, come se fossero insulti. Il confronto quindi si sposta ad un livello diverso e che io definisco più basso, preso atto della strategia dell’impresa si discute delle condizioni di lavoro e di salario compatibili con essa. Questo significa complici. Sul tappeto si lascia la dignità e la rappresentanza degli interessi, insomma si abdica al proprio ruolo di rappresentanza e promozione del progresso umano. In cambio preparano temporanei lauti banchetti, fatti di enti bilaterali, provvigioni varie, osservatori contrattuali, ruoli di rappresentanza retribuiti, etc…. e il conto lo pagano sempre i lavoratori con quote di salario.

In questa partita dalla valenza epocale la FIOM non solo ha assunto un atteggiamento difensivo, considerato conservatore nella sua accezione negativa dai commentatori, che da solo sarebbe già meritevole di apprezzamento, ma prova invece a preparare un’offensiva. Il grande merito della FIOM sta non solo nell’aver compreso la fase, sono molti ad averlo compreso, ma nel decidere di assumere la sfida, forse ricorda quello che dieci anni fa ragionavamo nelle sale e sotto le tende di Genova e nel resto del mondo, un altro mondo è possibile. Non vorrei risultare retorico, ma aiutare a comprendere l’importanza di quello che sta succedendo. Un sindacato come la FIOM, ma non solo, che quotidianamente costruisce la propria credibilità nel rapporto con i soggetti che intende rappresentare con le vertenze diffuse e poi costruisce una vertenza generale non solo è l’ABC del sindacato è l’insegnamento del novecento, è moderno.

La vera nota triste di tutta questa vicenda è l’isolamento rappresentato dalla Politica e da Partiti, è possibile che l’unico soggetto di rappresentanza in questo paese debba essere il sindacato. E’ possibile che i partiti di centro-sinistra non fanno altro che riempirsi la bocca di modernità, modello tedesco, società della conoscenza e alla prima prova dei fatti se ne lavano le mani o addirittura si schierano con chi rappresenta gli interessi dell’impresa contro il progresso. Ecco serviti i partiti “complici”. La sinistra, ormai tecnicamente extraparlamentare rischia di diventare extrasociale anche culturalmente, non possiamo perdere tutti i treni che passano. Insegnerà pure qualcosa la dignità e il coraggio operaio che vediamo in queste settimane, dico vediamo perché solo grazie alla determinazione della Fiom possiamo vederlo e si torna a parlare di lavoro e di condizione operaia.

Sono purtroppo tante però le Mirafiori invisibili, che faticano a farsi raccontare e riempiono la vita reale di migliaia di lavoratrici e lavoratori. E a volte la dignità si perde, ma quanta gioia, quanta soddisfazione quando la si riconquista o la si scopre per la prima volta. Per esperienza personale ho visto la luce degli negli occhi di giovani, e meno giovani, lavoratori stranieri brillare per una vertenza vinta per poter finalmente evitare di ringraziane qualcuno per qualcosa che invece si è conquistato con le proprie mani e soprattutto con la propria testa.

La giusta prosecuzione è lo sciopero generale, perché è evidente ormai a tutti che non si tratta di una vertenza minoritaria e che riguarda una sola categoria, le questioni poste dalla FIOM sono di tutti, quello che succede in FIAT succede altrove. Dobbiamo scegliere.

Domani la lotta prosegue. L’auspicio e che via sia in campo un progetto politico che possa dialogare e dare prospettive al movimento dei lavoratori. Facciamo in modo che non venga ricordato come un colpo di coda ma come una delle tappe dell’emancipazione.

Simone Pulici
Monza, 1 febbraio 2011