Competitività, manipolazione del gusto, basso costo del lavoro: sopravvivono solo le aziende omologate a questo modello.
Così il moderno capitale domina il settore agroalimentare.

Dopo decenni di caduta d'attenzione al lavoro della terra, assunto dalla politica come segno d'arretratezza, considerato antropologicamente feudo dell'assistenzialismo conservatore da una sinistra impegnata a ridisegnare i confini della modernità e della propria legittimazione a governarla, i temi dell'agricoltura tornano ad essere al centro dell'interesse generale.

Lontana dai riflettori e dalle attenzioni della grande politica, sottratta, all'indomani della stagione delle lotte contadine per la riforma agraria, al terreno dello scontro sociale per essere regolata dalla politica delle clientele ed affidata alla modernità del mercato, l'agricoltura ha conosciuto negli Anni 70 e 80 una ferocissima e profondissima ristrutturazione che oggi ci consegna un esito per molti inaspettato: attorno al dominio agroalimentare il capitale gioca una delle sue partite più moderne.

Il modello capitalista, che considera l'agricoltura come reparto all'aperto del ciclo produttivo industriale, regola con gli strumenti della competitività la sopravvivenza di quelle aziende funzionali al ciclo industriale espellendo quelle non omologate; secondario è il modo come questo avvenga: con il metodo americano della massima esposizione alla concorrenza di mercato o con quello europeo degli incentivi allo sviluppo che, attraverso le scelte di Agenda 2000, condannano alla scomparsa entro il 2005 un milione e duecentomila aziende agricole nell'area dei Paesi mediterranei europei!

Quali che siano le strategie, gli effetti delle economie dominanti sui Paesi poveri sono durissime: perdita di sovranità alimentare, accesso negato alle risorse, impoverimento sociale ed economico, indebitamento.

Lo schema dell'agricoltura capitalista sottrae sovranità ai territori espropriandoli dei contenuti sociali, culturali ed economici legati alla tradizione di produzione degli alimenti, storicamente diversificata e testata da millenni di consumo, per imporsi come modello del gusto unico dominante, strumento ideologico per rendere il ciclo della produzione e della riproduzione sociale funzionale al modello economico del massimo sfruttamento delle risorse e della concentrazione dei poteri.

Il disegno è evidente: attraverso una grande manipolazione del gusto, trasformare il pianeta in un grande mercato per merci alimentari dominanti garantite dalla supremazia di tecnologie sofisticate come quelle transgeniche, dalla proprietà degli elementi organici e inorganici di base con la brevettazione ed in grado di essere prodotte ovunque sul pianeta si realizzino le migliori condizioni di redditività, ovvero dove maggiore è la concentrazione della proprietà fondiaria o minore è il costo del lavoro e la forza della resistenza sindacale.

Proprio sul lavoro si è giocata e si gioca una partita decisiva nella costruzione del modello capitalista: se un'agricoltura senza contadini e senza braccia, oltre che senza terra, è la condizione politica, sociale ed economica ottimale (il sogno fantascientifico dei guru della modernità senza ostacoli), meno lavoro riesce ad esprimere, anche qualitativamente, più è competitiva e, quindi, moderna.

L'Italia, che vanta la quarta agricoltura mondiale dal punto di vista dei saldi macroeconomici e che, quindi, può essere osservata come indicativa della realtà dei Paesi a forte sviluppo, conosce l'espulsione del valore lavoro dalla condizione agricola come un processo continuo, nei decenni scorsi, dagli effetti devastanti.

La scelta di realizzare la competitività d'impresa sulla compressione del costo del lavoro dipendente è stata una delle costanti di politica agricola dalla riforma agraria in poi: oggi il costo del lavoro medio in agricoltura incide per solo il 16% dei costi generali d'impresa, fra i più bassi d'Europa, a fronte di costi ben più pesanti (il 31,2%, per esempio, di consumi intermedi, ovvero di semi, fertilizzanti, carburanti, trasporti, infrastrutture, eccetera) su cui l'azione sindacale e delle organizzazioni professionali non ha saputo incidere.

Ad alimentare la fantasia fertilissima dei teorici delle gabbie salariali e del contenimento del costo del lavoro è offerta la presenza sempre crescente di lavoratori migranti, capaci di tenere in piedi con il loro lavoro interi settori produttivi, vanto del made in Italy, come il pomodoro ad esempio, che consente la pratica del salario di razza: quella per cui, per lo stesso lavoro, se sei marocchino prendi 30mila lire, 40 se albanese, 45 se italiano.

La stessa condizione degli agricoltori, ad ogni modo, esce profondamente trasformata dalla ristrutturazione: il modello della competitività e della rispondenza ai parametri europei premia solo alcuni profili d'impresa agricola omologata allo schema industriale, consegnando la maggior parte degli agricoltori al ruolo di lavoratori dipendenti delle reti commerciali e industriali, senza poter intervenire su nessuno dei fattori classici che compongono l'impresa essendo totalmente subalterni a scelte che altri soggetti operano per loro.

Lavoratori “per conto”: questa è la condizione cui è esposto il 96,5% delle aziende italiane (quelle che sono a conduzione diretta e il cui 80% si serve solo di manodopera familiare); questa è la condizione delle nuove forme di lavoro sempre più eterodiretto in agricoltura che ci consegna la ristrutturazione e l'omologazione ai parametri voluti a Maastricht.

Di fronte a questo mondo - frammentato, scomposto, attraversato da mille corporativismi per la mancanza di una forte azione sindacale e di un forte movimento per la riforma capace di portare la critica al sistema dell'agricoltura industriale - stanno le organizzazioni professionali immobilizzate dalla scelta di sposare la competitività del sistema e sta un sindacato relegato nella gestione dell'esistente a fotografare con i contratti di riallineamento la realtà, mentre il sistema dei caporali diventa norma e si propone come moderno ed efficiente sistema delle relazioni sul mercato del lavoro.

Ripartire dal lavoro, dai rapporti di produzione, per costruire nuove alleanze e processi di ricomposizione di interessi comuni è quello cui occorre impegnarsi ed è con questa consapevolezza che siamo al lavoro per la conferenza dei lavoratori e delle lavoratrici comuniste di Treviso: con l'obiettivo di proporre una piattaforma utile al partito per stare a pieno dentro il crescente movimento di lotta al dominio agroalimentare e consegnandoci strumenti di iniziativa capaci di costruire l'alleanza fra gli agricoltori, i lavoratori, i cittadini per una agricoltura fuori dal modello capitalista e occasione per una condizione sociale garantita nei corpi, nella relazione con la natura e le risorse e nei rapporti di produzione.

Gianni Fabbris
Roma, 31 dicembre 2000
da "Liberazione"