Il modello Lingotto e l'insostenibile condizione della mobilità urbana ed extraurbana: proposte per un programma industriale di rinnovamento.

Una via di fuga dal doppio tunnel della crisi

Un nuovo prodotto della mobilità per uscire dalla crisi della Fiat

Se però il 2 dicembre gli esuberi, ritenuti strutturali dalla proprietà, non entrano negli stabilimenti, tutti i nostri buoni propositi restano lì, restano solo articoli e convegni. Il rifiuto della Cassa Integrazione a zero ore, e tutti i siti Fiat aperti, oggi sono, pertanto, la chiave di volta di tutto. Mentre gli scioperi di novembre dei metalmeccanici potranno diventare il momento alto - il segnale - per sostenere un NO e un SI'.

Un no, cioé, ai licenziamenti che prefigurano la chiusura di Termini e di Arese, per richiedere, invece, un riequilibrio, subito, dei volumi di lavoro. Non è pensabile, infatti, il protrarsi di una situazione che vede alcune fabbriche del gruppo "scariche" e, altre, "sovraccaricate" per 7 giorni su 7 e 24 ore su 24.

Il caso Volkswagen

Il sì è all'intervento diretto dello Stato, ma a sostegno di un piano industriale che abbia il carattere dell'innovazione e dello sviluppo e non sia funzionale al piano dei tagli ad opera della proprietà in fuga. Studiamo quindi una difesa e prepariamo l'attacco. Se dopo il grande sciopero del 18 ottobre "non si torna indietro" (così Bertinotti), la definizione del salto di qualità deve avvenire davvero, nella vertenza Fiat, su una grande questione strategica: il futuro dell'industria e del lavoratore industriale. Abbandonando, finalmente, l'abbaglio della new economy.

La crisi Fiat lo fa capire. Proverei perciò a guardare "avanti" su tre questioni: cosa significa, oggi e in concreto, l'intervento diretto dello Stato nella crisi Fiat; cosa significa, oggi e in concreto, un piano industriale nel segno, non dei tagli, ma dell'innovazione (e quale) e dello sviluppo; cosa conseguentemente significa, sempre oggi e in concreto, girare pagina rispetto alla scelta tattica sia di corso Marconi Torino che di Detroit.

A proposito, pertanto, di intervento diretto dello Stato e, quindi, di nazionalizzazione. Ha cento ragioni Maurizio Zipponi quando, proprio su queste pagine, sostiene che «non c'è niente di più europeo che l'intervento diretto dello Stato con l'acquisizione del pacchetto azionario della finanziaria che controlla le società operative, per un nuovo piano industriale». Perfetto. Ed è proprio questo il senso dell'emendamento di Rifondazione alla Finanziaria: un fondo per acquisire la proprietà della Fiat.

D'altra parte, è lo stesso Commissario Europeo alla Concorrenza, Mario Monti, a dichiarare che non esiste impedimento alcuno ad una partecipazione pubblica in funzione anticrisi. Si guardi, per comprovarlo, all'Europa dell'auto (e anche dell'energia). In queste settimane, a sostegno della tesi dell'intervento pubblico, si è spesso ricorsi all'esempio della Renault e Volkswagen.

Ebbene, di che si tratta concretamente? Prendiamo la Volkswagen, che il lander della Bassa Sassonia, con le sue Casse di Risparmio, controlla per il 13,7% del pacchetto azionario, ma di cui possiede, con la "golden share", l'azione decisiva. Allo stesso modo, nel campo dell'energia, settore in grande espansione, attorno a Essen, sempre in Germania, un consorzio di 33 aziende (analoghe alle nostre ex municipalizzate) controlla il colosso RWE che, competendo con la nazionalizzata francese EDF, conquista i mercati globalizzati e scende a fare shopping in Italia. Dove, invece, si vuol solo vendere (dalla Fiat all'Enel) e dove le grandi famiglie - dai Pirelli agli Agnelli- cercano riparo nei soli settori protetti delle public utilities privatizzate e nella speculazione edilizia.

La proposta, quindi, del controllo pubblico di Fiat, trova fondamento concreto nella realtà: sono oggi le aziende pubbliche - lo riconosce anche Mediobanca - che reggono nel mercato globalizzato, danno lavoro e ne riversano utili, non nei dividendi di un redditiere, ma in ricerca, innovazione, qualità.

Oltretutto la proposta di controllo pubblico bloccherebbe almeno la rendita finanziaria improduttiva. Facciamo un esempio. Nei soli anni '90 infatti (ed è Giavazzi sul Corriere della Seraa fornirci il dato, lo Stato italiano ha agevolato direttamente la Fiat con ben 10.000 miliardi di lire - rottamazioni ed ecoincentivi a parte - che è poi la stessa identica cifra (guarda caso) ', " girata" da Fiat in dividendi agli azionisti (un vero scandalo). Infine, la proposta di controllo pubblico scoraggerebbe subdole ipotesi di scambio Fiat-Governo che potrebbero vedere appunto il governo esercitarsi (già lo fa) nell'ennesima manovra-tampone a spese del contribuente, al nobile scopo di aiutare la Fiat a uscire dallo scenario-auto (cioé di aiutarla a vendere meglio) e a convergere sul nuovo core - busines: le centrali termoelettriche, quelle che l'Enel, devastata dal ciclone Tatò, non costruirà più.

Cosa dunque significa, oggi e in concreto, un piano industriale nel segno, non dei tagli, ma dell'innovazione di prodotto e dello sviluppo? Significa, in prima approssimazione, acquisire il concetto che siamo dentro una doppia crisi: la crisi di Fiat-auto e la crisi del modello mobilità urbana ed extraurbana. Guai a dividere la coppia. La crisi dell'una è, di fatto, intimamente connessa a quella dell'altra. E un piano industriale è appunto quello che, assumendo le due crisi, prova ad avviarne contemporaneamente la doppia uscita.

Una crisi, quella di Fiat-auto, che è crisi dell'offerta (la fabbrica e il suo popolo), e ha radici nella sequela di errori che i manager Fiat hanno messo insieme (errori di innovazione di processo, di prodotto e di approccio sbagliato alla globalizzazione). L'altra crisi, quella del modello mobilità, si colloca nel campo della domanda che sale dalla città e dai cittadini: le vittime di questo sistema.

Noi - e questo è il punto - dobbiamo provare a portare a soluzione la crisi-auto, con o senza Fiat, ma con i lavoratori, attraverso un progetto di nuova mobilità. Che vuol dire? Vuol dire che il livello massimo di accettabilità dell'auto privata sul territorio, e particolarmente nelle città, è stato largamente superato: un ripensamento radicale si impone.

Si impone, cioé, e conseguentemente, un nuovo sistema di mobilità. "Un'altra auto", per intenderci, che, nelle città, non sia più solo privata ma di uso collettivo - " l'auto in affitto", come già si sperimenta altrove - per consentire quegli spostamenti, nelle città e nelle cinture metropolitane, che il mezzo pubblico (per percorsi, costi ed orar), non può garantire. Vanno perciò studiate, città per città, aree di parcheggio per le auto da affittare; va studiato il modello dell'"altra auto" (una vetturetta ecocompatibile o, magari, - perché no, una "Topolino del 2000", ad idrogeno?); città per la sperimentazione (chi si candida?) e stabilimenti per i prototipi (per la ricerca possono essere investite le Università).

Stiamo parlando in sostanza di una svolta culturale di altissimo livello: dalla quale può uscire la Nuova Fabbrica Italiana Automobile (per le medio-lunghe percorrenze può testare, pur tuttavia, l'automobile, da raccordare però con il sistema delle ferrovie (da rendere efficiente non certo con l'Alta Velocità) e con il trasporto merci (che anch'esso va ristudiato). Ma sia, anch'essa, un'auto non più con il motore a scoppio ma a propulsori puliti (anch'essi da ristudiare).

Torni Keynes

Va da sé che un progetto di nuova mobilità in un sistema che diventa prodotto industriale, richiede la mano pubblica e non certo l'interesse privato. Se però resta la Fiat, e resta fino al momento in cui GM farà valere la propria opzione, resteranno anche - e irrisolte - le due crisi: di Fiat-auto, che i lavoratori stanno subendo; della mobilità urbana ed extraurbana, che i cittadini stanno soffrendo. Rovesciamo il campo. Con la lotta e le idee. E torniamo in Europa, invece di lasciare entrare "gratis" l'America in Italia.

Cosa, infine, significa non cadere dalla "padella" Fiat alla "brace" GM? Significa capire dove vuole arrivare GM e capire quel che non ha capito, o non ha saputo fare, la Fiat. E chiudere il cerchio.

GM entrerebbe in Italia gravata da eccedenze "proprie" da tagliare. Con l'opzione che scatta, GM acquisirebbe nuove quote di mercato, ma scaricherebbe sugli stabilimenti acquisiti (che il venditore Fiat servilmente già gli indica) il grosso dei tagli da apportare alle sue Filiali europee. I siti Fiat diventerebbero solo la grande cassa di compensazione per GM. L'industria italiana andrà così a "chiudere baracca", giusto come diceva Joseph Halevi il 17 ottobre su Liberazione, «l'opzione americana è un suicidio».

Altolà, dunque. Altolà all'ultimo affare sull'auto (e sulla pelle dei lavoratori) della famiglia di Corso Marconi, la quale, oggi, vende in saldo e per necessità. Altolà anche all'affare degli americani di Detroit, sempre consumato sulla pelle dei lavoratori. E della residua industria italiana.

Giriamo pagina, si chiuda il cerchio. Torni Keynes: solo il controllo e l'indirizzo pubblico - e un progetto di qualità - possono portare il paese ad imboccare la strada che porta fuori dalla doppia crisi. Quella che coinvolge lavoratori, i cittadini, lavoro, ambiente.

Bruno Casati
Responsabile nazionale Dipartimento Politiche Industriali del PRC
Milano, 8 novembre 2002
da "Liberazione"