La Fiat è vicina alla chiusura: un epilogo tragico, ma prevedibile di fronte all'evidente fallimento della sua strategia e della sua politica industriale. Oggi, infatti, è più che mai visibile quanto sia fallita quella strategia iniziata negli anni 80 con la vittoria schiacciante contro gli operai e il sindacato. Oggi è chiaro come sia risultata sbagliata l'idea che la più grande impresa nazionale, libera da lacci e laccioli, svincolata dalle esigenze dei lavoratori e dalla contrattazione aziendale, potesse vendere di più e competere nel mercato nazionale e mondiale.
Ed è evidente anche come lo scardinamento di ogni vincolo pubblico, quello per cui
lo Stato poteva intervenire, regolare o influenzare i piani dell'impresa, non abbia
dato alcun risultato se non la progressiva riduzione dell'occupazione, la chiusura
di stabilimenti e settori produttivi fino ai drammatici annunci di questi giorni.
Una Fiat non obbligata ad alcun piano industriale, che non ha l'onere di spiegare
la finalizzazione dei finanziamenti dello Stato si è limitata a prendere da questo
solo soldi e ammortizzatori sociali. Senza dare nulla in cambio.
In poche parole, l'azienda torinese, liberata da ogni vincolo interno ed esterno,
ha perso, le sue auto non hanno retto la globalizzazione, la sua ricerca non ha creato
niente di nuovo, il suo mercato interno si è ristretto, mentre la creazione di un
Polo europeo dell'auto non è stata neppure presa in considerazione dal management
aziendale.
E siamo all'oggi. All'annuncio che 8mila lavoratori saranno licenziati o messi in
mobilità (cioè licenziati), due stabilimenti, quello di Termine Imerese e di Arese
saranno chiusi e che l'economia del paese subirà un colpo gravissimo: vedrà la chiusura
del suo più grande gruppo industriale.
Il governo tace o, al massimo, balbetta e il suo non è un silenzio innocente. La chiusura
del più grande gruppo industriale del paese non è che la conferma e l'accelerazione
verso un modello industriale fondato su alta flessibilità e basso costo del lavoro
che ha i suoi soggetti nelle piccole imprese, diffuse nel territorio e capaci, nell'assenza
del sindacato, del massimo sfruttamento della forza lavoro. Non è che un altro passo
verso la trasformazione del paese in un grande “nord-est”, espressione compiuta di
quel liberismo economico che è il fondamento della politica del governo di centrodestra.
E allora che fare? O meglio che fare della Fiat? Chiederselo non è solo legittimo,
ma necessario. E a questa domanda nessuno, neppure i più raffinati analisti economici,
sanno dare una risposta. Al massimo ci si affida alla General Motors possibile compratore
dell'impresa torinese. Ma l'azienda americana - si sa - al massimo comprerà dei pezzi
della Fiat, quelli che ritiene più convenienti, competitivi o complementari alla sua
produzione. E lascerà il resto. O addirittura chiederà a corso Marconi, come condizione
per l'acquisto, di procedere prima al massacro sociale.
In realtà per la Fiat non c'è alcuna soluzione interna al mercato. La Fiat così come è oggi, con la
sua strategia e la sua politica non ha alcuna possibilità di invertire una tendenza negativa. Gli
ultimi vent'anni, 6.372.929.914 ore di cassa integrazione erogate
dal 1 gennaio 1977 al 28 febbraio 2002, per 238mila miliardi di vecchie lire (120 miliardi di euro)
stanno lì a dimostrarlo.
Per salvare l'occupazione e gli attuali stabilimenti c'è una sola possibilità: essa
è la nazionalizzazione, un radicale intervento dello Stato nel quadro di un progetto
complessivo per la mobilità nel paese. Sappiamo bene che la parola “nazionalizzazione”
desta paura e provoca qualche ironia in chi negli ultimi vent'anni, malgrado i molteplici
fallimenti, ha parlato solo di “privatizzazione”. Ma la nostra non è una sortita e
un'azione propagandistica. E' una convinzione profonda maturata alla luce del fallimento
delle strategie di corso Marconi, ma anche guardando alla storia italiana e alla realtà
dell'Europa.
In Europa due grandi aziende automobilistiche, la francese Renault e la tedesca Volkswagen,
sono a consistente partecipazione pubblica e oggi fortemente competitive sui mercati
mondiali. L'intervento dello Stato, le migliori condizioni di lavoro, gli investimenti
sulla ricerca e sullo sviluppo (vale la pena di ricordare che alla Volkswagen è stata
applicata una notevole riduzione dell'orario) lungi dall'indebolire le aziende produttrici
di auto le hanno rafforzate.
In Italia negli anni 30 la nascita dell'Iri ha portato alla creazione di grandi imprese
a partecipazione statale la cui crisi e la cui cancellazione è stata solo una scelta
politica. La loro caduta non è stata certo determinata socialmente o economicamente.
Esse non sono state cancellate perché tecnicamente impossibili, ma perché politicamente
non funzionali.
Nazionalizzare la Fiat è oggi quindi possibile e necessario. Necessario in primo luogo
per chi rischia di perdere il posto di lavoro. Non solo: è l'unica scelta realistica
di fronte al fallimento della più grande e libera delle aziende private. Aggiungiamo
in ultimo (ma non per ultimo) che solo una partecipazione dello Stato può aiutare
una riconversione oggi ineludibile perché la mobilità rimanga un diritto di tutti
di fronte alla crisi di un modello di sviluppo fondato sull'automobile.
Intanto facciamo alcune richieste immediate e concrete. La questione Fiat sia collocata
immediatamente nell'agenda politica. Il governo deve portare in Parlamento una proposta
per salvare i posti di lavoro e un'impresa strategica per il paese.
La seconda richiesta riguarda le opposizioni. Si convochino per discutere finalmente
di una grande questione come quella che oggi abbiamo di fronte con la minaccia del
posto di lavoro per 8mila operai e facciano della questione Fiat uno dei punti prioritari
di una possibile iniziativa di lotta comune.