PER LO SVILUPPO, IL LAVORO SICURO E QUALIFICATO, LA SICUREZZA SUL LAVORO.
Dalla resistenza al progetto

Per la forte situazione complessiva nella quale si colloca e per gli obiettivi che vi sono posti, quali la definizione di una nostra piattaforma sociale per il lavoro e la ricostruzione di un sindacato di classe, democratico e di massa, la nostra imminente conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori non può sfuggire alla necessità di marcare il passaggio dalla resistenza, (strenua e doverosa quando in ballo c'è la cancellazione del lavoro e dei suoi diritti), al progetto.

Uno sforzo ed una necessità che non possono essere elusi o residuali nel nostro dibattito se non vogliamo correre il rischio di vanificarne l'impegno di analisi e di elaborazione sociale.

Uno sforzo che ci viene richiesto dall'insistenza di uno sviluppo che, governato da una vera autorivoluzione capitalista, quale il neoliberismo, a fronte del crollo di modelli sociali e di sviluppo alternativi, manca i suoi obiettivi sociali, manca una vera crescita per tutti e redistribuzione del prodotto, produce disoccupazione e inoccupazione, mortifica professionalità, il lavoro femminile e dei giovani, rende insicuro quello degli anziani, e dalla necessità di collocare le nostre rivendicazioni sociali sul piano politico per il necessario cambiamento generale nelle politiche economiche, industriali e dei servizi nel Paese

Una necessità che ci viene richiesta da movimenti e da lotte che hanno saputo esprimersi e si stanno esprimendo, pur in presenza di una linea sindacale concertativa, (che se pur già fallita, è ben presente con la sua cultura), per darvi sbocco, non isolarle, consolidarne le conquiste. Che ciò sia difficile ma anche possibile ce lo dice Maurizio Zipponi nel suo libro "ci siamo".

Una necessità per non essere ogni volta perdenti, di fronte ad un processo di deindustrializzazione, di delocalizzazione o esternalizzazione, sulla quale costruire le necessarie convergenze sociali, culturali, scientifiche (non tralasciandone alcuna) e anche politiche per la sua affermazione.

Si tratta quindi a mio parere di individuare prima di tutto un modello interpretativo all'altezza delle trasformazioni in atto affrancandoci da letture scontate.

Infatti, e in prima approssimazione, l'allargamento del mercato non è certo un fenomeno nuovo all'economia capitalista, anzi, credo si possa affermare che ne è parte integrante, di cui oggi ne vanno sicuramente aggiornate alcune delle principali funzioni economiche, nel senso che la formazione del reddito può non essere più proporzionale alla crescita della domanda interna, proponendoci quindi una maggiore e superiore sintesi delle sue variabili, in primo luogo gli investimenti.

Il primo aspetto allora, da affrontare è quello relativo alla capacità di crescita dell'economia nazionale.

Un ritmo costantemente più basso della media dei paesi europei, e l'ultimo rapporto della Commissione Europea rafforza e prolunga nel tempo il gap che separa l'Italia dal resto dell'Europa.

Infatti la minore crescita del prodotto interno lordo dell'Italia è quasi interamente attribuibile alla bassa propensione degli investimenti sia pubblici che privati nel nostro paese, (a proposito degli auspicati e attesi risultati di contenimento salariale dell'accordo del luglio 93!), rispetto ai paesi OCSE e comunitari, spiazzando il paese dalla trasformazione industriale in essere che richiede maggiore e migliore presenza nei settori ad alta tecnologia.

E se le esportazioni rappresentano un fattore non trascurabile dello sviluppo è del tutto evidente che il modello di specializzazione non è ininfluente al suo posizionamento strategico.

E su questo terreno è più che risaputo che l'Italia è caratterizzata da una elevata quota di esportazioni e produzione a basso valore aggiunto ed elevata elasticità di prezzo che concorrono al progressivo arretramento sul mercato internazionale del "made in Italy" sempre più prossimo alla concorrenza con i paesi emergenti.

Rapporti non sospetti parlano di una forbice tra importazioni ed esportazioni dell'Italia rispetto alla Francia e alla Germania, veramente preoccupante, soprattutto se si considera la maggiore capacità di consumo, espressa dal nostro paese, largamente superiore, a quella di questi due paesi che sta ad indicare come la domanda interna non trova una equivalente capacità di offerta e determina, per questa via, una minore ma inesorabile dinamica del prodotto interno lordo.

Vi è quindi una pesante inadeguatezza dell'offerta nazionale a soddisfare la domanda di beni di investimento che comporta un sistematico ricorso alle importazioni di beni di intermedi con forti e preoccupanti effetti sul reddito, sulla sua distribuzione al di là delle indispensabili battaglie che non possono essere disattese.

Una imprenditoria che ha rinunciato alla sfida competitiva su basi tecnologiche anche nei settori in cui vanta un risicato vantaggio comparato, una struttura produttiva che per il suo subdimensionamento è incapace a recepire innovazione, la politica che si è ritirata, ( o ha voluto ritirarsi), come se ciò fosse ininfluente.

Il nostro paese si trova così di fronte alla necessità di riposizionare il proprio tessuto economico e produttivo, traguardando progressivamente profili e contenuti superiori se non vuole accettare la sfida economica che arriva dai paesi di nuova industrializzazione, accettando cioè condizioni di mercato e di flessibilità in cui il lavoro precario o peggio quello sommerso non è un male da colpire, ma il naturale sbocco "competitivo" del paese.

E da ciò non dipende anche la possibilità e gli spazi del cambiamento a cui puntiamo? La necessità quindi del progetto di cui accennavo per il superamento della pura resistenza alle politiche economiche e di sviluppo neoliberiste, per indirizzarsi sul recupero di un disegno di politica economica, industriale e sociale unito ad un processo di programmazione, normativo e di risorse e per una riforma dello stato sociale che non può che accompagnare tale disegno, così come ogni altra rivendicazione sociale, pena correre il rischio di porsi viceversa su un piano riduttivo, penalizzante di necessità sociali e dello stesso sviluppo?

E se con tale necessità si concorda quali le scelte che ci competono per la ricostruzione di un sindacato di classe, democratico e di massa, capace di influire in termini positivi a quel progetto?.

Questa estate a fronte delle vicende lombarde e congressuali della CGIL, Rossana Rossanda ci ricordava su Il Manifesto come la "CGIL è di tutti".

Non credo fosse un richiamo solo al fatto che siamo di fronte con i suoi oltre 5milioni di iscritti, alla più grande organizzazione con base sociale di massa, ma molto di più.

Un richiamo cioè alla sua storia fatta di scelte generali impegnative, di costruzione di lotte che hanno puntato allo sviluppo economico, sociale e democratico del paese, di capacità di alleanze e consenso di massa oltre i suoi diretti rappresentati.

Un richiamo alla sinistra ed in particolare a noi per il recupero di quel patrimonio sociale e di lotte.

Come non vedere ad esempio che quella nostra appartenenza di massa di cui ha parlato Rocchi su questo giornale ed i consensi ottenuti nelle recenti elezioni delle RSU in diversi settori, non siano l'identificazione con quel patrimonio, un potenziale di lotta quindi per il suo recupero sul quale investire e comprometterci fino in fondo?

Nella CGIL ci sono le risorse intellettuali, uomini e donne che possono con efficacia riproporre con orgoglio la "parzialità" degli interessi del mondo del lavoro, ma occorre uno sforzo e un'azione all'altezza della situazione.

Primi segnali di questa consapevolezza sono rintracciabili nella riaggregazione di una sinistra sindacale che per troppo tempo è stata al proprio interno conflittuale e insofferente, tra l'altro vittima di azioni che non hanno sicuramente aiutato la ricerca di una progettualità autonoma.

Una "opportunità" che dovremmo sostenere con coraggio. Infatti, dove si è realizzata una azione "politica" dentro la CGIL, nel bene e nel male, la sinistra sindacale, ma anche quella che non ha ancora scelto ma che è molto attenta a quanto accade dentro la propria organizzazione e nel mondo del lavoro, è stata capace di segnare con sensibilità e misura la propria presenza sia sul territorio che in alcuni settori.

Così come occorre guardare anche ad altre realtà ed esperienze sindacali quando queste sanno esprimere vere rappresentanze, seppure locali o di settore, ma anche in questi casi la nostra presenza ed azione deve tendere a costruire veri obiettivi di classe, nell'interesse di tutti i lavoratori e del cambiamento generale richiesto anche per la difesa del servizio pubblico che impone prima di tutto la costruzione del rapporto con gli utenti per il suo miglioramento, una maggiore efficienza ed efficacia, pena incoraggiarne le spinte più corporative.

E, in ogni caso anche laddove le politiche sindacali concertative hanno fatto più danni, una forza come la nostra che punta al cambiamento, non può ritenere esauriti gli spazi del proprio impegno di lotta. Semmai si tratta di rafforzarlo!.

Tutti affermano che siamo in una fase di transizione che modifica il ruolo storico di molti soggetti sociali e istituzionali, probabilmente è anche vero, ma questo non può e non deve impedirci di chiedere a questi soggetti, ma soprattutto a noi stessi, una iniziativa capace di ricostruire un progetto che sappia "riannodare stato sociale e sviluppo economico".

Danilo Aluvisetti
responsabile dipartimento politiche economiche e del lavoro del PRC
Vimercate, 10 gennaio 2001