Che paese sta diventando questo? Un grande nord-est, competitivo solo sul prezzo dentro un apparato di nanoimprese che ha il fiato corto

Industria italiana al tramonto

I vertici di Fiat Auto cambiano, gli esuberi restano. E l'unica proposta che tuttora regge il campo, proponendosi (essa) di salvare l'auto (e progettare un'altra auto) e, insieme, gli operai, è quella dell'intervento pubblico, inteso come controllo della proprietà e piano industriale fondato sull'innovazione. E' quella che abbiamo semplicemente definito come "la nazionalizzazione della Fiat auto". Oggi più che mai attualissima.

Se gli esuberi restano, perché i vertici cambiano? Le letture sono molteplici in una situazione complessa. Sarà per il pressing delle banche su Fiat, che è esposta verso di loro con uno spaventoso indebitamento. Sarà per la pressione, interessata, del Presidente del Consiglio che garantisce sì ecoincentivi a Fiat ma, forse, insegue uno scambio con l'ingresso di suoi uomini nella holding che controlla la prestigiosa testata del Corriere della Sera.

Sarà perché, ancora forse, i giochi sull'auto italiana non sono del tutto chiusi e pare prendere corpo l'idea di una scomposizione di Fiat in due aree: l'una dell'auto ad alto standing - da Ferrari all'Alfa, da Lancia a Maserati - cui guarderebbe con grande interesse Volkswagen (con buona pace di questi antistatalisti che rifiuterebbero l'intervento pubblico italiano per poi acconsentire a quello pubblico del Lander della Bassa Sassonia, che controlla Volkswagen!); l'altra area, per vetture economiche, che vedrebbe interessati quegli stabilimenti del Sud che acquisterebbe GM, il vero testimone di pietra a quegli incontri Fiat-Governo, ma a prezzo di favore (è tale l'indebitamento che Fiat, e non è un paradosso, deve pagare per essere comperata), per collocarvi gli assemblaggi della controllata Opel, scaricando su quelle fabbriche, ridotte a stabilimenti cacciavite, le proprie eccedenze europee. Trattati come una discarica industriale.

La situazione è in movimento. Resta però bloccata sugli esuberi. Riparta perciò la lotta: il 12 a Milano, il 13 a Torino. Si riapra un negoziato che si proponga di riaprire tutti i siti produttivi. Fondamentale resistere. È bene però fare il quadro di tutta la vicenda Fiat collocandola nello stato dell'industria e quindi dell'economia italiana.

Tre gravi errori

Come si è arrivati a questo punto e dove vanno la Fiat e l'economia italiana? La Fiat, dopo i 100 anni celebrati con gran clamore, esce dall'auto in ragione della combinazione di tre gravi errori: l'approccio sbagliato all'innovazione di processo con il fallimento della fabbrica integrata, la filosofiat di Melfi, la fabbrica senza operai (il robot non sciopera, è vero, non si ammala, non si iscrive né alla Fiom né al Cobas, ma fa cattive automobili e il cliente guarda altrove); l'errata individuazione dei mercati, perché quando l'Europa chiedeva la vettura di cilindrata medio-alta, che Fiat aveva in catalogo, l'azienda, con Cantarella al volante, andava controcorrente in Argentina, pensate, e Brasile per provare a riprodurvi l'operazione della 600, la vetturetta italiana degli anni '60; la mancata innovazione di prodotto, perché mentre tutti i grandi produttori cercano, nell'idrogeno, la svolta rispetto al motore a scoppio, la Fiat è al palo, esce dal mercato, e l'idrogeno sarà la rivoluzione, si pensi che quel motore sarà contenuto in soli 20 cm cubici!

A questo punto, e malgrado raffiche di incentivi a pioggia, 10.000 miliardi di lire nei soli ultimi 10 anni che Fiat ha trasferito direttamente in dividendi indebitandosi senza investire, la proprietà passa la mano e pensa di uscire dall'auto. Agli stabilimenti Fiat guarda allora GM, che già possiede il 20% del pacchetto azionario con un'opzione sul resto esercitabile nel 2004, che ha un suo piano che, si badi, si può leggere in filigrana in quell'accordo sciagurato.

Il piano GM ha tre obiettivi, semplici semplici: acquisire la rete commerciale e i marchi Fiat; usare gli stabilimenti come montaggio di prodotti Opel; smontare invece tutti i centri di progettazione e design e spostarli a Detroit. Il piano GM schiaccia perciò il lavoro operaio (residuo) su funzioni povere ed esporta il sapere ingegneristico. Un patrimonio secolare gettato al vento. Gm farà con Fiat, insomma, quel che già fece con Daewoo e, per legge del contrappasso, farà con Fiat quel che Fiat fece con Alfa, Lancia, Innocenti, Maserati, Autobianchi. È chiaro che dobbiamo impedirlo.

Fiat esce dall'auto come le grandi famiglie, in Italia, escono dalle loro originarie ragioni di scambio, dal loro "core business". Se guardiamo infatti all'Italia industriale di soli 10 anni fa, vi ravvisiamo 4 grandi gruppi industriali: Cir Olivetti, che De Benedetti vende agli americani; Pirelli, che in Italia si è ridotta al commercio e a pochi stabilimenti; Ferfin Montedison e, appunto, IFI Fiat. Cosa resta oggi in Italia? Poco o nulla e, quel poco non competitivo.

L'annuale analisi dei bilanci aziendali 2001, prodotta dall'Ufficio Studi di Mediobanca (Il Sole 24 ore del 24 ottobre 2002), rappresenta con grande efficacia "lo stato dell'arte" dell'impresa italiana, in cui appaiono: i risultati fortemente negativi di IFI Fiat e del poco che resta di Olivetti e di una Montedison, che ha cambiato pelle dopo la scalata di Italenergia; appare il calo degli utili di Pirelli, che paga però la caduta del mercato cavi, e di Riva, il padrone delle ferriere, che non vuole innovare in siderurgia, perché l'innovazione costa (il caso Ilva di Taranto è esplosivo) pur avendo (Riva) ottenuto le fabbriche, già a partecipazione statale, pressoché in regalo, più o meno come Fiat ebbe l'Alfa nel 1987. Di converso, le aziende tuttora a maggioranza statale, Enel ed Eni e il monopolio FS, aumentano gli utili. C'è di più: a livello minore avanzano a passo da gigante le utilities pubbliche, Acea di Roma e Aem di Milano, che sono in condizioni, oltreché di comperare cash la distribuzione metropolitana Enel, anche di entrare in possesso delle centrali di produzioni che, con le Genco, l'Enel stessa ha messo all'asta trascinando con loro, nelle cordate in scalata, anche i padroni (Falck e Agnelli) che scappano, dalla siderurgia l'uno, e dall'auto l'altro, con le casseforti di famiglia ben strette s'intende. Sintesi: il pubblico vince, il privato perde e se anche la Fiat punta sul pubblico, perché non provare a rendere pubblica (e quindi nazionalizzare) la Fiat stessa?

Avventurieri in fuga

La conferma che il privato perde competitività viene dalla classifica mondiale 2002, prodotta dalla prestigiosa IMD di Losanna, presentata a Milano il 27 novembre 2002. Questo rapporto, con grande nettezza, ci spiega che, quella che in Italia è considerata una ricca specificità, ossia il tessuto della piccola e micro impresa che contribuisce a oltre l'80% del Pil, è invece un fattore di freno e di ritardo. Conta la dimensione, dice IMD, la massa critica per competere e per reggere sul mercato con l'innovazione, la ricerca, la qualità (che sono i driver per la competitività). Non si regge con la sola competizione di prezzo della piccola impresa, non si regge, insomma, con il modello del Nord-est. Ci spiega la IMD ed aggiunge che l'Italia spende troppo poco in ricerca e sviluppo e si merita, per l'appunto, la classifica che la colloca al 32° posto, proprio per la scarsa propensione all'innovazione tecnologica e i rapporti insufficienti tra Università e industria. Quello italiano è un capitalismo ingessato, a detta degli osservatori del mercato ma anche un capitalismo fatto di avventurieri in fuga. Questa è la verità.

Fuggono dal mercato globale e liberalizzato, e riparano, in Italia, in tre direzioni: nelle pubbliche utilities tuttora a cliente garantito (Fiat ad esempio con il decreto sblocca centrali e con il DL 3297 passerà dall'auto al mercato tuttora protetto dell'energia a braccetto con Aem e la nazionalizzata francese EdF), nella speculazione sulle aree dismesse, nei servizi privatizzati, come la sanità che, con la devolution, andrà in offerta al privato che sfugge dal mercato. Insomma, oggi, 100 anni di lavoro industriale e 150 anni di Stato nazionale e sociale, si spappolano contemporaneamente. La devolution è una doppia dissoluzione.

Cosa resta in Italia? Vediamolo sulle esportazioni: esportiamo la moda, ove Armani regge alla grande ma la Cina si avvicina; esportiamo design ed arredamento; esportiamo armi. Cosa importiamo? Tutto il resto, dal petrolio alla carne. Che paese sta diventando questo? Per davvero un grande nord-est, competitivo solo sul prezzo dentro un apparato di nanoimprese (l'economia dei distretti) che ha il fiato corto perché il mercato vuole quell'innovazione di cui la piccola e micro impresa non riescono a dotarsi e, solo sulla competizione di prezzo, l'Est si avvicina al galoppo. E, in questo paese, si pensa di privatizzare anche settori, come la navalmeccanica dentro l'economia del mare, sui quali invece dovremmo programmare e specializzarci.

La piccola imprenditoria è dinamica ma senza futuro. La grande imprenditoria è in fuga e regge mangiando ogni giorno un po' di industria, un po' di Stato Sociale. E questo disegna un Paese di microimprese, di venditori, di consumatori, in una economia non autonoma ma in condizione di sudditanza nei confronti di quelle realtà che si sono guardate bene dal privarsi del loro cuore industriale pesante - dall'auto all'elettromeccanica - e lo hanno innovato.

Effetto "domino"

L'Italia, in economia e non solo, è un paese collocato in serie C, e non è detto che ci resti. In questo quadro fosco, secondo una stima Cgil, sono a rischio 300mila posti strutturali nei prossimi 6 mesi. Fiat in contrazione, e il suo indotto, determineranno, questo è certo, un negativo effetto alone in cui calcheranno la mano, già lo si sta facendo, le proprietà di: Marconi, Cirio, Benetton, Marzotto, Enichem, ancora Pirelli. Che sono i nomi più noti dei settori più colpiti in campo meccanico, tessile, agroalimentare, delle costruzioni. E ogni grande nome, nel suo crack, ne travolge altri 10/20 minori. Un devastante effetto "domino". Nessuna impresa è un'isola. E da tutte le parti sale quel che si chiedeva alla Fiat: una trattativa seria. Sintesi: in Italia mancano le strategie industriali, il Patto per l'Italia non funziona, la Finanziaria men che meno, le deleghe sul mercato del lavoro neppure.

Bisogna ritornare alla programmazione perché si definiscano piani di settore - auto, informatica ed elettronica, chimica e farmaceutica, telecomunicazioni, alimentari, tessile, moda, edilizia, trasporti, energia, scuola, formazione - con interventi e risorse, piano per piano, sulla ricerca e sulla innovazione. O li strappiamo, e questo è già un elemento del progetto di trasformazione che ci chiede Firenze, o siamo ai licenziamenti di massa.

Fiat insomma non è un caso isolato. Il caso Marconi si riconduce alla stessa causa: carenza d'innovazione, di ricerca, di creatività. E quando non si va su questo terreno si scelgono i manager senza creatività, Yes man "usi ad obbedire tacendo". Un riscontro curioso: ai corsi che organizza tuttora Bocconi SDA per dirigenti, quelli Fiat si classificano sempre tra gli ultimi. Perché? Sono selezionati per non pensare. Il risultato è poi questo, anche se il difetto non sta nel selezionato ma nel selezionatore: la dinastia di Corso Marconi. Loro sono i bocciati. Se questo è il quadro resistere si impone. Ce la possiamo fare? La domanda è sbagliata. Quella giusta è: abbiamo alternative?

Bruno Casati
Milano, 11 dicembre 2002
da "Liberazione"