La Nato si trasforma per sostenere le future sfide globali degli Usa

Nuova alleanza, vecchie servitù

A poco sono valsi i segnali di apertura lanciati dal governo irakeno. Le oltre 12 mila pagine del dossier di Baghdad, acquisite prima dalla Cia e poi dall'Onu, sono state ritenute da Bush alla stregua di carta straccia. La macchina bellica procede sulla sua strada e, a meno che un movimento mondiale per la pace non riesca a bloccarne gli ingranaggi, sembra difficile prevedere per il primo scorcio del 2003 uno scenario diverso da quello della guerra.

Una minaccia globale

Gli Usa non scartano a priori nessun mezzo nella loro personale crociata contro il terrorismo. Neanche il ricorso alle armi di sterminio. Fa raggelare il sangue il contenuto del documento recentemente diffuso dalla Casa Bianca, sei pagine stringate per ribadire che gli Usa «si riservano il diritto di rispondere con una forza schiacciante, incluso il ricorso a tutte le opzioni, all'uso di armi di distruzione di massa contro il loro territorio, le loro forze all'estero e i loro amici e alleati». Dove per "tutte le opzioni" s'intende esplicitamente una «risposta convenzionale e nucleare». E non è tutto: gli Stati Uniti, secondo quanto rivelato dal quotidiano Usa Today, si dicono pronti a rispolverare altri "vecchi" ma micidiali strumenti di morte, messi al bando da 146 paesi, membri della Nato compresi (fatta eccezione per la Turchia e gli Stati Uniti), le mine anti-uomo, responsabili ogni anno della morte di almeno 20 mila civili, perlopiù bambini. Un crescendo di barbarie che ormai sta aprendo gli occhi anche ai settori più restii dell'opinione pubblica mondiale; che indica sotto quale bandiera si nasconde «il principale nemico della pace», per dirla come il premio Nobel Nelson Mandela.

La nuova alleanza

Gli Usa sono una superpotenza che rischia, nel giro di poco più di 20 anni, di volgere verso il crepuscolo. Pesantemente indebitata, a secco di risorse energetiche, con un'economia che stenta a risalire la china e a reggere la concorrenza dei blocchi e degli stati emergenti, vede nella "guerra permanente" l'unico appiglio per tutelare i "supremi interessi nazionali". L'attuale governo americano è disposto a portare il mondo sull'orlo dell'autodistruzione, pur di garantire alle sue classi dominanti i privilegi conseguiti in un secolo di scorribande. E per farlo ha bisogno di un "braccio armato" obbediente, flessibile, libero dai "lacci e laccioli" del diritto internazionale, pronto a entrare in azione ovunque e in tempi celeri. Una nuova Nato adeguata alle future sfide globali, «più simile a un'organizzazione collettiva per la sicurezza come le Nazioni Unite che a un'alleanza tradizionale», ha dichiarato Henry Kissinger. «Un'alleanza definisce un casus belli, una linea divisoria, una specifica serie di obblighi. Presuppone una minaccia non ambigua. Le organizzazioni collettive per la sicurezza - l'ex segretario di Stato Usa chiarisce il suo pensiero - invece definiscono la minaccia volta per volta e negoziano le modalità di resistenza alla luce degli eventi». Il disegno che gli Stati Uniti hanno in mente è di un'Alleanza Atlantica alternativa, se non apertamente contrapposta, all'Onu e che tenti di sostituirsi gradualmente ad essa. Un antidoto che mira ad arginare anche certe pulsioni che si cominciano ad avvertire nel vecchio continente, in quell'Europa «che va verso la neutralità (…) e cerca di proteggere la propria sicurezza sostituendo con il multilateralismo le responsabilità di un'alleanza».

Praga, la "svolta"

Questa nuova Nato reputa obsoleti gli stessi articoli fondanti del patto, che formalmente ne sancivano il carattere "difensivo" contro un'improbabile aggressione da parte dei paesi dell'ex Patto di Varsavia. Il primo punto, per esempio, impegnava i paesi contraenti «ad astenersi nelle loro relazioni internazionali dal ricorrere alla minaccia od all'impiego della forza», mentre nel secondo ciascuno dei firmatari dichiarava di voler «contribuire allo sviluppo delle relazioni internazionali pacifiche e amichevoli». La storia c'insegna che questi buoni propositi sono rimasti solo sulla carta, ma è indicativo che la superpotenza Usa ora intenda disfarsi anche di tali impegni simbolici.

Praga è stata, almeno ufficialmente il trampolino di lancio della Nato post-lifting. Durante il vertice svoltosi nella capitale Ceca a fine novembre, lo stesso che ha sancito l'allargamento ad est e l'ingresso di 7 paesi ex membri del Patto di Varsavia, è stato approvato un pacchetto di misure volte a «rafforzare la capacità di affrontare le sfide alla sicurezza delle nostre forze armate, popolazioni e territori». Il nemico è quello già noto, «il terrorismo in tutte le sue manifestazioni», contro il quale la risposta della Nato sarà «ampia e a mille facce», non escludendo - come afferma ancora Kissinger - «uno scontro tra civiltà, (…) con un Islam che fa crociate radicali». Si fanno, inoltre, sempre più forti le pressioni per un ulteriore sfondamento sul fronte orientale, in direzione Mosca, con minacce palesi a quegli stati restii a cedere all'abbraccio travolgente della Nato, in primis la Bielorussia e la Moldova, oggetto di un clima di criminalizzazione per certi versi simile a quello che ha investito Belgrado prima del 1999.

Assunta la logica della guerra preventiva, tra i progetti che sono stati approvati dai 19 membri, spicca la costituzione di una "Forza di reazione rapida", dotata di 21mila uomini ed equipaggiamenti d'avanguardia, i cui primi elementi dovranno essere operativi già nell'autunno del 2004, mentre la piena capacità operativa è prevista per l'ottobre del 2006. Sarà un contingente con elementi scelti della marina, dell'esercito e dell'aeronautica, capace di mutare faccia a seconda del tipo di "minaccia" da affrontare.

Se nel documento conclusivo del vertice non mancano passaggi sul rispetto delle diversità esistenti dentro l'Alleanza, anche per via delle posizioni assunte da Francia e Germania, solo degli stolti potrebbero scommettere un centesimo su questo apparente pluralismo. A mettere le mani avanti è il segretario generale Robertson, secondo il quale è fuori di dubbio che «la Nato ha l'obbligo morale di sostenere gli Stati Uniti».

La Nato e l'Italia

Scontata l'adesione entusiastica del governo Berlusconi alla linea sancita a Praga. L'Italia farà la sua parte. Anzi, la faranno come sempre i lavoratori e i contribuenti italiani, visto che questo impegno richiede l'aggiornamento continuo degli armamenti, la formazione di truppe specializzate, l'aumento delle capacità di guerra elettronica dei nostri jet militari e, non ultima, l'istituzione - entro e non oltre il biennio 2007-2008 - di tre brigate (in tutto diecimila "rambo" tricolori) pronte per nuove avventure belliche in suolo straniero. Milioni di euro che permetteranno di elevare quell'1,9% del prodotto nazionale lordo investito dall'Italia per la "difesa", con tanto di plausi della nostrana lobby delle armi.

Anche l'idea della guerra preventiva calza a pennello a Berlusconi. Parlando del possibile intervento in Irak, il presidente del Consiglio ha fatto sapere che le sue posizioni non si discostano da quelle di Gorge W. Bush, perfino sulla possibilità di scavalcare l'Onu: «In caso di soluzione non pacifica, l'ipotesi è che la risposta potrebbe essere data dall'Alleanza Atlantica stessa». Su questa scia si collocano pure le dichiarazioni del ministro della Difesa Antonio Martino, disponibile a «mettere a disposizione basi e spazi aerei per un sostegno diretto in un eventuale attacco», e quelle ben più esplicite del presidente della Commissione Esteri della Camera, Gustavo Selva di An, secondo cui, «la guerra all'Irak non comporta un problema morale. La terza guerra mondiale è necessaria per occidentalizzare il terzo e quarto mondo».

L'Italia, come ai tempi della prima guerra del Golfo, rischia di trasformarsi suo malgrado in un'enorme portaerei. Il suo territorio, in seguito all'accordo stipulato il 4 aprile del 1949 da De Gasperi (dopo aver assicurato alle Camere, mentendo, che «nessuno ci ha mai chiesto basi militari e, d'altra parte, non è nello spirito del Patto Atlantico, di pura assistenza tra stati liberi e sovrani, di chiederle o concederle»), è disseminato di una sessantina di istallazioni Usa e Nato di ogni tipo. Migliaia e migliaia di ettari "off-limits", da Lampedusa ad Aviano passando per Camp Derby, sottratti alla sovranità italiana e che fanno della Penisola una groviera sottoposta a pesanti servitù militari.

Il pericolo di essere coinvolti in prima linea in una guerra "non convenzionale" è concreto. Basta dire che in Italia, nella base di Ghedi presso Brescia, si trova un munitions support squadron per la conservazione delle testate nucleari, e che a Vicenza è operativa la Setaf (Support European Task Force), avente come missione il supporto aerotattico alle unità nucleari missilistiche terrestri.

Le basi in Sardegna

Un caso limite è quello della Sardegna. L'isola, collocata strategicamente proprio nel cuore del Mediterraneo, da mezzo secolo a questa parte ha sempre fatto gola all'imperialismo d'oltreoceano. Dagli anni cinquanta è stata teatro di centinaia di esercitazioni, sperimentazioni di nuovi sistemi d'arma e guerre simulate. Oggi in questa regione il demanio militare Usa-Nato ammonta a 24 mila ettari, contro i 16 mila occupati nell'intero Stivale, cui vanno aggiunti spazi aerei e navali di vastità incalcolabile. Anche sul popolo sardo incombe la minaccia nucleare, già in tempo di "pace". Nell'arcipelago della Maddalena è presente, sin dal 1972, una base della Marina americana per sottomarini a propulsione atomica, che ora sta per essere ulteriormente potenziata. Si parla dell'arrivo di sei nuovi lanciamissili e di altri cinque-seimila soldati. C'è poi il poligono di Capo Teulada, prescelto nel 2000 dalla Seconda Flotta Usa per effettuare gli esercizi di bombardamento che, dall'anno precedente, non può più svolgere sull'isola di Viequies (Portorico) grazie alla resistenza della popolazione locale, decimata dall'uso massiccio nella zona di uranio impoverito.

Ma forse la situazione più emblematica è quella del poligono interforze di Salto di Quirra, il più esteso d'Europa con i suoi 13 mila ettari di terra occupata e un tratto di mare annesso che supera i 2.840.000 ettari. E' utilizzato, oltre che per attività addestrative della Nato, anche da diverse multinazionali - tra queste Alenia, Fiat, Dalmine e Melara - per sperimentare e collaudare nuove tecnologie belliche. In questi anni sono aumentati esponenzialmente i casi di tumore e leucemia nelle adiacenze del poligono: come denuncia il coordinamento "Gettiamo le basi", solo a Quirra, paesino di 150 anime, dodici persone sono state affette da tumori al sistema emolinfatico, mentre a Escalaplano - 2.600 abitanti - sono stati segnalati quattordici casi di tumore alla tiroide, 12 bambini nati con malformazioni genetiche e diversi casi di aborti.

Ma la lotta per la pace cresce. Il terreno è più fertile che mai. Nei mesi scorsi ci sono state l'immensa manifestazione di Firenze in occasione del Forum sociale europeo, le "cento piazze della pace" di Emergency, un numero impressionante di presidi, cortei e assemblee su tutto il territorio nazionale, appelli e petizioni da parte di eminenti personalità della cultura, della scienza e dello spettacolo, di importanti esponenti della chiesa italiana e inglese. Sono un ottimo punto di partenza, a testimonianza che settori ampi della nostra popolazione non vogliono più essere complici dei guerrafondai americani e chiedono una politica estera di pace e neutralità. Fermenti positivi si avvertono anche tra le forze sindacali (Cgil) e nella Sinistra Ds, dove prevale la linea del rifiuto della guerra "senza se e senza ma". Anche in settori moderati dell'Ulivo e dei centristi crescono le perplessità su questa guerra. Abbiamo dunque buone opportunità per costruire in tutte le città comitati unitari per la pace pronti a chiedere, non appena dovesse partire l'attacco all'Iraq, che venga immediatamente indetto uno sciopero generale europeo per la pace. Non c'è un minuto da perdere.

Claudio Grassi
Roma, 11 gennaio 2003
da "Liberazione"