Quando nel 1911 operai, socialisti e anarchici bloccarono i treni dei soldati mandati a "conquistare" la Libia.

Fermate la tradotta che parte per Tripoli

E quando alzarono barricate contro la Grande Guerra

«Il 24 ottobre chiamato alle armi. Giunto il 27 nell'Ottavo Reggimento Alpini Battaglione Tolmezzo. Partito per la Tripolitania e Cirenaica e imbarcatosi a Napoli il 28 settembre 1912». E' il foglio di matricola di un alpino della Carnia, di nome Silvio Ortis, tragicamente destinato ad essere fucilato, per disobbedienza in faccia la nemico, il 1 luglio 1916, nemmeno un anno dopo l'entrata dell'Italia nella Prima Guerra mondiale. Successe esattamente così. Gli alpini, proprio loro, vennero spediti alla conquista dello "scatolone di sabbia" chiamato Libia.

Nato dal colpo di genio del capitano di sua maestà Perrucchetti e costituito con regio decreto il 15 ottobre 1872, quello degli alpini è concepito come un corpo di soldati destinati ad operare dovunque ci siano zone montane da difendere o attaccare; soldati all'uopo reclutati tra i giovani delle valli alpine e delle altre regioni montuose, e scelti sulla base di selezioni attitudinali. Ma ancorché costituito da alpini, il corpo è considerato in tutto e per tutto come una forza di fanteria speciale. Ed è così che, ancorché alpini, questi soldati montanari vengono spediti a combattere quella guerra libica (settembre 1911 - ottobre 1912) che ha il suo posto d'onore nell'albo delle canagliesche aggressioni che va sotto il nome di imperialismo straccione made Italy.

Le gesta di Caneva, Graziani e soci sono ben narrate, tra gli altri, da Angelo Del Boca (Gli italiani in Libia - Tripoli bel suol d'amore, Laterza 1986); ma è importante ricordare il contesto nel quale si svolge la conquista della "colonia", governo Giolitti imperante. Le spese militari che nel 1906 sono del 16,5 per cento, arrivano a 20 nel 1910, a 23 nell'11, a 30 nel ‘12. Oltre a tale feroce salasso, al momento della proditoria spedizione, in Italia si registrano i prezzi dei generi alimentari più alti e i salari operai più bassi di tutta Europa. Talmente impossibile la vita per operai e contadini che, proprio a ridosso della avventura libica, si registra l'apice di quella emigrazione di massa che vede fuggire dall'Italia soprattutto i contadini meridionali (ma non solo). Del resto i diciotto volumi dell'inchiesta parlamentare sulle condizioni di vita sono lì a documentare drammaticamente come vive il Paese in vastissime zone rurali (denutrizione, malaria, pellagra, tuguri come abitazioni, oltre metà della popolazione analfabeta, bambini che lavorano già a nove anni).

E' da questa Italia disperata, tra gli strati più umili del popolo, braccianti e operai in miseria, che lo Stato mobilita per la sporca guerra («deliberatamente decisa all'inizio di una vacanza parlamentare di sette mesi e mezzo») non 20 mila uomini come gli stati maggiori pensavano all'inizio, ma ben più di 100 mila, esseri umani da scaraventare a combattere nel deserto, vera carne da cannone a costo zero.

Ci furono anche allora i maledetti cantori delle balde legioni, «D'Annunzio - scrive Denis Mack Smith (Storia d'Italia 1861-1969, Laterza) si lasciò andare con la sua consueta enfasi a torrenti di poesia patriottica; nella Nave il suo tema principale fu l'imperialismo e la missione dell'uomo bianco. Egli venne subito imitato da numerosi poetastri isterici, come Marinetti; nazionalistici mistici come Corradini promisero imprudentemente che la Libia sarebbe caduta senza che fosse necessario sparare un sol colpo...». In appoggio alla guerra libica intervennero la giolittiana Stampa e il Corriere della Sera, portavoce dei liberali di tendenze più conservatrici». In sostanza i fautori della guerra «si trovavano ormai nel loro elemento e cominciarono a bastonare i loro avversari per le strade, a volte senza che la polizia di Giolitti si preoccupasse di intervenire».

Forlì si ribella

E' così. I Disobbedienti non ci sono ancora. Ma gli avversari dei guerrafondai - operai, socialisti, anarchici - quelli sì, in quel settembre 1911, ci sono. In campo. Per le strade, come oggi.

Il congresso di Modena del Partito socialista si dichiara contro l'intervento, Turati scrive che si tratta di una pura e semplice guerra d'aggressione; tuttavvia i socialisti sono divisi, si schierano per la "maschia" prova e gli "interessi vitali della patria" Bissolati e Bonomi, e Ferri, e Labriola e Olivetti (tanto per citare).

La situazione a sinistra dunque non è né limpida né facile, ma l'agitazione di piazza c'è ugualmente. Scrive sempre Mack Smith: «L'opinione pubblica di sinistra era chiaramente ostile alla guerra ed in alcuni casi i richiamati, che avrebbero dovuto andare a combatterla, si ammutinarono o divelsero i binari ferroviari per arrestare il movimento delle truppe».

La direzione socialista, che il 25 settembre è riunita a Bologna, si conclude con l'invito allo sciopero generale contro la guerra libica: ha dovuto infatti «prendere atto di un moto che si è spontaneamente manifestato in alcune province emiliane e ha deciso di assecondarlo nella convinzione che esso stesse per divenire nazionale», (Sergio Romano, La Quarta sponda, Bompiani, 1977).

Il moto spontaneo parte da Forlì il 24 settembre. A un comizio indetto dalla federazione autonoma forlivese con l'adesione della Camera del lavoro, parla il segretario Umberto Bianchi (insieme al ventottenne, allora socialrivoluzionario, Benito Mussolini); il giorno dopo è la volta di un comizio dei repubblicani dove prende la parola Nenni, interrotto dalla cariche della polizia. E subito dopo le Camere del lavoro proclamano lo sciopero provinciale.

Il 25 e il 26 sono due giornale calde. «Durante la notte i dimostranti avevano divelto i binari della tranvia Forlì-Meldola e nelle prime ore del mattino avevano invaso uno zuccherificio», allo scopo di consentire agli operai di partecipare allo sciopero.

Gli scontri sono fortissimi, Giolitti manda in campo polizia ed esercito. Per protesta contro la repressione, nel pomeriggio è indetto un comizio a cui partecipano, secondo "Lotta di classe", 12 mila persone(per il prefetto saranno solo 4mila).

Non solo Forlì e provincia. «A Piombino cinque operai vengono feriti in uno scontro con i carabinieri; a Milano scoppiano tafferugli tra studenti favorevoli alla guerra ed operai: con la polizia che sta a guardare gli operai aggrediti e bastonati; anzi, invece di difenderli, ne arresta una parte. Il comizio di Firenze venne addirittura proibito dalla questura per motivi di ordine pubblico» (Paolo Maltese, La terra promessa, Mondadori, 1976).

Le manifestazioni sono massicce soprattutto nelle Romagne, dove si protraggono per più giorni; ma anche nelle altre regioni non si è fermi e ovunque incontrano una dura repressione. La protesta popolare è però destinata a durare ancora per poco. Infatti presto i comizi saranno proibiti d'autorità.

Lo stesso sciopero generale, indetto il giorno 27 dalla Confederazione Generale del Lavoro, in molte parti d'Italia si svolge in un clima pesante. «Soprattutto a Milano, dove la truppa impedisce il proseguimento della manifestazione e arresta trenta persone, insieme agli stessi rappresentanrti socialisti Paolo Valera, Corridoni e Ciardi, accusati, di avere, "durante le note manifestazioni antipatriottiche, in un comizio pubblico alla casa del Popolo, eccitato i presenti alla rivolta e al vilipendio delle istituzioni"».

Lo sciopero non dappertutto riesce; scarse le adesioni a Genova, Roma, Napoli e in generale nel Meridione. E' invece imponente a Forlì e provincia, dove prendono la parola esponenti sindacali e politici. «Proprio in questo giorno arriva alla stazione della città un treno carico di richiamati dal distretto di zona; allontanandosi dal comizio, allora, tremila dimostranti, sotto la guida di Nenni, tentano di impedire la presentazione al distretto di questi richiamati, collocando sbarramenti sulle rotaie». Solo l'intervento della truppa e della cavalleria riesce a interrompere la manifestazione. Per i fatti di Forlì il 14 ottobre Nenni, Mussolini e Aurelio Lolli saranno arrestati.

Sono proteste "eroiche" in una Italia come quella d'allora, un Paese che «conta 1364 comuni senza acqua potabile, 4877 senza fogne, 1700 in cui non si mangia pane, 4355 in cui non si mangia carne, 600 senza medici, 366 senza cimiteri, 154 distretti malarici, 100.000 abitanti colpiti da pellagra e 200.000 trogloditi».

Così commenterà il Corriere della Sera: «Ieri finalmente il Partito socialista ha fatto la sua protesta, diciamo così, solenne contro l'impresa di Tripoli. Molti comizi si sono tenuti e molti paroloni si sono gettati alle turbe. Tutte le grame argomentazioni, che hanno affaticato da qualche settimana gli imbarazzati dialettici del partito sono state riversate alle moltitudini ignoranti che nulla intendono della politica estera del loro Paese e giurano sulla scienza enfatica dei loro capi» (già, la Storia si ripete, basta vedere certi titoli, certe dichiarazioni autorevoli, comprese quelle di Enrico Boselli, addì 2003,)...

Quei convogli per Adua

La Libia era la seconda volta dell'Italia in Africa. La prima fu in Etiopia, con annesso disastro di Adua dove, nel 1896, l'ex garibaldino generale Baratieri, in una catastrofica battaglia contro gli uomini di Menelik, conduce alla morte 6000 soldati («in quell'unico giorno gli italiani perdettero un maggior numero di vite umane che in tutte le guerre del Risorgimento messe insieme»).

Ma anche questa impresa coloniale, fortissimamente voluta da Crispi, non passa senza proteste popolari. Il Partito dei Lavoratori è nato appena quattro anni prima, il 14 agosto 1892, e l'anno successivo a Reggio Emilia si trasforma in Partito socialista. Quella che avviene, è praticamente una sollevazione spontanea. «Quale fosse il sentimento popolare - scrive Mack Smith - si era visto quando i binari ferroviari erano stati divelti per impedire ulteriori imbarchi di truppe. Si erano udite grida di "viva Menelik" e il sindaco di Milano aveva pubblicamente chiesto al governo di abbandonare un'impresa che così grave danno arrecava al buon nome dell'Italia».

Contro la Grande Guerra

E' però nel 1914-15, quando l'Italia si prepara ad entrare nel secondo conflitto mondiale - contro l'Austria, a fianco di Francia e Inghilterra - che esplodono violente manifestazioni di piazza contro la guerra. Giolitti è, questa volta, contrario all'intervento; i socialisti sono più che mai divisi tra interventisti e neutralisti, impera la sciagurata parola d'ordine "né aderire né sabotare", Mussolini ha cambiato casacca, ora è fervente fautore dell'intervento, ha fondato un nuovo giornale decisamente guerrafondaio (Il Popolo d'Italia) ed è stato espulso dal partito. Intanto il "piccolo re" (Vittorio Emanuele III) ordina la mobilitazione «prima ancora che il parlamento fosse consultato su questo radicale rovesciamento della politica estera». La guerra è dichiarata il 23 maggio, ed il 24 l'esercito è in marcia.

Un grande sciopero contro la dichiarazione di guerra ha luogo a Torino, il Partito socialista lancia un appello che è sì contro l'intervento, ma non chiama i lavoratori alla mobilitazione. Malgrado ciò, la reazione popolare non viene meno. In parte nella forma spontanea della diserzione, specie tra i contadini; ma anche con numerose manifestazioni di piazza. La ribellione popolare esplode nel giugno 1914. Ad Ancona una dimostrazione contro la coscrizione obbligatoria provoca l'intervento a fuoco della polizia. In risposta è proclamato lo sciopero generale. Sono saccheggiati negozi, divelti binari ferroviari, svuotati magazzini e depositi militari, rimossi gli stemmi reali. Anche nelle Romagne i contadini sono in rivolta, in cima al comune di Bologna sventola la bandiera rossa, molte città si proclamano comuni indipendenti. Sono i giorni passati alla storia come "la settimana rossa", «una semirivoluzione molto simile - scrive Mack Smith - a quella del maggio 1898». Per domare questo fuoco - alimentato dal rifiuto della guerra, ma anche dalla esasperazione popolare per la disoccupazione, i salari di fame, il carovita - il governo deve inviare nelle provincie romagnole non meno di 100mila uomini tra polizia carabinieri esercito.

Il solito D'Annunzio peggiore, tornato dalla Francia dove si era rifugiato per sfuggire ai creditori, si fa vivo in tempo per cantare i fasti della nuova epopea guerresca, farneticando: «Voi volete un'Italia più grande, non per acquisto ma per conquisto, non a misura di vergogna, ma a prezzo di sangue e di gloria»...

Le proteste si accentuano nel 1917, quando più duramente si fanno sentire le conseguenze economiche di due anni di conflitto.

Manifestazioni di massa si hanno in numerose località, tra cui Roma, Milano, Carrara, Siena; una vera insurrezione scoppia a Torino nell'agosto del 1917. La città vede una partecipazione larghissima, striscioni, volantini e cartelli gridano "Giù i fucili", "Via dalle trincee", la lotta dilaga nelle strade, dove si erigono barricate. La reazione governativa è durissima, ci sono morti, migliaia i feriti e gli arrestati. Subito dopo Gramsci verrà chiamato a dirigere la sezione socialista di Torino.

La Grande Guerra non ci sarà risparmiata. Costerà complessivamente 9 milioni di morti e 6 milioni di feriti. L'Italia vi perde 600 mila uomini.

Maria Rosa Calderoni
Roma, 26 febbraio 2003
da "Liberazione"