Il senso della costruzione europea

I bivi dell’Europa

La Carta dei Diritti varata a Nizza un po’ più di un anno e mezzo ha un carattere regressivo rispetto alle carte costituzionali della totalità dei quindici paesi membri attuali, che infatti hanno carattere democratico...

1. In premessa

In Italia sotto alla patina dell’attitudine di larga maggioranza favorevole alla costruzione europea sta il dato materiale di larghi vuoti in fatto di cognizioni di causa, anche nel grosso degli operatori della politica e dell’informazione e degli accademici del diritto. Dato ancora più grave, perché inibente una capacità adeguata di intervento sostanziale, politico o sociale, rispetto alla costruzione europea, è l’attitudine del grosso degli operatori politici e dell’informazione ad affrontare i complicati problemi della costruzione europea attraverso l’esaltazione delle sue virtù salvifiche, quale che sia la direzione nella quale essa muove, e proclamando il raddoppio di tali virtù qualora essa assuma la forma di uno stato federale, in analogia, per esempio, agli Stati Uniti.

Un esempio del danno di questa mistica: che della Carta dei Diritti varata a Nizza un po’ più di un anno e mezzo fa viene sistematicamente smarrita la complessiva coloritura liberale, quindi il carattere regressivo rispetto alle carte costituzionali della totalità dei quindici paesi membri attuali, che infatti hanno carattere democratico: viene di conseguenza meno ogni capacità di fare delle carte costituzionali nazionali, alle quali le popolazioni sono legate, strumenti di battaglie per la correzione in senso antiliberista e in senso democratico di trattati, carte e accordi oggi orientanti la costruzione europea.

La Carta dei Diritti non a caso è invece in sintonia con le carte costituzionali iperliberiste dei paesi candidati dell’Europa centrale e del Baltico. Ai tempi in cui le carte dei paesi membri furono elaborate era socialmente dominante, classi capitalistiche ed establishment di governo compresi, un’idea di società che inglobava nella forma di diritti universali materialmente retti nonché gestiti dallo stato i risultati di un secolo di lotte di classe per obiettivi di welfare – per servizi sociali, occupazione, tutele del lavoro, tutele per le donne, ecc. Ai tempi, più recenti, in cui sono state elaborate sia le carte dei paesi candidati che la Carta di Nizza era invece dominante un’idea di società attraversata dall’obiettivo di un drastico ridimensionamento, più o meno celere, dei sistemi di welfare.

Perché carte costituzionali che impegnano gli stati a politiche di welfare sono qui definite democratiche; perché, quindi, carte costituzionali che tendono alla riduzione dei sistemi di welfare sono regressive anche sul terreno politico. Benché non manchino nella storia dell’Europa occidentale esperienze di sistemi di welfare creati o implementati da regimi fascisti (l’esempio più notevole è il nazismo), nella storia dell’Europa occidentale ciò che principalmente constatiamo è una sinergia assidua tra welfare e democrazia. Essi intanto nascono assieme e in stretta unità. All’inizio del 1883, era ancora in vita Marx, la lotta della classe operaia tedesca strappò allo stato il sostegno materiale ai lavoratori vittime di infortuni sul lavoro. Qualche mese dopo ci sarà la conquista delle pensioni. Ne verranno poi parecchie altre. Il Cancelliere Bismarck tenterà, unendo concessioni e repressione antisocialista, di ridurre la dimensione e l’impeto delle mobilitazioni di una classe operaia che veniva acquisendo una fiducia crescente nelle proprie forze, inoltre di ottenerne l’appoggio alla propria politica estera espansionista. L’effetto politico delle conquiste operaie in fatto di welfare sarà invece di segno tutto opposto: non solo non ci sarà l’appoggio operaio che Bismarck auspicava ma egli dovrà dimettersi e la legislazione speciale antisocialista essere abolita. E però, paradossalmente, quest’effetto sarà pure completamente fuori dalle aspettative della socialdemocrazia: non ci sarà un crescendo di tentativi di sovversione dello stato, attraverso quei movimenti insurrezionali che la socialdemocrazia riteneva dovessero essere quasi meccanicamente prodotti dalle crisi economiche (e quelli furono anni di una prolungata stagnazione punteggiata di parecchie recessioni), ma si aprirà un periodo di grandi lotte di classe per la democratizzazione degli assetti istituzionali degli stati che componevano la Federazione Germanica – di lotte per il suffragio universale, per la rappresentanza proporzionale, ecc., a correzione di assetti di tipo liberale, quali il possesso dei diritti elettorali da parte delle sole componenti abbienti della società, oppure risalenti all’Antico Regime, quali l’assegnazione di un terzo dei mandati parlamentari alla nobiltà e un terzo al clero. 

Scopo di questa nota è di mettere a fuoco i problemi che attraversano la costruzione europea; in via subordinata, l’impostazione di massima di quelle che potrebbero essere, a mio avviso, alcune risposte da parte delle sinistre antisistemiche, politiche, sociali e di movimento.

Ho anche optato per un’esposizione discorsiva, che ricostruisca cioè l’itinerario storico-politico della costruzione europea. Si tratta, di norma, del criterio che consente la più concreta comprensione di una materia e dei suoi problemi. Personalmente mi sono emancipato da tempo dal tentativo alla partenza della definizione del concetto, come Marx indica di fare nella sua famosa Introduzione del 1857: si tratta a mio avviso di un’illusione idealistica, che, inoltre, nella migliore delle ipotesi reca a posizioni politiche estremizzanti e in quella peggiore, di gran lunga la più diffusa, a posizioni subalterne, magari dopo una giovanile fase di entusiasmi dell’altro segno.

2. I moventi e i tratti più generali, in due periodi, della costruzione europea

a. Alla partenza

La costruzione europea, vagheggiata per secoli dai filosofi, sollecitata, assieme alla Società delle Nazioni, dal Presidente degli Stati Uniti Wilson alla conclusione della Prima Guerra Mondiale, partirà un quarto di secolo dopo, poco oltre la conclusione della Seconda, impegnando sei paesi dell’Europa occidentale. Si chiamerà inizialmente Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), poi, avendo allargato i suoi obiettivi, Mercato Comune Europeo (MEC); più tardi ancora diverrà Comunità Economica Europea (CEE), poi Comunità Europea, infine, con il Trattato di Maastricht, Unione Europea. In questo percorso via via si allargherà, sino agli attuali quindici paesi e ai venticinque dall’anno prossimo.

E’ l’opera perciò di una generazione di politici, del centro democristiano soprattutto della sinistra socialdemocratica, appartenenti cioè a quelle forze che hanno guidato soprattuto subito dopo la Seconda Guerra Mondiale i paesi a democrazia parlamentare dell’Europa occidentale, che questa guerra terribile aveva vissuto, qualcuno ne aveva vissute due, e che non volevano vederne tra stati europei come mezzo per risolvere le loro controversie. In appoggio a questi politici si poneva il rifiuto radicale, totale della guerra  in Europa a cui erano coralmente giunte le popolazioni. C’è quindi a fondamento dell’avvio della costruzione europea un passaggio di cultura politica di grande significato. Gli effetti di due guerre mondiali non solo erano sotto agli occhi di tutti e producevano un desiderio di pace e di pacificazione nelle popolazioni, ma pure rendevano assolutamente irragionevole ogni idea di prosecuzione del percorso delle guerre europee in testa alle stesse classi capitalistiche e agli establishment di governo, cioè a settori della società che delle guerre europee erano stati tra i protagonisti. Non si trattava solo infatti, soprattutto per questi ultimi, delle decine di milioni di morti e del genocidio ebraico, delle città distrutte e del tracollo delle economie, del tracollo quindi delle condizioni di vita di larga parte delle popolazioni, ma pure del fatto che l’Europa, per quattro secoli centro propulsivo del pianeta, nel bene e nel male, era occupata e dominata dalle sue estreme periferie, lontane non solo geograficamente ma politicamente e culturalmente, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.

E’ proprio una storia di secoli di guerre, quasi senza soluzione di continuità, la cui origine è nella crisi stessa della semimondializzazione realizzata da Roma, la ragione primaria del fatto che l’Europa era giunta a disporre per quattro secoli del pianeta. E’ perché l’Europa è stata attraversata per un millennio e mezzo da continue guerre tra stati e da continue guerre civili, infatti, che nessun modo precapitalistico dell’economia e della politica riesce a stabilizzarsi in essa e quindi che l’invasione delle Americhe e il saccheggio dell’Africa vi sbloccano la generalizzazione del capitalismo. E però a metà del Novecento questo cessa di pagare, in un senso qualsiasi e per tutti. Donde appunto un passaggio non solo politico ma culturale e psicologico nelle popolazioni; donde anche la tendenza ad un passaggio d’ordine antropologico, di concezione globale delle relazioni tra gli esseri umani, in una loro parte.

Si vede bene a tutt’oggi, mi pare, la qualità culturale e il carattere sedimentato in profondità nelle teste degli europei di questo passaggio nel corale sentimento di rifiuto della guerra, e non solo in quanto priva di un supporto accettabile qualsiasi, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna all’Iraq. Siamo infatti alla distanza di due generazioni dalla Seconda Guerra Mondiale. E si è visto e si continua a vedere bene la tendenza anche ad un passaggio antropologico in quelle grandi ondate della mobilitazione sociale delle quali sono state e sono fondamentali protagoniste nuove generazioni militanti, cioè nel ’68 e ancor più nei movimenti di oggi, essendo questi ultimi del tutto emancipati dei lasciti politico-culturali e antropologici di contenuto settario e violentista propri, in ogni sua variante, anche le più sofisticate ed evolute, del comunismo novecentesco, mentre il ’68 tentò invece di esserne la continuazione, benché eretica.

Per trovare nella storia dell’Europa, a mio avviso, un fenomeno dalle analoghe motivazioni, di analoga estensione sociale e di analoga qualità occorre risalire a due millenni fa. Una stanchezza per le tragedie vissute dalle popolazioni, una rivisitazione critica della propria storia e un’ambizione di analogo segno, benché non a seguito di un disastro politico ma al culmine di un processo espansivo, attraversarono due millenni fa il centro e l’establishment stesso, non solo le classi subalterne, dell’Impero Romano, veicolate dalle popolazioni più evolute del Mediterraneo orientale. Per individuare nella storia dell’Europa un fenomeno analogo occorre quindi risalire al passaggio al cristianesimo da parte del centro di quell’impero. Non sono mancati, come ben sappiamo, altri passaggi culturali fondamentali nella storia europea. L’unico però a proporre, prima dell’attuale, un passaggio anche in sede antropologica, ovviamente, come l’attuale, difficile, controverso, fu appunto il cristianesimo, ed esattamente quel cristianesimo che conquistò le teste del centro dell’impero, cioè del sito politico e sociale protagonista delle guerre di espansione e di sottomissione delle popolazioni del Mediterraneo, della loro ampissima trasformazione in popolazioni schiave, dell’esportazione delle sue eccedenze di popolazione, ecc.

La forma di organizzazione politico-istituzionale dello stato coerente con l’obiettivo di questa costruzione europea è nella democrazia parlamentare. Si tratta infatti, nelle condizioni del capitalismo, della forma di organizzazione dello stato più evoluta in senso civile ed ipso facto vissuta come antagonista al fascismo, responsabile della Seconda Guerra Mondiale. Benché, come tra un po’ vedremo, quasi tutte le forme della democrazia stiano da qualche tempo subendo, in tutta Europa, incursioni, manomissioni e ridimensionamenti sostanziali, è parimenti indubbia la forza del legame culturale e psicologico ad essa da parte del grosso delle popolazioni. Questa forza sta appunto nell’associazione costituita nella testa delle popolazioni tra fine delle guerre europee e condizioni politiche di democrazia.

In via essenziale, e concludendo questo ragionamento, il fattore primario della costruzione europea, il fattore, esattamente, che la vuole, la rende necessaria e la mette in movimento è un tentativo ambiziosissimo di passaggio di civiltà politica – è quindi un fattore d’ordine politico-culturale.

 

Non mancano alla messa in movimento della costruzione europea, naturalmente, importanti fattori per così dire accessori, d’ordine, questi, economico. Anzi nella dimensione politico-culturale delle borghesie capitalistiche e in quella, economicista, di una parte degli establishment di governo saranno queste ad assumere il carattere di fattori primari se non, spesso, di fattori unici. Si trattava anche, in ogni caso, di creare le condizioni più favorevoli a una nuova vigorosa crescita delle economie. Si trattava, attraverso questa vigorosa crescita delle economie, di avviare o di implementare potenti sistemi di welfare e di dare, al tempo stesso, una “base di massa” alla democrazia parlamentare e di consolidare quella dei partiti di centro e di sinistra moderata. Si trattava infatti di costruire un complesso di condizioni economiche e politico-istituzionali attraenti per le popolazioni, che tendessero a soddisfarne tanto i bisogni materiali che le attese immateriali in fatto di libertà di espressione, pluralismo culturale, partecipazione alle scelte politiche, possibilità di organizzazione dal basso in società civile, e dunque, per questa via, di impedire che l’attrazione su una parte rilevante delle classi operaie dell’Europa occidentale esercitata dal “socialismo reale” in Unione Sovietica, la cui immagine era stata enormemente rafforzata dal contributo dato alla vittoria sul nazismo, e in Europa centrale potesse portare a tentativi di sovvertimento del capitalismo. In Europa centrale l’Unione Sovietica, attraverso la satellizzazione e l’assimilazione strutturale coatta procedeva in un senso fondamentalmente analogo all’Europa occidentale, veniva cioè costruendo un “campo socialista” fortemente coeso, politicamente ed economicamente. Una costruzione, in conclusione, in Europa occidentale fondata su crescita economica, welfare e democrazia esprimeva anche una convenienza generale del capitalismo in quanto sistema semiplanetario.

Alla guida di questo sistema erano ormai saldamente collocati gli Stati Uniti. Da essi quindi non a caso veniva la condivisione sia dell’obiettivo della costruzione europea che dei suoi contenuti politici, economici e sociali fondamentali. Inoltre assieme a quella convenienza capitalistica generale, che coinvolgeva gli Stati Uniti in quanto paese guida dell’Occidente, gli Stati Uniti erano orientati dalla posizione, insieme wilsoniana e keynesiana, che in quel periodo ne informava l’establishment. Il Piano Marshall anzi già si era posto tra le precondizioni della costruzione europea, anticipandone l’orientamento economico e creando aspettative convergenti su questo terreno in una parte dei paesi dell’Europa occidentale.

In via essenziale, se il fattore fondamentale di avvio della costruzione europea è di natura politico-culturale furono fattori legati al complesso delle condizioni del capitalismo in Europa e nel mondo subito dopo la guerra quelli che ne definirono la forma economica e sociale; e il loro contenuto contribuì a conferire alla costruzione europea ulteriore slancio espansivo. Si potrebbe dire, com’è in ogni passaggio epocale, che i fattori d’ordine politico-culturale tesero a combinarsi con quelli d’ordine tattico-politico e con quelli d’ordine strutturale in termini tali da rendere fuorviante ogni tentativo nell’analisi di privilegiare  tanto le esigenze immediate della politica che quelle immediate della dimensione strutturale. Insomma senza il fattore politico-culturale è assai dubbio che la costruzione europea sarebbe sorta, quanto meno come tentativo di costruzione anche politica.

Dunque la costruzione europea sarà caratterizzata per tutto un periodo, insieme, da una crescita assai celere della base economica capitalistica e dalla crescita essa pure assai celere delle condizioni di vita delle popolazioni, attraverso l’implementazione dei sistemi di welfare, cioè di politiche di protezione sociale, di sostegno all’occupazione, di protezione giuridica avanzata del lavoro e di crescita dei salari, di industrializzazione, di redistribuzione della proprietà agraria attivate dagli stati, totalmente o prevalentemente rette da istituzioni dello stato e finanziate da una fiscalità generale progressiva che centralizzava nelle mani dello stato un’elevata quota del reddito dei paesi membri.

Le carte costituzionali europee prodotte negli anni introduttivi a questo periodo sono chiarissime su questo terreno. Accanto al ripudio della guerra, in quelle della Germania e dell’Italia, è in tutte queste carte l’esposizione di una nuova area di diritti universali, in quanto tali garantiti, in ogni senso, da parte dello stato ai propri cittadini: appunto i diritti sociali. C’è in quella italiana, per esempio, il diritto al lavoro. Tornando alla Carta di Nizza, vi leggiamo il diritto di lavorare: non più quindi un diritto di tipo universale bensì una facoltà individuale del cittadino. Appunto una carta liberale, quindi regressiva rispetto alle carte democratiche della precedente generazione, come già abbiamo osservato.

Parafrasando Enrico Berlinguer, il primo periodo della costruzione europea risulta dunque definito da una sorta di “compromesso storico” di classe, di compromesso che cioè congiunge capitalismo, democrazia parlamentare e potenti sistemi di welfare, che scambia accettazione del capitalismo da parte delle classi operaie e accettazione dei costi delle rivendicazioni di classe, che traggono vantaggio dalla democrazia parlamentare, da parte delle borghesie capitalistiche.

Protagonisti fondamentali di questo corso sono, sin dall’inizio, come già accennato, i partiti del centro moderato, soprattutto quelli democristiani, la cui cultura politica si poggiava su contenuti solidaristi-interclassisti, e quelli della sinistra socialdemocratica riformista. E così essi verranno progressivamente permeati, pur conservando ciascuno di questi gruppi di partiti le proprie culture politiche e i propri linguaggi specifici, delle dimensioni d’attorno generali nelle quali si svolgeranno gli orientamenti universalistici di questo corso, spostandosi un po’ verso sinistra, cioè verso il riformismo del movimento operaio, i partiti del centro democristiano e un po’ verso destra, adottando definitivamente come dimensione strutturale di riferimento il capitalismo, i partiti della sinistra socialdemocratica.

Del capitalismo tenderanno dunque a gestire, via via, ogni necessità fondamentale e ogni pulsione fondamentale, trovandosi infine del tutto disorientati e poi in sua balia quand’esso, dinanzi alla crisi del “socialismo reale”, deciderà di rompere il compromesso di classe.

Staudinger, l’esponente cioè di primo piano di quel socialismo etico di matrice kantiana che fu importante nella temperie di discussioni e di scontri a cavallo tra Ottocento e Novecento dentro alla socialdemocrazia tedesca, discussioni e scontri tendenti in ultima analisi a dare fondamenta teoriche al suo riformismo de facto, scrisse in chiusura dell’Ottocento come le conquiste democratiche e sociali della classe operaia la impegnassero (la stessero in realtà già impegnando, da una ventina d’anni) nella “gestione dell’ordine”. Ciò che nella concezione di Staudinger si presenta come confusione di concetti differenti, in sintonia appunto con il corso pratico della socialdemocrazia tedesca di quegli anni, e come sarà nel riformismo del Novecento, è tra, da un lato, l’“ordine” in quanto conquiste democratiche e sociali, compresi gli spazi di rappresentanza e di governo e gli strumenti giuridici e istituzionali delle politiche di welfare, e, dall’altro, l’“ordine” in quanto unità concreta tra queste conquiste e il sistema capitalistico di rapporti sociali, quindi l’“ordine” anche in quanto sussunzione reale più o meno stabilizzata di queste conquiste sotto questi rapporti e, di conseguenza, più o meno ampia deformazione di queste conquiste, l’“ordine” anche in quanto, in ultima analisi, ordinato processo della riproduzione di questi rapporti.

Anche il PCI del secondo dopoguerra eluderà il nucleo complesso del problema, praticando la medesima confusione concettuale: nonostante, a mio avviso, il Gramsci dei Quaderni. Lo sbocco sarà perciò l’uso politicante anziché propulsivo delle grandi mobilitazioni offensive del ‘68-69 e dell’alta marea degli anni settanta. Si trattava di avere la lungimiranza e il coraggio di mettere in discussione il “compromesso storico” del dopoguerra da sinistra anziché di tentarne il rilancio, quindi di gestire un passaggio qualitativo in avanti dei contenuti utili alle classi subalterne di quel compromesso cioè dei contenuti in sede di democrazia e di welfare e di combinarli con grandi trasformazioni strutturali. Non solo perciò l’avversario politico e di classe potrà riprendere forza e contrattaccare all’inizio degli anni ottanta, ma il PCI si troverà totalmente disarmato dinanzi al paradigma liberale del quale verrà abbigliata la messa in discussione liberista di quel compromesso di classe che aveva operato nei tre decenni precedenti.

Che dunque, sempre in via essenziale, la costruzione europea si ponga in questo primo periodo come tentativo, largamente riuscito, di passaggio di civiltà politica e cioè di tentativo di superamento della guerra tra stati europei come strumento dei loro contenziosi non cancella l’esistenza di altri fattori della costruzione stessa. Tuttavia la relazione che qui sto proponendo tra i suoi fattori di varia natura consente di non essere messi fuori strada, a sinistra, quando si tratti di collocarsi a fronte della costruzione come tale o dei suoi specifici assetti o di suoi specifici passaggi più o meno significativi e più o meno critici.

Invece lo smarrimento, inizialmente solo pratico, della dimensione di classe capitalistica della costruzione europea, attraverso la cooperazione acritica all’“ordine”, ha reso il grosso della sinistra italiana, dopo il momento di critica apocalittica della costruzione stessa della prima parte degli anni cinquanta, portatrice di una sua rappresentazione rosea, che ha cioè sistematicamente minimizzato o ignorato i rapporti di sfruttamento, i deficit di democrazia, le devastazioni ambientali, la cooperazione imperialista con gli Stati Uniti, la corresponsabilità quindi sostanziale nella produzione di un pianeta crescentemente e tragicamente asimmetrico, e che recentemente la porterà alla pacificazione manu militari nei Balcani e oggi non solo a non cogliere i fattori di fondo della crisi in corso e crescente della democrazia ma a contribuirvi, attraverso, per esempio, la demolizione anche da parte dei governi di centro-sinistra e di sinistra moderata dei sistemi di welfare e la promozione con le forze di centro-destra del passaggio a sistemi non più democratici ma liberali della rappresentanza, come in Italia, o del loro consolidamento, come in Francia.

Parallelamente, come è sempre necessario nelle situazioni di assoluto sbandamento e di generale arretramento, il ricorso alla mistica in fatto di costruzione europea è divenuto sempre più incalzante e sempre più grossolano: quindi appunto il mito della federazione europea o l’illusione, attualmente, di un’Unione Europea coralmente orientata al benessere del complesso delle sue popolazioni nonché al benessere e alla pacificazione del pianeta.

 

Ragionando, a loro volta, in termini inversi, alcune componenti anticapitalistiche minori della sinistra politica italiana, orientate in senso economicista e, inoltre, nel modo più scolastico, nonché alcune componenti abbastanza significative della sinistra politica anticapitalistica di altri paesi hanno costruito e tentano di propagandare l’antimistica della cosiddetta Europa imperialista.

Come ho già accennato, il rapporto di cooperazione della costruzione europea con gli Stati Uniti è stato di natura fondamentalmente imperialista,  e precisamente sino, grosso modo, all’11 settembre, alla precipitazione cioè dei vari grumi dell’unilateralismo statunitense, consentito dal collasso dell’Unione Sovietica, nel tentativo di costituzione degli Stati Uniti in impero planetario, ciò che ha lacerato l’unità abbastanza significativa a quel momento della costruzione europea in sede di politica estera. Tuttavia l’imperialismo è concettualmente definito dalla vigenza almeno come tendenza inoltrata di un’unità dai contenuti coerenti tra propensioni espansive territoriali dello stato, preesistenza oppure costituzione ex novo di apparati militari in grado di praticare, all’occorrenza, queste propensioni espansive e impulsi espansivi verso l’estero dell’economia, e quest’ultima cosa, inoltre, a sua volta è definita da una centralizzazione più o meno inoltrata e su scala statale del capitale. Lo stato, poi, è all’origine di queste condizioni non solo in quanto tende a praticare obiettivi di espansione territoriale ma anche in quanto ha ruolo fondamentale nella centralizzazione in sede statale e nella delineazione degli impulsi espansivi esterni del capitale. Il riarmo è, infine, il sito specifico dell’alleanza imperialista tra stato, gerarchia militare e grande capitale centralizzato. E allora: la configurazione costituita dal complesso di queste determinazioni caratterizza davvero la costruzione europea?

Ora quest’ultima appare in realtà distante anni luce da questa configurazione. Si può giustamente parlare, per esempio, di una presenza imperialista francese in una parte dell’Africa: però essa non solo è in competizione aperta, anzi a volte guerreggiata, per interposti paesi più o meno satelliti, con la presenza degli Stati Uniti, ma è pure in competizione con la presenza di ogni altro paese appartenente alla costruzione europea, come Gran Bretagna, Portogallo, Belgio, ecc. Il grande capitale centralizzato continua a essere nell’Unione Europea prevalentemente nazionale, soprattutto, mi pare, per la volontà ferrea e assiduamente praticata che rimanga tale da parte dei tre stati più importanti, Germania, Francia e Gran Bretagna, ma anche per il carattere incompleto dell’omogeneizzazione delle legislazioni, delle procedure, dei sistemi fiscali, ecc., in una parola delle condizioni di mercato, sicché le multinazionali europee appaiono soprattutto come il risultato di un decentramento delle loro attività produttive e dell’internazionalizzazione degli scambi commerciali, nel quadro della globalizzazione capitalistica, assai meno di un carattere effettivamente multinazionale della proprietà, se ovviamente si astrae da quote marginali che possono trovarsi presso ogni sorta di istituzioni capitalistiche sparse per il mondo – benché parimenti non si possa ignorare il fatto che, sulla base di un’omogeneizzazione comunque inoltrata nell’Unione Europea delle condizioni di mercato, oltre che dell’internazionalizzazione degli investimenti, sempre nel quadro della globalizzazione capitalistica, un capitalismo multinazionale europeo non sempre riconducibile a proprietà più o meno estesamente nazionali ormai esista e sia in espansione, talora anche intrecciato al capitale di altre aree del mondo. Ad un comportamento omogeneo nei cicli di trattativa internazionale in fatto di investimenti e di scambi commerciali la costruzione europea è arrivata solo in questi anni. Solo in questi anni essa si è data un responsabile della politica estera – e però si è pure potuto vedere, con la guerra all’Iraq, come si tratti di una responsabilità senza potere quando vi sia una divergenza di rilievo tra i principali governi degli stati membri, cioè come si tratti di una delega de facto quindi in ogni momento de facto revocabile. Della costituzione di un apparato militare comune si è parlato molto in questi anni, ne sono stati anche messi a punto i comandi, ne sono stati definiti i rapporti con la NATO, tuttavia esso è a tutt’oggi pressoché inesistente. Se effettivamente si costituirà, inoltre, si troverà affiancato dalla “cooperazione rafforzata” tra Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo, cooperazione alla quale potrebbe essere de facto associati oltre che altri paesi membri anche paesi esterni alla costruzione europea, come la Russia, l’Ucraina, magari la Turchia. Tornerò più avanti su questo punto, importante perché significativo dell'intendimento di Francia, Germania, ecc. di autonomia dagli Stati Uniti..

La costruzione europea, in conclusione, non è neppure, ad oggi, una coalizione di stati imperialisti, un’alleanza, così come si costituirono alla vigilia delle due guerre mondiali, piuttosto tende oggi a essere composta da almeno due coalizioni, benché entrambe interne alla NATO ed entrambe costituite da paesi protagonisti della globalizzazione capitalistica. E inoltre all’interno stesso di ogni coalizione c’è competizione tra i capitalismi che la compongono per il controllo di zone d’influenza, mercati di investimento e di vendita delle proprie produzioni, fonti di energia, ecc.

Uno sviluppo coerente di questa sommaria analisi indicherebbe in realtà l’obsolescenza delle analisi classiche dell’imperialismo, d’altro canto, a mio avviso, abbastanza precarie ai tempi stessi nei quali furono prodotte. Non che, d’altro canto, la categoria di imperialismo non possa, attualizzata, combinarsi utilmente con altre nell’analisi dei processi in corso nella politica e nell’economia del pianeta. La categoria di impero non è infatti esaustiva, sempre a mio avviso, oltre ad avere il difetto di essere proposta in almeno due varianti dal contenuto addirittura alternativo. Ma questo è un argomento del tutto diverso rispetto a quelli che qui sto svolgendo, perciò mi fermo.

L’antimistica scolastica dell’Europa imperialista si pone, almeno nelle intenzioni, come fondamentalmente sussidiaria di quello che considero tra gli aspetti di gran lunga più precari dell’analisi di Lenin, ove cioè la politica è ridotta, secondo una formula famosa dello stesso Lenin, a “concentrato dell’economia”, a sua mera portavoce. E’ però pure una posizione per molti aspetti antileniniana, ad onta delle intenzioni. Come pressoché sempre accade alla scolastica, le sue riproduzioni sono molto peggio degli originali. Quanto meno nell’Imperialismo di Lenin è definita l’esistenza di un’intera gamma di collocazioni intermedie tra vertice imperialista del pianeta ed estrema periferia; ci sono collocazioni miste, gradi diversi della dimensione imperialista e di quella della subalternità, ecc. Già solo l’uso di queste categorie della collocazione mista e dei gradi diversi, pur del tutto insufficienti, consentirebbe agli scolastici di dire qualche corbelleria in meno sulla costruzione europea.

Neanche la posizione scolastica, in ultimo, scherza a proposito di formulazioni fuorvianti, simmetriche rispetto a quelle della posizione apologetica: quali la denuncia della perdita assoluta della sovranità subita dagli stati membri, la denuncia maniacale di un’Europa della grande finanza e delle multinazionali, ecc.

b. Da Maastricht in avanti

Dunque, appunto, una costruzione europea dai fattori di determinazione primari d’ordine politico-culturale. Benchè, come si è visto, non solo tali.

In un primo periodo, come pure si è visto, la costruzione europea si fondò su un compromesso tra capitalismo, democrazia e welfare. Ciò ampliò il consenso delle popolazioni, d’altronde già reso cospicuo dall’obiettivo di porre termine alle guerre europee. Il welfare inoltre consentì un livello non povero della democrazia, nonostante le esigenze spesso a contrario della confrontation con il “socialismo reale”, e successivamente anche la sua crescita, anche grazie alla distensione raggiunta sul teatro europeo tra i due blocchi politici e militari (senz’altro in Italia, sito fino a tutti gli anni cinquanta di una sorta di semi-confrontation interna), e soprattutto la sua estensione ai paesi usciti più o meno fascisti dalla guerra (Spagna, Grecia, Portogallo).

Va da sé che nulla fu automatico: il passaggio in Italia ai governi di centro-sinistra, che comportò la fine dei limiti all’agibilità politica della sinistra, si ebbe a seguito dell’abbattimento del governo Tambroni attraverso le mobilitazioni del giugno e luglio 1960. I colonnelli greci furono cacciati dal potere da un contro-golpe militare. Salazar fu abbattuto dai militari di sinistra del Movimento delle Forze Armate. L’espansione, a sua volta, delle condizioni di vita delle popolazioni è stato sempre il risultato anche di accanite lotte sindacali, contadine, femminili, giovanili, ecc. Però in altre condizioni generali dell’Europa tutto questo sarebbe stato oltremodo più difficile, e forse, in larga misura, impossibile.

Parimenti, tuttavia, la crisi sempre più inoltrata e organica, globale, del “campo socialista” e il suo successivo collasso suggeriranno alla fine degli anni ottanta ai capitalismi dell’Occidente la possibilità di disfarsi senza più rischi degli onerosi sistemi di welfare e di trasformarne gli ambiti operativi in mercati cioè in più o meno nuovi ambiti di investimento e di profitto. Il “compromesso storico” tra capitalismo e welfare comincerà così a essere attaccato dai governi: al keynesismo in quanto dottrina ufficiale di politica economica verrà sostituito il liberismo, o meglio una famiglia di liberismi, una famiglia cioè di dottrine aventi in comune taglio della spesa sociale, abbattimento delle tutele (precarizzazione) del lavoro, abolizione della proprietà pubblica, abbattimento della pressione fiscale e redistribuzione del carico fiscale a vantaggio delle classi medio-alte, deregulation a livello interno e a livello internazionale dei movimenti del capitale finanziario e degli investimenti capitalistici. I moventi addotti dal lato del taglio della spesa sociale e dell’abbattimento delle tutele del lavoro, alias della “flessibilità”, saranno indicati nella necessità di una grande mobilitazione di risorse e della duttilità massima dei processi produttivi, per poter effettivamente fare fronte agli imperativi di una crescente competizione su mercati crescentemente globalizzati. Quello, a sua volta, dal lato dell’abolizione della proprietà pubblica sarà indicato nelle sue diseconomie di gestione. Si trattò e continua a trattarsi, in realtà, nell’essenziale, di una formidabile operazione di trasferimento di reddito e di potere verso l’alto, dentro all’Occidente così come nei rapporti tra Occidente e resto del mondo.

Partirono in avanscoperta e dettero la linea generale la Gran Bretagna di Margareth Thatcher e gli Stati Uniti di Ronald Reagan, due governi di estrema destra antisociale.

Nei paesi della costruzione europea, inoltre, l’obiettivo della moneta unica, concordato da Kohl e da Mitterrand proprio perché la costruzione europea proseguisse anziché essere messa in crisi e smantellata dalla riunificazione della Germania, unirà a quelle posizioni obiettivi di tendenziale pareggio dei bilanci pubblici, quindi un’estrema fissità delle politiche di bilancio. Il monetarismo entrava così nel bagaglio dottrinario ufficiale della costruzione europea, ora, in fieri, Unione Europea, veicolato dal Trattato di Maastricht. La moneta unica ne era il motivo sostanziale, tuttavia il carattere rigido dei parametri di bilancio e l’ossessione il suo pareggio avevano a loro volta l’obiettivo, ovviamente non dichiarato, di fare dei parametri anche lo strumento fondamentale di politiche di taglio della spesa sociale ecc., si collocavano cioè come parte dell’operazione di trasferimento di reddito verso l’alto ecc. Quest’ossessione è documentata ad abundantiam, mi pare, dal potere assoluto in materia monetaria conferito alla Banca Centrale Europea e dal fatto che nel suo statuto sia solo la stabilità dei prezzi, mentre, per esempio, in quello della FED statunitense stanno stabilità dei prezzi, sviluppo e occupazione.

Non si capirà mai perché queste politiche rigide di bilancio siano durate così a lungo, anzi tuttora, benché molto logorate e spesso concretamente contraddette, riescano a sopravvivere, nonostante il loro carattere palesemente antieconomico (dovuto principalmente alla distruzione del pubblico in economia e alla caduta dei salari quindi alla stagnazione della domanda interna, sicché esse hanno determinato la stagnazione di oltre un decennio delle economie dell’Europa occidentale, un crescente gap tecnologico rispetto a quella degli Stati Uniti, infine l’attuale recessione morbida in tutta l’Europa occidentale e l’attuale crisi industriale in Italia e in Germania), se si prescinde da quella loro basilare funzione antisociale. Lungi perciò dal trattarsi degli imperativi categorici a cui la costruzione europea sarebbe stata indotta, dapprima dalla moneta unica poi dalle soverchianti ukaze dell’economia planetaria, si tratta dell’effetto di scelte politiche di classe da parte del complesso degli establishment di governo europei, a tassi diversi di completezza e di convinzione, se si vuole, comunque di scelte politiche, cioè di operazioni scelte dentro ad un complesso parimenti razionale di operazioni possibili, tra le quali però c’erano pure quelle con il difetto di continuare a incorporare, più o meno ampiamente, conquiste delle classi subalterne ed elevate condizioni di vita quindi del complesso delle popolazioni. 

Analogamente nessun imperativo categorico iscritto nel corso dell’economia mondiale aveva in precedenza obbligato all’attacco alla spesa sociale e al lavoro, a politiche fiscali regressive, alla deregulation dei mercati finanziari, ecc. da parte della Thatcher e di Reagan.

Solo dopo, dunque, che scelte del genere vengono effettuate esse entrano a far parte delle “leggi” più o meno bronzee della riproduzione più o meno allargata dell’economia. Quando, quindi, a sinistra si insiste sulla tesi dell’“esaurimento” dei “margini obiettivi” di riformismo addirittura nelle ipersviluppate economie capitalistiche dell’Occidente, non occorrerebbe dimenticare che si tratta in primo luogo dell’effetto materializzato in una riorganizzazione generale dell’economia, dei suoi processi e del suo governo da parte degli establishment di governo avvenuta a seguito di una modificazione di segno tutto negativo – dal nostro punto di vista – nei rapporti di forza tra le classi. Solo a seguito dell’avvio pratico di tali orientamenti una sempre più ridotta spesa nei sistemi di welfare è divenuta una necessità della riproduzione dell’economia capitalistica, della concorrenza, in specie, tra i sistemi che la compongono, tra le imprese, ecc. Non bisognerebbe mai dimenticare quest’insegnamento prezioso dell’ultimo Lukács, che le azioni umane hanno carattere teleologico, sono appunto, cioè, l’effetto di scelte tra alternative possibili, e che solo dopo aver effettuato una data scelta i suoi effetti divengono leggi obiettive, cosali, proprie del sistema su cui quelle azioni hanno operato. Ciò che, di conseguenza, significa che attraverso una modificazione positiva dei rapporti di forza e quindi cambiamenti degli establishment o dei loro orientamenti di fondo le politiche di welfare potrebbero oggi essere rilanciate nei paesi della costruzione europea. Naturalmente occorrerebbe pure ridefinire, almeno in parte, il “modello” generale dello sviluppo, prendendovi in considerazione significativa obiettivi di protezione dell’ambiente, dell’acqua, dell’aria, del clima, delle risorse energetiche, riqualificando, in questa prospettiva, industria e agricoltura, rilanciando, anche per questi obiettivi, il pubblico in economia (si otterrebbe inoltre con questo di allargare il blocco sociale portatore di obiettivi di welfare), e occorrerebbe ridefinire le condizioni di scala dell’efficacia pratica di questa politica. Per esempio, a quest'ultimo proposito, essa ormai non è praticabile, a mio avviso, su scala nazionale, bensì necessita di quella della costruzione europea.

D’altro canto, se così non fosse, si arriverebbe alla conclusione davvero strampalata che le stesse più forti economie del pianeta non hanno “margini obiettivi” e dunque che una crisi organica, globale, del capitalismo è alle porte, a partire dai suoi centri stessi di massimo sviluppo, con tutto il suo potenziale di rivoluzione anticapitalistica planetaria. Qualcuno ne vede davvero i segnali? Beninteso, non che manchino segnali di crisi, in Europa come nel mondo. La politica internazionale attuale degli Stati Uniti è anche, forse principalmente, l’effetto di una crisi. Tuttavia è sempre inopportuno scambiare lucciole per lanterne, quanto meno perché ciò può solo mettere fuori strada le sinistre antisistemiche. Lo abbiamo già fatto nel ’68, come nuova sinistra, e negli anni settanta successivi. D’altro canto, se così non fosse, se i “margini” non fossero conquistabili con la lotta politica e con quella di massa, su cosa mai si appoggebbe il tentativo di Lula, in Brasile e verso l’America Latina? Dovremmo pensare, senza “margini” con i quali reggere i costi economici di riforme di fondo, che si tratta solo di un tentativo velleitario e destinato ineluttabilmente a fallire, magari attraverso un passaggio in campo avverso da parte di Lula. O, ancora, dovremmo pensare che negli Stati Uniti un sistema di welfare non c’è perché non ne sono mai esistiti i “margini” per reggerne i costi? Infine, il riformismo non cominciò in Europa proprio in una Germania di fine Ottocento, la cui economia ristagnava e anzi passava di recessione in recessione? Non c’era allora nell’economia tedesca nessun “margine obiettivo”: la Germania era però attraversata da grandi impetuose mobilitazioni di classe, sul terreno economico e su quello politico, e fu esattamente questo che creò i “margini”  ovvero impose al suo capitalismo di concedere il primo sistema di welfare della storia.

Attenti ancora, perciò, alla scolastica economicista.

Si tratta comunque a proposito del significato sociale di Maastricht di questione nella sinistra antisistemica non controversa, almeno così mi sembra, perciò concludo. In Europa occidentale i centri interclassisti e le sinistre riformiste, che hanno da tempo introiettato l’“ordine” così come esso complessivamente è, quindi la sua dimensione di base capitalistica, incorporano, di conseguenza, a partire dal momento in cui i capitalismi europei decidono di rompere il compromesso di classe, dosi massicce di liberismo, attraverso il veicolo del suo abbigliamento liberale, liberoscambista, ecc., e in capo a qualche anno capitolano, a maggioranze più o meno estese, a seconda dei vari paesi e dei vari partiti. Capitolano in alto ma anche in basso, gruppi dirigenti, apparati, intellighenzie, amministratori, dirigenti sindacali ma anche basi militanti e basi elettorali.

Dunque Maastricht è anche tra i principali strumenti attraverso i quali il liberismo contagia e si estende al complesso dei paesi membri della costruzione europea.

Parallelamente, ma ne tratterò più avanti, per questa via comincia in questi paesi a essere messa sotto tiro, in operazioni parziali di vario genere, la qualità della democrazia, e i tentativi di adeguamento e di ulteriore definizione del versante istituzionale e in sede di politica degli interni e della giustizia della costruzione europea avvengono all’insegna dell’incremento degli elementi di deficit democratico che sin dall’origine la caratterizzano.

Tuttavia, ancora, Maastricht non rappresenta solamente né principalmente una risposta a obiettivi meramente capitalistici. Il perseguimento di obiettivi di classe capitalistica nella definizione dei parametri non richiedeva un trattato, erano sufficienti procedure nazionali, o un’iniziativa del Consiglio Europeo, o, al più, era sufficiente un’iniziativa congiunta del Consiglio e della Commissione poi avvallata dal Parlamento Europeo. E’ successo così, per esempio, con il successivo Patto di Stabilità e con il cosiddetto, altrettanto micidiale, Accordo Interistituzionale. Maastricht è invece la risposta principalmente alla fine dell’Unione Sovietica e del “campo socialista” e, come accennato, alla riunificazione della Germania, effetto saliente di questa fine, è il prodotto cioè di grandi eventi politici, la risposta ai quali non poteva che essere impegnativa in un senso globale, che essere impegnativa nel senso della prospettiva storico-politica dell'Europa, e la cui forma perciò non poteva che essere solenne.

Si trattò perciò, per intanto, di rendere molto più coesa politicamente la costruzione europea, dinanzi al potenziale di disgregazione per l’unità dell’intero Occidente implicito nel venir meno della competizione con il “campo socialista”, e soprattutto dinanzi al potenziale di disgregazione configurato dalla riunificazione tedesca, che tendeva a riproporre al centro dell’Europa una potente Germania e inoltre a proporre a questo paese una grande possibilità di espansione verso est della sua influenza economica e politica. La Germania avrebbe potuto tendere così a disimpegnarsi rispetto alla costruzione europea, inoltre avrebbero potuto aprirsi tensioni con la Germania da parte di quei paesi europei intenzionati essi pure a espandere la loro influenza a est. Quindi appunto la moneta unica, cioè un forte consolidamento dei rapporti della Germania con la costruzione europea. Si trattò, esattamente, di questo scambio: Francia, Gran Bretagna, Italia, nonché Stati Uniti, consentivano alla riunificazione della Germania, da un lato, e quest’ultima, dall’altro, consentiva alla moneta unica. La posizione di forza – la riunificazione stava già avvenendo – della Germania le consentì inoltre di ottenere parametri di bilancio a supporto della moneta unica orientati, attarverso tagli draconiani della spesa pubblica, a una prospettiva di euro “forte”, così come era il marco. Questa della moneta forte è una tipica ossessione tedesca, conseguenza delle due inflazioni susseguite a due guerre mondiali perse, che avevano distrutto risparmi e pensioni. I tedeschi furono così lo strumento tanto inconsapevole quanto decisivo di una notevole operazione di classe. E per l’Italia cominciò il lungo purgatorio che sappiamo. Si trattò, in secondo luogo, di reagire alla disintegrazione dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia e ai conflitti di tipo più o meno etnico che cominciavano ad assommarsi nei Balcani e nelle periferie dell’ex Unione Sovietica. Essi pure infatti avevano in sé potenziali di crisi dell’unità dell’Occidente, avrebbero potuto cioè riproporre ai suoi paesi più importanti conflitti legati a obiettivi di influenza. Si incaricheranno da subito di sottolineare la concretezza di questo pericolo i comportamenti divaricati di Germania da un lato e di Francia e Italia dall’altro dinanzi alla disintegrazione e ai conflitti etnici nella ex Jugoslavia, comportamenti esattamente a ricalco delle politiche di questi paesi a monte della Prima Guerra Mondiale.

Nella costruzione europea questo passaggio non si limitò, inoltre, alla moneta unica. Essa infatti trascinava con sé la necessità di una coordinazione politica più forte, non solo in sede economica. E lo stesso era richiesto dall’obiettivo, che cominciava a configurarsi, dell’allargamento della futura Unione Europea all’Europa centrale. Le istituzioni di governo delle quali la costruzione europea era dotata erano palesemente inadeguate rispetto a questi obiettivi, per più ragioni. Il Trattato di Maastricht verrà così a definire anche le linee di crescita della costruzione europea in fatto di politica interna e della giustizia e di politica estera e della difesa. Si arriverà anche, benché con molto travaglio e dopo qualche anno, a creare una figura di responsabile della politica estera e della difesa, di nomina da parte del Consiglio Europeo e che ad esso avrebbe risposto. Rimarrà invece irrisolto, e verrà rinviato a scadenze successive di discussione, il nodo di un rifacimento razionale degli assetti della Commissione e del Consiglio Europeo. Questo nodo d’altro canto si trascina quello, enorme ed enormemente controverso, della forma istituzionale generale dell’Unione Europea e quello, parimenti enorme, della qualità della sua democrazia.

In breve sintesi c’è dunque che il carattere altamente contraddittorio, e specificamente, in esso, la vigenza di una dimensione propulsiva in fatto di civiltà politica rimangono a determinare anche con Maastricht la costruzione europea. Il carattere antisociale di Maastricht propone però una relazione diversa rispetto a prima tra politica ed economia, nel senso di un grado di presa superiore di quest’ultima, cioè della sua dimensione capitalistica, sulla prima. La fine del “socialismo reale”, d’altro canto, era stata anche la fine di un tentativo di grande ambizione di porre la politica al posto di comando rispetto all’economia: che quindi ad ovest questo sia rimbalzato non è strano, soprattutto se si pensa a come qui l’egemonia contraddittoria della politica rispetto all’economia, nella forma di politiche avanzate di welfare e di un’elevata qualità della democrazia, fosse a sua volta anche un effetto di rimbalzo di quella dimensione positiva del “socialismo reale”, tra le non molte, purtroppo, che ne fu appunto il welfare.

Anzi ancor più che rispetto al periodo precedente la costruzione europea affermava con Maastricht la propria utilità fondamentale per le popolazioni europee in quanto fattore di prevenzione di nuove estese guerre europee.

Non si capisce, per esempio, perché le popolazioni dell’Europa centrale e del Baltico stiano attualmente esprimendo larghissime maggioranze a favore dell’ingresso dei loro paesi nella costruzione europea e al tempo stesso ciò stia accadendo con tassi di partecipazione al voto referendario di poco più della metà dei corpi elettorali, cioè con nullo entusiasmo, mentre dieci anni fa l’entusiasmo c’era ed era tanto, se si astrae sia dal desiderio di queste popolazioni di non rimanere isolate, quindi maggiormente esposte a conflitti o a ricadute sotto il controllo russo, quindi dal fatto che questo desiderio fa premio rispetto alla grande contrarietà nei confronti delle condizioni economiche e giuridiche dell’ingresso imposte in questi anni dalla Commissione Europea. Queste condizioni, cioè i loro effetti di massacrio sociale, avrebbero più che ampiamente motivato un voto in larga misura negativo nei vari referendum, ciò che tra l’altro veniva indicato da alcuni sondaggi della vigilia, segnatamente nella Repubblica Ceca e in Polonia.

Le guerre balcaniche degli scorsi anni, in ultimo, per risolvere le quali dovranno essere chiamati gli Stati Uniti e che, pertanto, saranno affrontate con i peggiori criteri militari e politici e si chiuderanno con una serie di protettorati de facto o de iure dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, onerosissimi e senza capacità interna di evoluzione, diverranno la sollecitazione principale sia di un’accelerazione dell’adesione all’Unione Europea da parte dei paesi dell'Europa centrale e del Baltico che del tentativo, a oggi però senza esito sostanziale, di definire le linee di una politica estera e di difesa comune, con particolare riguardo all’unilateralismo crescente degli Stati Uniti.

3. Il dilemma dunque della forma istituzionale e quello della qualità della democrazia

a. Il nesso democrazia-welfare

La costruzione europea fondamentalmente fu motivata e rimane motivata dall’obiettivo di porre fine a una lunga storia di guerre europee. A questa motivazione inoltre fu unita e rimane unita la democrazia parlamentare, in quanto forma dello stato, nelle condizioni del capitalismo, culturalmente più contigua al passaggio politico-culturale e alla propensione antropologica materializzati in quest’obiettivo. Se tutto questo va riconosciuto, contro errori di tipo economicista nella messa a fuoco delle motivazioni fondamentali alla base della costruzione europea, sarebbe però errata l’aggiunta a tutto questo di altre motivazioni sempre d’ordine politico-culturale. Inoltre la qualità della stessa democrazia, come abbiamo appena visto, risulta nella storia della costruzione europea del tutto sussidiaria dei rapporti di forza tra le classi. Si trattò, infatti, di un passaggio di civiltà basato su un compromesso di classe, su un compromesso coinvolgente il complesso delle popolazioni, quindi contraddittorio non solo nel senso che poteva esprimersi solo in modo limitato ma anche che era aperto, per esempio nel momento in cui il capitalismo avesse inteso rompere il compromesso di classe, alla possibilità di arretramenti più o meno sostanziali. Ecco dunque che si è trattato di un passaggio di civiltà politica che ha prodotto per un periodo l’espansione del welfare e della democrazia ma che ad un certo momento ha potuto accettare che fosse messo sotto tiro il welfare e, a partire da questo, che la democrazia subisse significative riduzioni. Furono le condizioni emerse dalla Seconda Guerra Mondiale a suggerire l’opportunità di welfare e democrazia agli establishment di governo e ai capitalismi europei, e a quelli statunitensi: ma quelle condizioni tra il 1989 e il 1991 si sono dileguate. E neppure la costruzione europea ha espresso, almeno sino all’11 settembre, una posizione pacifista e democratica nelle sue relazioni con il resto del mondo, con la periferia capitalistica in particolare. Essa è risultata meno aggressiva degli Stati Uniti, e tra le ragioni c’è senz’altro anche il condizionamento politico-culturale che le viene da quelle dimensioni della sua realtà nelle quali il passaggio di civiltà è avvenuto, ma nulla più di questo. Concludendo, la dimensione capitalistica della costruzione europea esclude la vigenza di correlazioni lineari tra il tentativo di porre termine alle guerre in Europa e altri obiettivi politico-culturali positivi, e a questo tentativo si può solo aggiungere una sua debole correlazione con la democrazia. Si può quindi solo affermare che il passaggio di civiltà sul terreno dei rapporti tra popolazioni europee rappresenta una condizione più favorevole, per la sua qualità politico-culturale, alle lotte per la realizzazione di un’idea alternativa, democratica, ambientalista e socialista, che la realizzazione di quest’idea alternativa di società renderebbe più solido il passaggio di civiltà sul terreno dei rapporti tra popolazioni europee e muterebbe in positivo quelli con il resto del mondo, con la periferia capitalistica in particolare, mentre, inversamente, l’attuale carattere incompleto del passaggio di civiltà espone le stesse relazioni tra popolazioni europee ad una possibilità di regressione.

Si tratta quindi di potenzialità della costruzione europea che andrebbero collocate tra gli elementi sovraordinatori dei programmi delle sinistre antisistemiche politiche, sociali e di movimento mature. Andrebbe accolta in modo meno incerto di quanto oggi non sia tra gli elementi sovraordinatori dei programmi delle componenti civilizzate delle sinistre politiche anticapitalistiche – di quelle forze cioè che abbiano ripudiato il violentismo, non solo nella forma estrema, antisociale, dello stalinismo ma in quelle delle stesse varianti evolute del comunismo novecentesco, cioè come scelta antropologica di fondo, si siano collocate senza ambiguità dal lato della democrazia e abbiano compreso il significato pacifista di fondo assegnato dalle popolazioni alla costruzione europea e tale significato condividano e intendano valorizzare e proiettare sulle relazioni con il resto del mondo. Solo in alcuni paesi, tra i quali il nostro, questa correlazione è accolta dalle sinistre anticapitalistiche civilizzate, mentre in altri c’è una difficoltà più o meno organica e consistente ad accettare la costruzione europea, difficoltà che è il residuo di quando la costuzione europea era denunciata in quanto espressione di un imperialismo europeo in via di rapida costituzione e in quanto operazione politica manipolatoria delle aspettative di pace delle popolazioni, oppure che esprime l’illusione di potersi tenere fuori dal corso della globalizzazione liberista, in specie dai suoi portati antisociali, chiudendosi politicamente in casa e blindando i confini della propria economia. Una tale potenzialità è poi da collocare, qui superando invece ingenue attese ottimistiche nei confronti della costruzione europea e delle sue istituzioni di governo, tra gli elementi sovraordinatori dei programmi delle componenti del cristianesimo più organicamente critiche del liberismo e del rapporto tra centro e periferia capitalistica. E’ infine da collocare nelle posizioni antisistemiche più organiche interne all’ambientalismo e al femminismo.

L’amico Mimmo Porcaro da qualche tempo a questa parte sottolinea come nell’attuale esperienza di movimento l’attitudine antisettaria e inclusiva che vi prevale, in evidente opposizione, grazie a dio, allo stile del ’68, più in generale del comunismo novecentesco, sia l’espressione di una nuova consapevolezza, o quanto meno di un’intuizione, del carattere complesso di ogni figura sociale, perciò di ogni individuo. Ognuno di noi fa molte cose diverse, vive un’esistenza individuale che si compone di molti rapporti di diversa natura, è perciò un lavoratore complesso e un vivente intelligente complesso. Mimmo in questo modo ci aiuta a ripulirci di ogni riduzionismo scolastico, che a sinistra è di tipo economicista, come ho più volte accennato, e questo anche perché lo fa in modo non banale. Mimmo infatti non abbandona ma ridefinisce la categoria di lavoro, continuando da un lato a tener fermo che siamo viventi che si nutrono e che riproducono i propri complessi reciproci rapporti grazie a ciò di cui si appropriano, appunto lavorando, nella natura, ma facendo dall’altro del complesso dei rapporti esterni alla produzione (nel capitalismo, dei rapporti esterni alla produzione di merci e, per quanto attiene specificamente ai lavoratori subordinati, ai rapporti esterni alla produzione del plusvalore) dimensioni autonome, quindi con la propria storia e la propria legalità, del vivente collettivo, del generale processo sociale. Per quanti di noi vengono dalla sinistra marxista, vorrei sottolineare, non si tratta di un’acquisizione anzi di uno sconvolgimento da poco. Il riduzionismo nell’analisi del generale processo sociale risale allo stesso Marx, che fa dei rapporti non produttivi di merci (e dunque, con l’eccezione di poche figure di produttori di merci, dei rapporti non produttivi di plusvalore) le mere “emanazioni” , o “sublimazioni” che dir si voglia, dei rapporti di produzione di merci (e dunque, con l’eccezione di poche figure ecc., di plusvalore).

Di questo contributo sarò sempre grato a Mimmo. Questo contributo inoltre non ci dà conto soltanto dell’esistenza di differenti angolature e concezioni antisistemiche ma anche della necessità della loro unità per lotte antisistemiche efficaci e di come la crisi, ormai al suo epilogo, grazia a dio, della scolastica economicista sia tra quanto oggi consente in sede di movimento la realizzazione dell’unità pratica tra differenti angolature e concezioni. Infine la proposta di Mimmo ci aiuta ad accettare razionalmente, poiché ce lo spiega, il fatto scandaloso della larga sovrapposizione etica ed antropologica che oggi è constatabile, con grande spavento e grande produzione di anatemi e di scongiuri da parte dei residui portatori della scolastica economicista, tra la parte civilizzata della sinistra politica anticapitalistica e il cristianesimo più organicamente antisistemico, e come questo fatto, che si lascia dietro le spalle in Italia qualcosa come un migliaio di anni di guerre civili ideologiche, sia foriero soltanto di buone cose, tra le quali una possibilità di rifacimento abbastanza da capo e indubbiamente in meglio della sinistra politica italiana, e senza che nessuno debba rinunciare a esprimere le peculiarità positive della propria tradizione politica o culturale e a rimanerci affezionato.

Si può, in concreto, sintetizzare come segue lo svolgimento generale della democrazia nella storia della costruzione europea.

Il primo periodo, dunque, tende a caratterizzarsi nel senso della crescita della democrazia. In Italia questo avviene anche attraverso il passaggio traumatico del 1960 e attraverso, poi, più di vent’anni di lotte sindacali e politiche in crescendo, anzi, dal ’68 a tutti gli anni settanta, di lotte ininterrotte di grande ampiezza e che trascinano impiegati dell’industria, tradizionalmente estranei alle lotte sindacali, e il complesso delle figure di operatori dello stato, che impongono riforme fondamentali in molti campi, che sconfiggono la Democrazia Cristiana in referendum parimenti fondamentali e la mettono in ginocchio. Vale pure, tuttavia, che senza la crescita dell’economia degli anni cinquanta e le aspettative economiche ottimistiche degli anni sessanta la lotta economica e politica della classe operaia italiana sarebbe stata, con ogni probabilità, meno vigorosa e meno incisiva, e vale pure che a questa crescita e quindi a creare queste prospettive la costruzione europea diede un contributo fondamentale. Vale poi che una regressione in senso autoritario nel 1960 in Italia avrebbe messo il nostro paese ai margini se non fuori dalla costruzione europea. Fu quindi anche un elemento di sovradeterminazione in senso democratico dal versante europeo rispetto alle nostre vicende politiche, a mio avviso, a consentire o quanto meno a facilitare la costituzione nel nostro paese di uno schieramento politico democratico di dimensione tale da imporre, attraverso imponenti mobilitazioni di massa, la caduta del governo Tambroni – di uno schieramento che vide assieme CGIL, Partito Comunista, Partito Socialista, Partito Repubblicano e parte della stessa Democrazia Cristiana.

Questo primo periodo conferma, quindi, la correlazione biunivoca nella psicologia e nel comportamento delle maggioranze sociali, perciò nelle classi subalterne, quanto meno in Europa e nei paesi abitati da discendenti di emigrati europei, tra vigenza di robusti sistemi di welfare e adesione e partecipazione effettive, non strascicate, non asfittiche, alla democrazia. In altri termini, questo primo periodo conferma che nella psicologia e nel comportamento delle maggioranze sociali europee risulta incorporata a fondo una sorta di scambio: la loro partecipazione alla determinazione degli orientamenti dello stato – la loro partecipazione all’“ordine” – è cioè sentita ed è operante se e quando lo stato fornisce loro, o si pensa che potrà fornire loro, grazie appunto alla loro partecipazione, oltre che alle loro lotte di classe, alcune fondamentali utilità economiche.

Come ho già accennato, questa sorta di scambio è nel DNA dell’Europa contemporanea, nel senso che welfare e democrazia rappresentativa di tipo parlamentare nascono assieme, e precisamente in Germania, dove i primi risultati in materia di welfare ottenuti dalla lotta della classe operaia tedesca ne “sposta” immediatamente gli obiettivi politici sul terreno della trasformazione dei sistemi rappresentativi in senso democratico e la forma nel senso delle mobilitazioni pacifiche di massa, mentre sino ad allora la prospettiva era stata quella dell’insurrezione armata e della demolizione dello stato. 

Tra le ragioni dell’elevato storico astensionismo elettorale negli Stati Uniti c’è dunque in primo luogo, mi pare, che in questo paese un sistema generalizzato di welfare, un complesso ampio cioè di diritti universali in campo sociale coperti e gestiti dallo stato, non è mai esistito, né è mai esistito nei programmi dei partiti che negli Stati Uniti si alternano al governo. Il sistema della rappresentanza negli Stati Uniti, nonostante il riconoscimento formale del suffragio universale, non è quindi riuscito a diventare effettivamente democratico, è rimasto liberale, è cioè rimasto, nell’essenziale, l’esercizio dei diritti elettorali da parte delle classi più o meno abbienti. Ad esse talora si sono assommate le frange politicizzate di quelle subalterne, ma questo non è mai riuscito a cambiare nulla di essenziale. “No taxation without representation” rimane a tutt’oggi perciò il principio fondatore reale della rappresentanza negli Stati Uniti. Vota ed è eleggibile lì chi paga le tasse, cioè chi è proprietario. In Europa se ne è venuti fuori da un pezzo. A parte precedenti esperienze, che durarono poco, proprie delle fasi iniziali di rivoluzioni vittoriose, cominciò appunto nella Germania di 120 anni fa. 

Queste considerazioni ci consentono di ragionare più adeguatamente a proposito dell’andamento invece preoccupante della democrazia nel periodo grosso modo aperto dal Trattato di Maastricht: ci consentono infatti di capire bene perché i processi che ne sono seguiti, in conformità ai suoi dettati, o per rendere più organica in sede istituzionale la costruzione europea, abbiano effettivamente premuto sulla qualità della democrazia e in quale senso questo si sia realizzato o si stia realizzando.

L’andamento, dunque, della democrazia, questa è la mia tesi, si caratterizza in questo periodo in tutta l’Unione Europea per una crescente erosione e per crescenti  deficit, talora anche per il precipitare, in questo o quel paese, di crisi – che è quindi improprio assegnare a soli fattori locali.

Analizziamo dapprima la questione come si pone sul versante italiano, poi come si pone su quello europeo.

La sostituzione in Italia del sistema proporzionale di definizione della rappresentanza da parte del sistema maggioritario, motivata con obiettivi di funzionalità (di “governabilità”), è stata in buona sostanza la sostituzione del sistema democratico della rappresentanza con il sistema liberale predemocratico: la governabilità così concepita è perciò una governabilità che si vuole svincolata da ogni relazione con le attese e le sollecitazioni delle maggioranze sociali, ovvero una governabilità tendenzialmente ademocratica (se si considera troppo semplificante l’analogia tra il sistema maggioritario attuale della rappresentanza e il sistema liberale predemocratico, la “governabilità” così concepita può allora essere definita come tendenzialmente post-democratica). Se a ciò si unisce il tracollo di una dozzina di anni fa dell’intero sistema italiano di forze politiche, dei protagonisti cioè del compromesso di classe della Resistenza e della Costituzione, già esso fondato su welfare e democrazia, e si unisce la composizione politico-culturale concreta della destra, che ha sostituito anche in quanto coalizione di governo le componenti di centro di quel sistema di forze politiche, si vede bene come l’Italia sia il sito di massima crisi della democrazia in Europa occidentale. La responsabilità principale dell’avvio di questo processo involutivo in sede di sistema di definizione della rappresentanza e, più in generale, della crisi della democrazia fu della sinistra moderata, paradossalmente, perché poi ci ha rimesso essa pure, accanita fautrice infatti più di chiunque altro della riforma liberaledella rappresentanza e accanita sostenitrice molto spesso assai di più della destra degli orientamenti di Maastricht in fatto di politiche di bilancio (la sua parola magica era, e purtroppo continua a essere, quella del “rigore”), dunque dei tagli alla spesa sociale e della riduzione delle protezioni cioè della precarizzazione del lavoro (la sua parola magica a quest’ultimo proposito era, e purtroppo continua a essere, quella della “flessibilità”). Allo sbandamento liberale degli anni ottanta si univa infatti una coda di paglia lunga chilometri quindi un’ansia feroce di dimostrare il proprio consenso pieno e convinto al liberalismo, perciò alle richieste capitalistiche, dei mass-media, ecc. di governo forte, capace di resistere alle sollecitazioni da parte della propria stessa base sociale, ecc. Senza gli effetti di disorientamento e di disorganizzazione in sede di popolo di sinistra è assai dubbio che la destra italiana sarebbe riuscita ad avere per due volte in questi anni il consenso per governare.

E però, bastano questo disorientamento e questa disorganizzazione ad argomentare il successo della destra? Ciò che è accaduto in Italia nelle teste della maggioranza sociale, e di larga parte delle classi subalterne, ivi compresa la classe operaia, sono invece un sommovimento e una crisi più ampi e più profondi. Siamo cioè in presenza non semplicemente di uno sbandamento ma di un almeno parziale riallineamento culturale. Le paure mobilitate dalla caduta delle condizioni di vita e della sicurezza delle prospettive vengono proiettate sulla figura sociale più debole dell’immigrato, per esempio, vissuta, anche se in genere non è vero, come altamente competitiva sul piano del  lavoro e su quello dell’accesso al pool in via di restrizione di servizi sociali, dando così vita a forme di xenofobia e di razzismo di massa, dentro alle quali ovviamente mangiano le proposte dei vari tipi di destre di farla fuori in quattro e quattr’otto, orientando la repressione dello stato verso l’immigrazione o magari mobilitandosi in ronde padane. Questo ci dice, non qualcosa di meno, il calo continuo della partecipazione elettorale, da parte soprattutto delle classi subalterne, ivi compresa la classe operaia, il voto di loro quote significative per formazioni populiste, per avventurieri e per formazioni di destra, il loro voto spesso dato a casaccio.

Parimenti questo sommovimento sta accadendo ovunque nell’Unione Europea e anche, benché in modalità in parte diverse, in alcuni paesi candidati all’entrata nell’Unione Europea. In altre parole, erosione e crisi della democrazia e più o meno significativi riallineamenti politico-culturali sono operanti pressoché ovunque nei paesi della costruzione europea. Esse dunque hanno ragioni generali, benché, ovviamente, pure inoltramenti più o meno avanzati, dispiegamenti specifici, tratti locali, a volte aggravanti, questi ultimi, come per l’appunto in Italia. Queste ragioni, in termini molto generali, stanno appunto nell’ininterrotta erosione dei sistemi di welfare praticata da più di dieci anni dalle istituzioni di governo dell’Unione Europea, sulla scia del contenuto dei Trattati, e dall’insieme dei governi dei vari paesi membri, di centro-destra o di centro-sinistra che fossero. Pertanto nella psicologia, nella cultura collettiva e nei comportamenti politici delle popolazioni europee, e soprattutto in quelli delle classi subalterne, hanno cominciato a lacerarsi, tanto nella forma di una crescente passivizzazione e di un crescente disorientamento politici che di un riallineamento politico-culturale, un po’ com’è da sempre, in termini più generalizzati, negli Stati Uniti, il rapporto con lo stato, per la semplice ragione che sta venendo meno per esse l’utilità dello stato, anzi lo stato gli appare sempre più come mero e fondamentale produttore di caduta delle condizioni di vita e di insicurezza. Lo stato cioè è visto sempre più da esse o come ostile o come oggetto di una rivendicazione di maggiore sicurezza nei confronti di questa o quella figura sociale fatta di povera gente vissuta come minaccia o in ambedue i modi assieme.

Indubbiamente, allora, le caratteristiche di orientamento della destra italiana e ancor più le particolari caratteristiche del suo capo rappresentano specifici elementi di pericolosità per la qualità della democrazia in Italia – escluderei invece di parlare di una possibilità di cancellazione anche formale della democrazia. Questo significa che la politica della destra italiana sul versante della giustizia, su quello del sistema informativo, in fatto di devolution, in fatto di presidenzialismo piuttosto che di premierato, ecc. dev’essere contrastata, e non solo in sede istituzionale ma con grandi mobilitazioni di opinioni pubblica e di movimento. Ma vale anche in Italia, al tempo stesso, ciò che vale negli altri paesi della costruzione europea: che solo in unità alla lotta per la ripresa dei sistemi di welfare la lotta per la ripresa della democrazia può fare risultati importanti e stabili, altrimenti si rischia assai di non farcela.

In secondo luogo, sulla scia di quanto appena scritto, la crescente erosione della democrazia si esprime nel contesto della costruzione europea nel consolidamento dell’esclusione di un’area crescente di europei, cioè nella loro deprivazione di ogni tipo di tutela e nella loro messa a disposizione di ogni prepotenza, pubblica e privata. Si tratta in parte dell’area dei lavoratori immigrati, in parte della povera gente che cerca di entrare nell’Unione Europea senza disporre di titolo legale. A fornire la base giuridica di trattamenti vessatori è, in una parte della costruzione europea, ivi compresa l’Italia, l’Accordo di Schengen; inoltre vari governi hanno introdotto, più recentemente, tra i quali quello italiano, ulteriori norme vessatorie. La gestione di conseguenza di immigrati legali e illegali è ormai di pertinenza delle varie polizie, e inoltre l’azione delle varie polizie sfugge ad ogni possibilità di controllo che non sia del tutto episodica, inoltre è intrisa anche di soprusi illegali. In sostanza, quindi, anziché contrastare culturalmente la destra i vari governi di centro-sinistra e di centro-destra dei paesi della costruzione europea nonché le istituzioni di quest’ultima hanno scelto di assecondare l’onda xenofoba e razzista, pensando così sia di tenerla sotto controllo e di smussarne le punte estreme che di evitare danni a sé sul terreno del consenso. Un gioco molto pericoloso, dunque, per la democrazia ma anche per loro.

In terzo luogo, stanno crescendo uno spazio giuridico europeo e una strumentazione di apparati di polizia europei, a cui forse si accompagnerà più o meno a breve una procura europea, che se opportunamente motivati da obiettivi di lotta alla grande criminalità organizzata non sono però accompagnati da una parallela costituzione di ambiti della giurisdizione in grado di tutelare chi sia oggetto di indagini, di provvedimenti limitativi della libertà personale, in particolare sul versante degli immigrati, ecc.

Resta da sottolineare, in ultimo, come il deficit di democrazia sia connesso anche all’architrave istituzionale che l’Unione Europea si è data. Niente di strano:  è difficile pensare che una politica tesa alla demolizione della spesa sociale e alla precarietà del lavoro possa giovarsi di un assetto democratico, quindi possa fare a meno di una Commissione Europea nominata dai governi dei paesi membri e che non risponde a nessuno, della centralizzazione nella Commissione e nel Consiglio Europeo non solo del potere esecutivo ma anche di quello di iniziativa legislativa, di un Parlamento Europeo privo di un potere parlamentare fondamentale qual è quello di iniziativa di legge e quindi mero luogo, se rifiuta la propria complicità, di proclamazioni senza effetti sostanziali, di una Banca Centrale Europea che non risponde essa pure a nessuno, di una farraginosità estrema dei processi di produzione legislativa, a partire da quelli parlamentari, di una pressoché totale mancanza, quindi, di trasparenza e di visibilità di ciò che accade nelle varie sedi istituzionali.

Il problema di assetti istituzionali e di procedure quanto meno leggibili della costruzione europea – precondizione elementare di ogni possibilità di controllo democratico – non è perciò solamente nelle resistenze di una parte dei governi degli stati membri a rinunciare a proprie prerogative ecc., bensì è dato dall’orientamento stesso dei trattati che oggi orientano la costruzione europea, quello di Maastricht, poi quello, che lo completa, di Amsterdam.

Ma la cosa di gran lunga più grave, credo sia di per sé evidente, è la confusione asimmetrica dei poteri, cioè l’ipercentralizzazione del potere negli esecutivi. Crisi della democrazia, in breve, significa anche crisi della divisione dei poteri. Non solo in Italia ecc.

b. Popolazioni diverse e cioè concezioni sociali diverse degli assetti istituzionali della costruzione europea

Alle dimensioni altamente contraddittorie della costruzione europea, già numerose e complicate, ne va aggiunta un’altra: le concezioni diverse, talvolta di segno contrario, o quanto meno di non facile composizione, nelle popolazioni europee degli assetti istituzionali da completare della costruzione stessa.

Quando, perciò, nelle discussioni, che attraversano sin dal suo inizio la costruzione europea, si confrontano posizioni alternative o comunque assai diverse tra i governi in fatto di assetti istituzionali, tra quanti dunque, schematizzando, propendono per assetti tendenzialmente federali e quanti propongono assetti che tendono invece a conservare i requisiti primari della sovranità negli stati membri, o addirittura pensano alla costruzione europea come solo ad una zona di libero scambio a forte regolazione politica, e quando il risultato di queste discussioni è dato da compromessi barocchi e illeggibili e dal rinvio dei contenziosi di fondo, com’è appena successo nella Convenzione finalizzata ad un Trattato Costituzionale, non si tratta semplicemente del fatto che alcuni establishment di governo e alcuni apparati statali temono la perdita di prerogative, di relazioni privilegiate con gli Stati Uniti, di possibilità di fare rifulgere la grandeur del passato, di vedere il proprio paese colonizzato dalla Germania o dalla Spagna, o altro ancora. Si tratta invece del fatto, in primo luogo, di diversità fondamentali nelle concezioni e nella psicologia delle popolazioni, condivise quasi sempre da establishment e apparati statali per il semplice fatto di essere stati selezionati dalle loro popolazioni. D’altro canto nei vari cicli di trattativa sulle prospettive della costruzione europea establishment e apparati statali ben difficilmente avrebbero potuto resistere sulle loro specifiche posizioni senza l’appoggio delle loro popolazioni, a più o meno larga maggioranza.

La radice di queste diversità sta nella storia dei vari paesi.

La nostra popolazione, per esempio, proietta sull’Europa aspettative assai simili a quelle del Risorgimento in fatto di unificazione dell’Italia, cioè guarda al rapporto più stretto possibile con gli altri paesi europei, dunque a un rapporto, in concreto, di tipo federale. A questo rapporto inoltre guarda perché i principali paesi dell’Europa occidentale furono protagonisti politici e militari essenziali del nostro Risorgimento (senza cioè, nell’ordine, Francia, Inghilterra e Prussia esso non si sarebbe realizzato), guarda dunque affettivamente a questi paesi per quel loro ruolo nella parte centrale dell’Ottocento che fu alla base dell’esistenza stessa dell’Italia. A loro volta Germania, Spagna e Belgio avendo una dimensione federale hanno pure popolazioni che tendono a proiettare questa dimensione sui loro rapporti con le altre popolazioni europee. Le troviamo così, assieme a quella italiana, tra le più predisposte a una costruzione europea caratterizzata da questa dimensione.  Ma la storia e la forma statale di altre popolazioni sono diverse. Ci sono popolazioni molto legate alla loro dimensione statale perché essa ha una lunga tradizione e perché è stata quella di una grande potenza: i francesi, i britannici, o meglio gli inglesi. Ci sono popolazioni che temono di essere divorate da una grande popolazione contigua, ed è per questo che sono accanitamente per la conservazione della loro sovranità statale: i portoghesi, che vivono appunto la Spagna come vicino potenzialmente soverchiante, i danesi ma anche gli svedesi, che vivono in questa veste la Germania. Finlandesi, baltici e popolazioni dell’Europa centrale pur temendo, a loro volta, di ricadere sotto il dominio russo – anche per questo si sono orientate nel senso dell’adesione all’Unione Europea – tuttavia propendono esse pure per il mantenimento della sovranità dei loro stati: finlandesi, polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi, sloveni, baltici infatti non vogliono diventare tedeschi, direttamente o per la mediazione, alcune di queste popolazioni, dell’Austria. Dietro alla discussione assai tesa alimentata dai cosiddetti piccoli paesi, che ha attraversato la Convenzione per il Trattato Costituzionale e che continuerà nella prossima Conferenza Intergovernativa, discussione intesa a evitare la possibilità di essere esclusi dalla composizione della Commissione, sta proprio questo: di non consentire non solo ad una riduzione di rango nei processi decisionali nell’Unione Europea ma pure, fondamentalmente, ad una prospettiva di estinzione della propria identità di popolazioni, fatta della lingua ma anche di tratti distintivi dell’economia e della legislazione, di istituzioni specifiche, di una psicologia collettiva, di una cultura comune, di usanze, ecc.

Le sinistre politiche anticapitalistiche civilizzate oltre a sostenere l’utilità della costruzione europea in quanto impedimento al ritorno della guerra nei contenziosi tra gli stati europei hanno anche sostenuto che il diritto fondamentale delle popolazioni all’autodeterminazione si esercita anche consentendo oggi in Europa a quelle che lo vogliano di entrare nella costruzione europea – così come a quelle che vogliano recedere di farlo. Ma il riconoscimento di un tale diritto di accesso deve anche comprendere un percorso e caratteristiche istituzionali della costruzione europea rispettosi del diritto delle popolazioni a continuare ad autodeterminarsi, perciò, in primo luogo, ad esistere secondo quelle caratteristiche che gli sono care.

Di conseguenza noi, i tedeschi, gli spagnoli, i belgi non possiamo pensare di imporre la nostra idea della costruzione europea, cioè la costruzione di un’Europa federale, ad altre popolazioni. E siccome un punto d’incontro intermedio non c’è, a meno di grossolani pasticci, o a meno della recessione dalla costruzione europea di popolazioni che pure ne vogliono essere partecipi, si tratta di concludere che la costruzione europea non può che continuare a essere un’unione di stati sovrani. Potrà anche essere chiamata, se si vorrà, federazione di stati sovrani, sotto il profilo lessicale ogni espediente è saltato fuori in questi anni e continuerà a saltar fuori, ma sapendo che si tratta di una formazione sui generis, sempre statale ma sui generis, che unisce cioè stati sovrani.

Un esempio, l’ho già accennato, di come tentare di forzare sul terreno della propensione federale arrivando poi a mediarla con l’altra porti solamente a pasticci ci è fornito proprio dal risultato della Convenzione per il Trattato Costituzionale. Anziché giungervi ad una semplificazione degli assetti istituzionali, a nome tanto della loro funzionalità, messa in crisi dall’allargamento, che della leggibilità di ciò che vi avviene, quindi a nome della democrazia, vi si è giunti a convenire per la bellezza di quattro separate istanze esecutive: accanto al Consiglio e alla Commissione, cioè, una Presidenza stabile del Consiglio, nominata, come la Commissione, dai governi, e una sorta di Ministro degli Esteri, esso pure nominato dai governi, affiancato tanto al Consiglio che alla Commissione.

Nessuno poi, naturalmente, si è premurato di proporre che il Parlamento Europeo abbia il potere, proprio di ogni parlamento democratico, di iniziativa di legge.

Il pasticcio perciò della Convenzione si caratterizza anche per recare e per più vie un ulteriore incremento, e non poteva essere altrimenti, dato l’orientamento sostanziale in materia sociale degli establishment europei di governo, al deficit democratico.

c. Come immaginare, in ipotesi, una democratizzazione a breve della costruzione europea

Una costruzione europea democratica è praticabile anche qualora la sua forma istituzionale sia quella di un’unione di stati sovrani. Anzi probabilmente è più realmente praticabile in questa forma istituzionale. Questa almeno è la mia convinzione.

Intanto anche in questa forma potrebbero essere assegnati al Parlamento Europeo i poteri di iniziativa di legge. Il Consiglio potrebbe essere trasformato in una seconda camera, assumendo quindi esso pure la pienezza dei poteri parlamentari e al tempo stesso rinunciando a quelli esecutivi. Esso inoltre, opportunamente, potrebbe operare solo sulle questioni principali, evitando alla produzione legislativa quelle lungaggini e inefficienze, il cui risultato è sempre una centralizzazione indebita di poteri nell’esecutivo. La Commissione potrebbe benissimo continuare a comprendere i rappresentanti della totalità degli stati membri, basterebbe organizzarla seriamente (è una panzana che la sua inefficienza sia connessa alla numerosità dei membri: i governi di tutti i grandi paesi europei sono fatti di una trentina o quarantina di ministri), e potrebbe essere di elezione sia da parte del Consiglio che del Parlamento – e da essi sfiduciabile, ecc.

Soprattutto, però, il fatto è che la democrazia in Europa è sorta e si è sviluppata nell’involucro dello stato nazionale. Le popolazioni europee sono abituate alla democrazia in quest’involucro noché alle forme concrete, diverse a seconda dei vari paesi, di quest’involucro. Le popolazioni hanno invece un’enorme difficoltà a capire, accettare e maneggiare quel poco di democrazia che vige a livello di costruzione europea. Solo perché è poca, le istituzioni sono illeggibili, promana da esse un diluvio di norme antisociali, ecc.? Io penso, invece, che sia anche perché si tratta di una dimensione storicamente nuova, quindi perché manca un apprendistato delle popolazioni all’esercizio in essa della democrazia, inoltre perché i suoi assetti istituzionali e le sue procedure pratiche sono, ad oggi, il ricalco imperfetto di quelle degli stati nazionali e non è per niente detto che questo ricalco possa davvero funzionare. L’apprendistato potrebbe portare a scoprire, sperimentalmente, pragmaticamente, che alcuni assetti istituzionali e alcune procedure pratiche dovrebbero essere cambiate, o notevolmente adattate, integrate, ecc. Infatti con l’allargamento si tratterà di mezzo miliardo di persone: vero è che ci sono stati con una dimensione demografica confrontabile o superiore, ma le cui istituzioni funzionano, a forma democratico-parlamentare o no che siano, anche perché caratterizzati da una certa omogeneità etnica oppure perché c’è una popolazione dominante: mentre né l’una né l’altra cosa nella costruzione europea esistono.

E’ quindi, in breve, anche un principio di precauzione quello che dovrebbe indurre le sinistre antisistemiche, proprio a nome della democrazia, a procedere senza mettere in discussione il fatto della perduranza in senso pieno, primario, della dimensione nazionale della democrazia: ciò che in concreto appunto significa la perduranza della sovranità degli stati membri della costruzione europea. Almeno sino a quando, insieme, non sarà stata sperimentata e non sarà concretamente avviata una dimensione europea adeguata, vigorosamente partecipata, della democrazia e inoltre le popolazioni che intendono conservare il carattere sovrano dei loro stati non abbiano cambiato idea.

A ciò va aggiunto che la costruzione europea, ancorché imperfetta e indefinita nelle sue prospettive istituzionali, si è caratterizzata ad oggi per un deficit di democrazia che ha il suo fondamento in una condizione di ipercentralizzazione dei poteri nelle mani dei livelli esecutivi, cioè di Consiglio e Commissione. Non ci si deve ingannare circa le ragioni di questo. Non si tratta affatto, secondo la vulgata del centro liberale o democristiano o della sinistra socialdemocratica, del mero fatto di una costruzione in fieri, che è cominciata pragmaticamente così, che si tratta solo di completare, che alla fine cioè ineluttabilmente sarà democratica perché è così nella natura della costruzione stessa, nella sua ispirazione di fondo, ecc. Assurdità. Il deficit democratico all’origine, ammesso e non concesso che fosse necessario, si è solo approfondito e dilatato in questi anni, e questo per la semplice ragione che le politiche antisociali di Maastricht non possono essere realizzate a prescindere da questo deficit e il loro effetto non può che essere l’allargamento di questo deficit.

Concludendo, in via intuitiva io perciò penso che la democrazia possa essere rilanciata e funzionare sulla scala della costruzione europea a condizione che essa divenga un sistema coordinato di livelli autonomi della democrazia. Ciò che significa un sistema coordinato di livelli autonomi della sovranità. In concreto secondo me si dovrebbe pensare, in primo luogo, a una costruzione europea fondata su una distribuzione razionale della sovranità a partire dalla mera delega di parte della sovranità degli stati sovrani alla costruzione europea stessa. Utile mi sembrerebbe pure una definizione di massima da parte della costruzione europea di un elevato grado di decentramento dei poteri degli stati membri a vantaggio delle loro dimensioni locali – regioni, grandi agglomerati urbani, territori abitati di minoranze etniche. Si avrebbero così due livelli coordinati e al tempo stesso autonomi della sovranità (quello degli stati nazionali e quello della costruzione europea) e tre livelli coordinati e al tempo stesso autonomi della democrazia (quello degli stati nazionali, quello della costruzione europea e quello delle dimensioni locali).

Il modello dunque, absit iniuria verbi, a prescindere cioè dal fatto che la democrazia non c’era, nonché mutatis mutandis, è un po’ quello della cosiddetta distribuzione segmentaria della sovranità che fu propria della Confederazione Germanica nell’Ottocento: che era fatta di una quantità di stati sovrani che tuttavia ne avevano delegata parte al centro imperiale. Si trattò inoltre di una forma di stato capace di evolvere nel senso di gradi superiori di integrazione tra gli stati membri, come documenta il fatto, dopo la guerra tra Austria e Prussia, dell’unione doganale. Siamo abituati ad una totale pertinenza della sovranità allo stato centrale, quindi tendiamo a pensare ad analoga pertinenza quando ragioniamo dell’Unione Europea, così dividendoci tra chi ci sta e chi non ci sta: ma questa totale pertinenza è un prodotto della storia, quindi si può farne a meno, con gli strumenti della politica. Anzi questa totale pertinenza si è generalizzata al pianeta da poco più di un secolo soltanto: la Confederazione Germanica morì nel 1918.

In conclusione: non una centralizzazione della sovranità nell’Unione Europea ma una distribuzione segmentaria della sovranità. Quindi anche una distribuzione segmentaria della democrazia. Una divisione del lavoro e raccordi strutturati, razionali e definiti attraverso una discussione e una sperimentazione democratiche tra livelli della sovranità e tra livelli della democrazia. Probabilmente non c’è altra strada per il rilancio e una nuova crescita della democrazia in Europa.

4. All’inizio, probabilmente, di un terzo periodo del processo della costruzione europea

a. Il nuovo quadro europeo determinato dal nuovo orientamento degli Stati Uniti

L’11 settembre rappresenta una svolta radicale della posizione e del comportamento degli Stati Uniti nei confronti della costruzione europea. La questione è molto semplice: gli Stati Uniti prima l’accettavano, l’avevano pure appoggiata, soprattutto all’inizio, oppure tollerata, magari con qualche scetticismo, verso la moneta unica per esempio. L’amministrazione Clinton aveva accettato qualche anno fa la creazione di un dispositivo militare dell’Unione Europea, alcune cose erano state fatte, come i comandi e i raccordi con la NATO, e se poi il dispositivo militare si era perso in lungaggini queste erano state di fonte tutta europea. Dopo l’11 settembre invece la costruzione europea fa problema per gli Stati Uniti, nel senso che o essa accetta di piegarsi alla loro attitudine imperiale, tende a essere un’area di alleati significativi e però pure subordinati, o va disfatta, in concreto fatta regredire a zona di libero scambio, mettendo così i paesi in disaccordo con gli Stati Uniti in condizione di non nuocere. Non è per niente un caso che non solo la Gran Bretagna ma anche un paese a tradizionale vocazione federale come la Spagna in ragione dell’allineamento agli Stati Uniti da parte dei suo governo di destra sia repentinamente passato dal lato del cosiddetto euroscetticismo o che l’Italia, per la medesima ragione, prospetti adesso un’incertezza rispetto alla costruzione europea che non era mai esistita.

La guerra all’Iraq ha consentito di comprendere la disponibilità o meno alla nuova politica degli Stati Uniti da parte del complesso degli attori politici europei. In genere i governi di destra, con l’eccezione francese, si sono allineati agli Stati Uniti, magari, come quello italiano, che si è trovato a fronteggiare un’opposizione oltre che da parte di una larga maggioranza della popolazione anche da parte vaticana, con qualche lacerazione interna e qualche contorsione. I governi di centro-sinistra o di sinistra moderata invece, con l’eccezione britannica, si sono schierati, a vari gradi di determinazione, contro. Lo stesso dicasi della Commissione Europea. I paesi candidati dell’Europa centrale e del Baltico si sono schierati con gli Stati Uniti. Il paese più determinato sia nell’Unione Europea che all’ONU nell’opposizione alla guerra all’Iraq è stato la Francia. Francia e Germania insieme sono state decisive, infine, nel determinare la posizione contraria prima della Russia e poi della Cina, quindi della maggioranza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. 

Perciò la costruzione europea si è assai incrinata. Il suo tentativo, incarnato nella figura di un responsabile della politica estera e di difesa, di avere una pratica comune in politica estera ha mostrato tutto il suo limite sostanziale, dovuto al fatto che questi non è in concreto che il depositario di una delega da parte dei governi dei paesi membri, che ovviamente c’è solo quando essi sono d’accordo. Solo apparentemente il contenzioso è stato superato spostando l’attenzione dei governi dei paesi membri sul cosiddetto dopoguerra iracheno. Gli scontri d’altrondde erano stati pesanti e parte dei contendenti necessitava di prendere fiato: la Gran Bretagna, dove era stata assai forte la contestazione popolare della guerra, la Spagna, per lo stesso motivo, ma anche la Germania e la Francia. Tuttavia, come dimostra la recentissima rissa tra Germania e Italia, il contenzioso cova tutto quanto sotto la cenere. In ballo infatti non c’è semplicemente il dopoguerra iracheno ma come orientare la costruzione europea: una costruzione a cui da un lato nessuno è in grado di rinunciare senza subire disastri economici e politici e la cui prospettiva però, data la politica attuale degli Stati Uniti, si è differenziata in senso radicalmente alternativo, in relazione appunto al rapporto dei vari governi alla politica attuale degli Stati Uniti.

Pertanto l’Unione Europea sta condividendo la sorte di tutte le altre istituzioni internazionali: se esse non si piegano diventano oggetto di azioni ostili e distruttive più o meno palesi o più o meno striscianti da parte degli Stati Uniti. Le istituzioni stesse più fungibili, per la loro natura, alla nuova politica degli Stati Uniti, come la NATO, se non riescono a praticare, per qualche resistenza interna, tale loro fungibilità vengono messe da canto e sostituite da associazioni ad hoc di stati. Da un lato questa politica destruttura i precedenti sistemi di relazioni internazionali, con le loro istituzioni e le loro regole, più o meno precise o più o meno approssimative, e però dall’altro tende ad una nuova legalità internazionale, quella delle guerre statunitensi, di un mondo sottoposto al comando statunitense, del controllo statunitense delle fonti di energia, eventualmente, per ragioni di legittimità di questa politica, dei tentativi di pacificazione statunitensi, eventualmente, domani, perché no, di nuove istituzioni planetarie o regionali a comando statunitense. Il progetto ALCA non ci dice anche questo? Tuttavia, appunto, c’è nei governi europei chi trova conveniente starci e chi no, esattamente come nel resto del mondo.

b. Come contrastare in Europa il nuovo orientamento degli Stati Uniti

Va da sé che il nostro problema numero uno dal punto di vista del contrasto alla nuova politica internazionale degli Stati Uniti è quello dello sviluppo planetario del movimento e delle lotte di classe e il problema numero uno bis è quella della tenuta, su tutti i piani, anche grazie alla solidarietà internazionale, di quei paesi dell’America Latina che per primi hanno trasformato la resistenza sociale al liberismo e alle richieste degli Stati Uniti in cambiamenti fondamentali di governo. Per le sinistre antisistemiche queste mi paiono però questioni del tutto scontate, perciò neanche su queste mi dilungo.

Queste cose però non mi sembrano esaustive. Manca, in sostanza, secondo me, una risposta efficace a breve, esattamente al problema fondamentale di come imbrigliare più presto che si può gli Stati Uniti. E’ possibile – che sia auspicabile dovrebbe andare da sé – riuscire in tempi brevi a contrastare il nuovo orientamento degli Stati Uniti, tentando cioè di contenerne iniziative e disastri, per esempio ridando un po’ di autonomia e di fiato all’ONU, e per questa via di contribuire a battere quest’orientamento? Come? E con quali prospettive?

Qui la risposta secondo me è questa: si tratta di operare per la ricostituzione di un mondo multipolare. Si tratta, inoltre, non solo di un problema ineludibile ma da porre innanzitutto alla costruzione europea.

Ci sono quindi ben due ragioni per affrontarlo da parte nostra con molta attenzione: l’urgenza e il fatto che esso ci impegna direttamente.

Un problema innanzitutto da porre alla costruzione europea. Infatti può toccare solo alla costruzione europea, e alla costruzione europea così com’è attualmente, una formazione sociale  capitalistica, di assumere l’iniziativa della produzione delle condizioni dell’imbrigliamento degli Stati Uniti. Tocca alla costruzione europea. Come ho poc’anzi accennato, oltre alla resistenza alla guerra all’Iraq da parte del movimento c’è stata quella di uno schieramento di stati, ciò che avendo impedito che la guerra avesse una parvenza di legalità ha contribuito alla sua delegittimazione planetaria, pertanto alla grande dimensione delle mobilitazioni di movimento e ad un grande consenso planetario attorno a queste mobilitazioni, Europa compresa: e questo schieramento senza la fermezza della Francia e, sull’esempio della Francia, quella di una parte importante dei paesi membri dell’Unione Europea non sarebbe riuscito a costituirsi. Russia e in modo particolare Cina si sono mosse solo dopo che si erano mosse la Francia e la Germania. La ragione di quest’efficacia dell’iniziativa di contrasto agli Stati Uniti da parte di Francia, Germania, altri stati, nel complesso da parte della maggioranza degli stati membri dell’Unione Europea, sta nell’immensa forza economica che si trova centralizzata in questa parte dell’Europa. Tocca alla costruzione europea, inoltre, così com’è attualmente, cioè capitalistica: anzi militarista e con tanto di governo di destra nel caso della Francia, idem nel caso della Russia, con l’aggravante del massacro coloniale in corso in Cecenia: possibilità infatti di cambiamento radicale degli assetti di governo non sono destinate a presentarsi qui da noi in tempi brevi.

A questo poi è da aggiungere che il mondo multipolare possibile a breve non avrebbe neppure fuori dall’Europa entità organicamente antagoniste, antagoniste cioè anche sul piano strutturale, agli Stati Uniti. Per quanto la Cina sia sul piano strutturale un complicato problema, essa ha deciso da tempo di collocarsi dentro al processo della globalizzazione capitalistica, cioè dentro al processo di accumulazione e di riproduzione del capitale globale. Il Brasile di Lula, a sua volta, è solo all’inizio del suo tentativo di emancipazione e di quello di trascinamento con sé dell’America Latina.

Proprio tutta la costruzione europea, infine, coinvolta a breve nella ricostruzione di un mondo multipolare, nel contrasto agli Stati Uniti, ecc.? Quasi certamente no. Abbiamo pure visto come la guerra all’Iraq abbia disarticolato l’Unione Europea tra paesi che hanno osteggiato l’azione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, con maggiore o minore determinazione, e paesi che l’hanno appoggiata, idem. Abbiamo visto inoltre come i paesi candidati dell’Europa centrale e del Baltico abbiano appoggiato quest’azione. Ci potranno essere nei prossimi tempi cambiamenti nella collocazione di questo o quel paese, a seguito di cambiamenti di governo, ma quasi certamente questa disarticolazione non verrà meno. Se, in ipotesi, le prossime elezioni britanniche vedranno la sconfitta dei laburisti, il nuovo governo probabilmente ne proseguirà la sostanza della politica di stretta alleanza agli Stati Uniti. Non dovrebbe invece essere così nel caso di una sconfitta elettorale della destra spagnola o di quella italiana. Almeno così mi pare; benché pure pensi che la determinazione a contrastare gli Stati Uniti non sarà coraggiosissima da parte di un ipotetico governo italiano di centro-sinistra.

Si deve dunque anche constatare come la vocazione pacifista in sede interna, riguardante cioè gli europei, organica alla costruzione europea sia da un lato messa in discussione tanto dalla pressione dirompente esercitata dalla nuova politica degli Stati Uniti, efficace, non a caso, sui governi a più organico orientamento antisociale, ma come dall’altro essa sia forzata da questa stessa politica a proiettarsi fuori dai confini dell’Europa. Paradossalmente, in più, attraverso l’iniziativa di un paese come la Francia, che è tra i meno pacifisti, anche sotto il profilo della propria dimensione politico-culturale collettiva, della costruzione europea. La costruzione europea tende così a disarticolarsi non su una ma su due linee direttrici: a proposito del fatto o meno di condividere la regressione dell’Unione Europea, de facto, a zona di libero scambio, e a proposito del fatto o meno di conservare il tradizionale rapporto di affidamento della politica estera ad una partnership con gli Stati Uniti nella quale essi sono il paese guida. D’altro canto perché l’Unione Europea oggi esista come entità politica autonoma occorrono tanto il fatto di completarsi come costruzione politica che quello dell’autonomia dagli Stati Uniti, non solo il fatto di completarsi come costruzione politica, e la Francia, l’unico paese della costruzione europea ad avere oggi un establishment di governo degno di questo nome, lo ha capito molto bene. Naturalmente, poi, come in ogni crisi che si rispetti la fase iniziale risulta sistematicamente, per non dire necessariamente, attraversata da ogni tentativo di mediazione e di ricomposizione possibile, sia per l’azione di forze intermedie o che non hanno in chiaro i termini complessivi della partita, sia perché i contendenti fondamentali tentano di conquistare chi si trovi su posizioni intermedie o abbia le idee poco chiare, sia per la debolezza di una parte dei contendenti.

La mia conclusione di tutto il ragionamento è perciò questa: è nelle possibilità reali a breve l’imbrigliamento degli Stati Uniti, attraverso la ricostituzione di un mondo multipolare, e questo nonostante forti entità strutturalmente antagoniste agli Stati Uniti oggi non esistano, come fu invece il “campo socialista” dominato dall’Unione Sovietica – ciò che per carità non significa, ma dovrebbe andare da sé, che il “socialismo reale” fosse davvero socialista. Però anche questo è un altro discorso. Inoltre senza il contributo determinante dei due paesi più forti dell’Europa occidentale questa ricostituzione non è fattibile. Occorre quindi che le scelte politiche – un tempo si sarebbe detto la tattica – delle sinistre antisistemiche siano articolate in modo da facilitare questo sbocco.

c. A proposito, quindi, di alcuni nodi fondamentali della costruzione europea

Tutto ciò pone, com’è intuibile, problemi particolari assai complicati. Intanto per quanto attiene alla stessa costruzione europea. Si tratta di decidere se il suo assetto attuale, qualora, com’è altamente probabile, non regga nella sua interezza l’urto della politica statunitense sia opportuno tutelarlo con infiniti compromessi, com’è per esempio nell’attitudine attualmente prevalente della Commissione Europea, della socialdemocrazia e di molti dei governi che pure si collocarono contro la guerra all’Iraq, oppure se sia opportuno esplorare le possibilità di una costruzione europea con altro assetto, o meglio con assetti più elastici e dai confini sfumati, come probabilmente pensa il governo francese, anche se non lo può esplicitare.

Va da sé, credo, che tuttavia l’esplorazione da parte delle sinistre antisistemiche di questa possibilità non implica affatto la convergenza sul complesso delle posizioni francesi, o su quelle di qualsiasi altro paese. Anzi direi che non c’è molta materia di convergenza, fatta salva l’idea di una costruzione europea politicamente forte e su questa base autonoma dagli Stati Uniti.

Parto per spiegarmi proponendo la questione probabilmente più delicata per le sinistre antisistemiche, perché organicamente pacifiste, e che è bene che rimangano tali e anzi rafforzino ulteriormente questa loro dimensione politico-culturale e antropologica. Non è un caso che sotto l’impulso francese e tedesco la Convenzione proponga un’estensione delle possibili “cooperazioni rafforzate” interne alla costruzione europea (sono esempi di cooperazioni rafforzate la stessa moneta unica, che riguarda solo 12 paesi membri, o l’Accordo di Schengen, che ne riguarda 10), comprendendo in esse anche il terreno militare, sino ad oggi escluso, e inoltre che Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo abbiano già cominciato su questo terreno a prepararsi. Questo inoltre avviene di converso al fatto che la Commissione Europea da qualche anno a questa parte sta premendo a favore di una divisione del lavoro tra i paesi della costruzione europea in materia di produzioni militari e all’incremento di questa pressione negli ultimi mesi di questa pressione della Commissione Europea. Tutto questo infine, e soprattutto, sta avvenendo in unità alla proposta, sempre di questi mesi, da più parti, tra le quali il governo italiano, di fare della ricerca e della produzione militare uno dei volani di una ripresa dell’economia. E’ interessante constatare, più in generale, come la qualità della crisi economica stia inducendo molti governi, tra i quali appunto quello italiano, a proporre all’Unione Europea una politica della spesa, finalizzata all’ammodernamento tecnologico delle infrastrutture e alla competitività sui mercati mondiali, che ha nella ricerca e nella produzione militari una delle sue dimensioni principali. Ma su questo passaggio, che unisce elementi di tradizionale keynesismo, nella variante riarmista dell’Europa degli anni trenta, agli elementi fondamentali del liberismo di questi anni, tornerò a breve. Si vedrà come si tratti di un passaggio grosso. Si delinea dunque, attraverso l’unione di cooperazioni rafforzate e di riarmo, la possibilità sia giuridico-politica che economica di un pezzo di Unione Europea che stringe rapporti speciali tra i paesi che lo compongono e che in questo modo si  dà la capacità di essere autonomo dagli Stati Uniti e di contrastarne vigorosamente le iniziative ogni qual volta lo riterrà opportuno. Vero è pure che questo pezzo di Unione Europea propone agli altri paesi membri di raggiungerlo, ma esattamente alla condizione di una preliminare convergenza politica di fondo sul rapporto con gli Stati Uniti. Coopererà con essi, rimarrà nella NATO, entrerà nel dispositivo militare europeo, se mai questo sorgerà, ma soprattutto praticherà la propria collaborazione politica e militare interna. Infine questo pezzo pensa ad un elevato grado di cooperazione sia in sede internazionale e che a livello militare con la Russia. Quindi, che si dice e che si fa da parte nostra? Io penso questo: che sia sbagliato da parte nostra opporsi alla cooperazione rafforzata tra paesi dell’Unione Europea e fuori dall’Unione Europea, come la Russia, l’Ucraina o la Turchia, sul terreno della cosiddetta politica estera e di difesa, così come penso che sia sbagliato opporsi ad una cosiddetta politica estera e di difesa comune dell’Unione Europea, e parimenti penso che non si tratti di lasciar fare ma di intervenire a partire da una concezione tutta alternativa, cioè pacifista, sugli orientamenti di politica estera e sui dispositivi cosiddetti di difesa. Non accettare quelle cose significa solo nel mondo di oggi lasciare la gestione delle crisi agli Stati Uniti, in più lasciare che gli Stati Uniti le producano quando e come vogliono, ecc.; ma al tempo stesso il contrasto agli Stati Uniti non può essere pensato, dal nostro punto di vista, nella forma di una qualche gara militare. A parte l’inaccettabilità di un utilizzo di grandi risorse nella produzione di armi anziché nel benessere delle popolazioni, a parte il fatto che i costi giganteschi del riarmo in Europa fornirebbero un ulteriore alibi alle politiche antisociali in corso, a parte la possibilità, tutt’altro che trascurabile, di accordi ad hoc con gli Stati Uniti per agire di concerto e nella loro medesima prospettiva in questa o quella crisi, noi siamo e dobbiamo rimanere per interventi nelle crisi intanto di prevenzione dei conflitti e nel caso di conflitti per fermarli attraverso azioni di interposizione al più basso tasso militare possibile. Siamo inoltre perché questo avvenga nel quadro di quel poco che c’è di legalità internazionale e di sue istituzioni, tra le quali l’ONU, ciò che inoltre contribuirebbe al loro rilancio. Siamo cioè, in generale, per interventi nelle crisi che siano la prosecuzione della nostra solidarietà alle popolazioni che ne vengono colpite, che ne migliorino immediatamente le condizioni di sicurezza e di vita e che le aiutino ad autodeterminare le loro prospettive. Non si tratta perciò in alcun modo di rinunciare alla nostra autonomia, ergo alle nostre battaglie pacifiste nonché a ottenere risultati immediati in queste battaglie: si tratta però di dare a queste battaglie un’inflessione, una coloritura, una torsione specifica determinate dal nuovo quadro internazionale e da alcune esigenze di base e d’ordine prioritario che vi si configurano, ovviamente anche qui secondo il punto di vista degli obiettivi di liberazione che ci poniamo come sinistre antisistemiche.

Fortunatamente non tutte le questioni sono così complicate, quanto meno all’analisi. Sul terreno sociale occorre battersi per una svolta. Lo stesso dicasi per quanto attiene alle relazioni con la periferia capitalistica. Ho già accennato, benché molto sommariamente, anche perché nelle sinistre antisistemiche essi sono ovvi, a questi punti. E occorre dotare l’Unione Europea di una capacità di governo complessivo della propria dimensione economica e di definizione di una propria politica economica complessiva. Naturalmente gli orientamenti degli establishment di governo e, più in generale, il carattere capitalistico degli assetti sociali non garantiscono per nulla orientamenti non più antisociali, anzi. Tuttavia senza quei passaggi parlare di crescita economica, di occupazione, di mezzi per il rilancio dei sistemi di welfare, di modello ecocompatibile, di mezzi per dare una mano alle popolazioni della periferia capitalistica, di Tobin Tax ecc. è semplicemente ozioso. Per riuscire a eliminare, o quanto meno ad aggirare, parametri restrittivi di bilancio, dispotismi monetari della Banca Centrale Europea, quindi i principali paracarri istituzionali rispetto a questi obiettivi occorre anche avere qualcosa di immediatamente efficace da proporre in alternativa: e una politica economica non si cambia se le istituzioni alle quali essa eventualmente si appoggia e che, inoltre, la rendono in senso strutturale cogente non vengono tolte di mezzo, o quanto meno non vengono modificate, ma parimenti non ci sono le istituzioni per praticare quella nuova.

Ma veniamo a come oggi si configurano questi problemi. C’è, come ho già accennato, un passaggio importante in corso.

Si sarà cioè senz’altro notato che da quando l’attuale fase debole del ciclo delle economie dell’Unione Europea ha cominciato a prospettarsi il parametro del 3% di deficit annuo massimo che orienta nei trattati le politiche di bilancio degli stati membri e a maggior ragione il successivo Patto di Stabilità, che voleva gradualmente abolire il deficit, sono oggetto di aggiramenti, mediante trucchi contabili ed entrate una tantum, nonché oggetto di richieste di duttilizzazione più o meno esplicite da parte di più governi, tra i quali quelli di Germania, Francia e Italia; e si saranno parimenti anche notate la resistenza accanita di Banca Centrale Europea e di Commissione, attraverso l’arcigno Solbes, e le pronte ritirate di questi governi. Il parametro del 3% continua così a esistere. Prodi qualche tempo fa lo definì una cosa “stupida”, finalmente constatandone l’effetto prociclico in condizioni di stasi e di recessione e l’effetto in sede di trend di impedimento di crescite forti e di produzione di prolungati periodi di stasi, ma pure Prodi dovette arrendersi  a Solbes e, dietro a Solbes, alla maggioranza dei membri della Commissione. Perché allora questo parametro continua a esistere. Intanto nella sua veste di surrogato di una politica economica, in quanto fattore principale cioè di orientamento delle politiche di bilancio degli stati membri. L’esistenza della moneta unica, comportando la necessità di una politica economica, e questa però non esistendo, ha fatto appunto sì che se ce ne fosse un surrogato, prendendolo tra le condizioni della moneta unica stessa. Poi il parametro del 3% continua a esistere perché è attraverso questo parametro che si esercita parte fondamentale del potere della Commissione e della Banca Centrale Europea: cioè esso continua a esistere perché è quanto dà alibi e sostanza all’esercizio di questo potere. Infine, e probabilmente soprattutto, perché questo parametro è tra gli strumenti fondamentali delle politiche antisociali liberiste – obbligando appunto al taglio della spesa pubblica.

Ho d’altronde pure già fatto cenno ad alcuni recuperi keynesiani negli orientamenti di politica economica attualmente proposti da alcuni governi all’Unione Europea, consistenti, precisamente, in massicce opere pubbliche “transeuropee” (quali ferrovie ad alta velocità, autostrade, ponte sullo Stretto di Messina, ecc.), in un rilancio della ricerca e in quello del riarmo: e ne è interessante la motivazione di fondo: essa infatti tiene anche ben fermo il nucleo della posizione antisociale liberista praticata in questo decennio. Essa esclude infatti che si tratti di rimettere in movimento l’economia europea a breve – si esclude cioè un ruolo anticiclico di quelle proposte. Sicché una dimensione fondamentale del keynesismo manca: quella tesa a produrre subito lavoro e salari e ad alzare così subito la domanda interna. La motivazione è invece la rimessa in movimento dell’economia sui tempi medio-lunghi, attraverso cioè l’effetto di ammodernamento del sistema europeo, quindi attraverso l’incremento della sua capacità competitiva sui mercati mondiali. Antikeynesianamente perciò i recuperi keynesiani appaiono essi pure orientati all’indebolimento di questi anni per mano liberista della domanda interna – ad abbattimenti ulteriori della spesa sociale e delle condizioni di tutela del lavoro, a riduzioni ulteriori della quota dei salari sul reddito, ecc.

Tuttavia, analogamente al fatto che la ricostituzione di un mondo multipolare attraverso il contributo della costruzione europea porta solo ad un mondo potenzialmente meno pericoloso, perciò è solo in questo senso, tutto antropologico, una condizione più favorevole a una ripresa nel mondo del socialismo, il fatto di una serie di modificazione istituzionali che oltre a democratizzare la costruzione europea vi creino una capacità complessiva di governo dell’economia e questa tendano a riorientare nel senso di una possibilità di crescita del benessere delle maggioranze sociali rappresenta solo una costruzione europea potenzialmente meno pericolosa per le condizioni di vita di tali maggioranze.

Concludendo, le sinistre antisistemiche hanno oggi dinanzi a sé nei paesi della costruzione europea la necessità, operando su una condizione estremamente complessa e che non mette alla portata di mano possibilità di sbocchi alternativi in senso sistemico, globale, così come non mette alla portata di mano possibilità di un mondo multipolare composto anche da formazioni o sistemi di formazioni strutturalmente alternativi al capitalismo, di imparare che è comunque bene tentare di fare il bicchiere mezzo pieno come risultato delle lotte. Ciò che inoltre comporta l’acquisizione di una capacità di discriminazione tra il bicchiere mezzo pieno e il bicchiere mezzo vuoto. Si tratta di una posizione generale di metodo che, in quanto tale, vale sempre: però vi sono momenti in cui è particolarmente importante praticarla, e oggi è proprio uno di questi momenti.

La costruzione europea è dunque un bicchiere mezzo pieno. Può più o meno rapidamente diventare mezzo vuoto, e magari vuotarsi del tutto. Dipende da noi, anche se non solo da noi, che il bicchiere stabilizzi il livello dell’acqua che contiene e magari che ve ne entri un’altra po’.

Ripeto, questo ragionamento è tutto orientato sul breve periodo. Ma i risultati ambizioni vengono sul medio o sul lungo periodo se su quello breve si riesce a prepararli.

Vale pure, d’altro canto, che ciò che si fa nell’immediato non serve semplicemente ad alzare le possibilità di sbocchi ambiziosi ma dà pure in parte forma e sostanza a questi sbocchi.

Ho già accennato a come non ci siano più le condizioni in Europa della ricerca di sbocchi anticapitalistici dentro alle dimensioni degli stati nazionali, quindi di come questa ricerca debba orientarsi a ragionare e ad agire in una dimensione europea. Le caratteristiche positive della costruzione europea, riassumibili in propensioni, ancorché imperfette e talvolta autocontraddette, di tipo pacifista e di tipo democratico, nel senso del pluralismo politico, dei diritti civili e di libertà, della democrazia rappresentativa e dello stato di diritto, non possono essere più considerate come semplicemente le modalità politico-istituzionali più favorevoli all’agibilità delle sinistre antisistemiche, bensì anche come parte di un avanzamento faticoso di civiltà che si tratta da parte delle sinistre antisistemiche non solo di accettare ma di completare, convincendo della bontà dei propri obiettivi le popolazioni. Insomma assumere la costruzione europea come cornice e come mezzo significa per le sinistre antisistemiche anche difendere le dimensioni positive dell’“ordine” europeo; significa non una scelta tattica ma di fondo, strategica e culturale. Questo bisogna saperlo, se vogliamo una discussione utile.

Scarica il documento in formato .rtf

Luigi Vinci
Milano, 23 luglio 2003