Uno dei protagonisti dell'affare Telekom-Serbia

Milosevic, beniamino dell'Occidente

Nel 1996-1997 l'ex presidente jugoslavo era il principale interlocutore per la pace in Bosnia

La destra al governo, scartata l'ipotesi di cavalcare le «verità» del faccendiere Marini, tuona politicamente: «Con l'operazione Telekom-Serbia del giugno 1997 il governo centrosinistra ha appoggiato il criminale di guerra Milosevic».

Stanno davvero così le cose? Siamo all'inizio dell'estate del 1997, dagli accordi di Dayton del dicembre 1995 è passato solo un anno e mezzo, ma la pace resta tutta sulla carta. La Bosnia è di fatto spartita in tre, un regalo alle mafie nazionaliste che hanno voluto la guerra, ma le mire etniche non sembrano sopite, anzi. Il leader croato Tudjman appoggia ancora l'entità croata in Erzegovina in aperta sfida al presidente musulmano Izetbegovic e alla «Federazione» voluta da Clinton; un pericolo grave viene dai serbi di Bosnia che di fatto, pur avendo ottenuto la loro Entità, si ritrovano divisi tra Pale e Banja Luka e senza più l'insediamento civile e storico a Sarajevo.
Per far marciare davvero Dayton a quel punto è decisivo escludere dalla leadership serbobosniaca il leader militare Ratko Mladic e quello politico, Radovan Karadzic, entrambi nel frattempo ricercati dal tribunale dell'Aja. Siamo agli inizi del 1996 e Milosevic diventa - già lo era stato per la firma di Dayton - il beniamino dell'Occidente: detronizza Karadzic favorendogli l'odiata Biljana Plavsic - già nemica di Dayton, ora in carcere all'Aja e accusatrice di Milosevic- e sostiene l'ala democratica dello schieramento nazionalista guidata da Milorad Dodik.
Diventa a tal punto «beniamino» dell'Occidente che l'artefice degli accordi di pace Richard Holbrooke nelle sue memorie ricorda come lui, l'allora segretario di Stato Usa Madeleine Albright e il presidente Clinton s'interrogano in quel periodo su «come ringraziarlo». E infatti la Albright lo ringraziò pubblicamente più volte: in un vertice europeo nell'autunno del 1996, nel maggio del 1997 con un visita ufficiale di tre giorni a Belgrado (Milosevic è diventato presidente federale) - lo stesso farà Holbrooke ad agosto - e ancora più concretamente nel settembre-ottobre 1997 quando si svolgono le prime elezioni del dopoguerra in Bosnia.
Per un mese i risultati effettivi vengono taciuti per la loro gravità: a vincerle infatti sono i partiti nazionalisti che hanno insanguinato il paese e nella Repubblica serba di Bosnia il partito di Karadzic e i Radicali ultranazionalisti di Seselj.
La Albright invoca l'intervento dell'Osce che arriva a «ricontare» i voti e ad assegnare la vittoria all'ala democratica dei nazionalisti. Intanto tutte le realtà economiche dell'Europa e del mondo hanno ricominciato a fare affari con Belgrado: infatti le sanzioni, per l'appoggio della mini-Jugoslavia ai serbi di Bosnia sono state tolte dall'Onu il 1 ottobre 1996. C'è ancora un'accusa da considerare: che i miliardi della Stet fossero arrivati a dare ossigeno al regime di Milosevic alle prese in patria con il movimento di massa, Zajedno (Insieme) che in parte chiedeva «democrazia».
Ma quel movimento era anch'esso nazionalista, non solo perché i dimostranti invitavano i poliziotti ad andare in Kosovo a menar le mani anziché reprimere loro, ma soprattutto perché tra le componenti si ritrovavano proprio i nazionalisti serbobosniaci contrari a Dayton o i leader di Belgrado più filooccidentali che, come l'ex presidente Zoran Djindjic - ucciso nel marzo scorso - per avere il consenso delle aree anti-Milosevic ancora facevano campagna elettorale per il partito di Karadzic in Bosnia.
La nuova crisi del Kosovo, che porterà alla guerra Nato a tutti i costi, comincerà solo nel 1998.

Tommaso Di Francesco
Roma, 2 settembre 2003
da "Il Manifesto"