La situazione in Palestina

Le vere ragioni delle dimissioni di Abu Mazen

Abu Mazen in realtà è stato costretto alle dimissioni non dall´ostacolo rappresentato da Arafat, ma dal fatto che tutti i bei discorsi fatti ad Aqaba, gli impegni presi da Sharon, Bush, Solana e dall´Onu si sono rivelati vuoti.

La maggior parte dei giornali e la totalità delle TV hanno presentato l'ultima crisi palestinese, e in particolare le dimissioni di Abu Mazen, come il frutto delle "indebite ingerenze" di Arafat. Anche gli organi legati al centrosinistra hanno ricalcato questa impostazione, dato che Prodi e Joskha Fischer hanno contribuito ad aggravare la crisi accettando la richiesta statunitense di collocare Hamas tra le organizzazioni terroriste, e chiudendo gli occhi di fronte alla nuove azioni terroriste di Israele a Gaza.

Abu Mazen: non ha bevuto il calice avvelenato

Nelle ultime settimane la situazione in Palestina, come in tutto il Medioriente, sembra seguire due strade parallele. Dopo l´attentato a Gerusalemme del 19 agosto scorso, risposta al non rispetto assoluto della tregua da parte israeliana che nelle settimane della Hudna (tregua) ha proseguito senza disturbo alcuno sia gli assassinii "selettivi" (con decine di feriti tra i civili, e una decina di morti sempre fra coloro che si trovavano nel momento sbagliato e nel posto sbagliato), sia la costruzione del muro di "sicurezza", con relative confische di decine di ettari di terra palestinese; la crisi in Israele si è aggravata. Se in campo palestinese la crisi politica è molto grave, con lo scontro tra Mahmud Abbas (Abu Mazen) e Yasser Arafat, in Israele chi pensa che tutto fili liscio è un illuso.

Tutto questo mentre la situazione in Iraq è impantanata fino a costringere George W. Bush a chiedere "aiuto" a quell´Onu che poche settimane, fa grazie al fatto che le truppe d´occupazione non ritenevano necessario proteggere le sue sedi, proprio a Bagdad ha perso il suo inviato speciale Sergio Veira de Mello. Tenere a bada l´Iraq dopo che la guida spirituale degli sciiti iracheni, l´ Ayatollah Al-Hakimi, è rimasto vittima di un attentato che ha provocato altri 87 morti nella città santa di Al-Najaf, è sempre più difficile e costoso.

Il copione in qualche modo si ripete: visto il fallimento della guerra contro il popolo iracheno, visto che l´occupazione dell´Iraq non è una passeggiata e che i "liberatori" sono bersagliati da attentati quotidiani da azioni di guerriglia; il "mondo libero e liberatore" spera di poter almeno segnare un punto a suo favore in Palestina.

Lo dicemmo all´epoca dell´elezione di Abu Mazen a primo ministro palestinese: anche se la sua elezione è stata sicuramente più gradita a Usa, Israele, Europa che ai palestinesi, dare per scontato che egli potesse essere un burattino completamente telecomandato da coloro che vogliono imporre la pax israeliana ai palestinesi è stato un grave errore di valutazione.

Certo Abu Mazen è uno degli esponenti più moderati e filo occidentale di Fatah e dell´Anp (Autorità Nazionale Palestinese). Fin dallo scoppio della seconda Intifada, settembre 2000, egli è stato colui che ha spinto di più verso la cosiddetta "smilitarizzazione dell´Intifada", ossia la rinuncia totale ad ogni forma di lotta armata contro l´esercito israeliano. Rimasto nell´ombra durante gli anni duri della lotta è riemerso perché la leadership arafatiana si è trovata non solo assediata e relegata nella Muqata (il quartier generale di Ramallah), ma anche perché dopo l´arresto di Marwan Barghouti e lo sgretolamento della resistenza dopo i massacri del 2002, iniziati a gennaio e culminati in aprile con l´assassinio di centinaia di persone a Jenin, la direzione politica dell´Intifada stava rapidamente andando a finire nelle mani di quei gruppi, Brigate dei martiri di Al Aqsa, Hamas e Al Jihad al Islami, che non hanno mai avuto intenzione di abbandonare la lotta armata. In altre parole anche ad Arafat, Abu Mazen, in definitiva, poteva risultare utile come primo ministro. Lo scontro tra il presidente dell´Anp e il primo ministro è stato aspro e aperto fin dalla nomina di Mohammed Dahalan a ministro degli interni. Un lungo braccio di ferro ha preceduto la sua nomina e il cedimento di Arafat che in Dahalan vede non solo un nemico personale, ma soprattutto colui che può "scavalcare a destra" lo stesso Abu Mazen, grazie all´autonomizzazione dei servizi di sicurezza.

Infatti mentre Dahalan annuncia di avere un piano per contrastare i "terroristi" dall´altro Abu Mazen, nel discorso del 5 settembre al Consiglio Legislativo Palestinese, annuncia la sua intenzione di voler continuare a "dialogare con l´opposizione" e di non volerla "affrontare militarmente". Lo stesso Mohammed Dahalan però non può far a meno, in un´intervista apparsa il 2 settembre sul Corriere della Sera, di ammettere: "Mi dica lei come possiamo combattere il terrorismo, se Israele continua ad ammazzare e a colpire anche gente innocente. Credono di estirpare la violenza? Da una parte si rafforza Hamas, dall´altra si indebolisce l´Anp. Il parente, il fratello, il cugino di ogni ferito non vedrà l´ora di vendicarsi".

Ora che Abu Mazen si è dimesso tutti i commenti sono unanimi nel sostenere che la sua decisione è il frutto della contrapposizione con Yasser Arafat. Certo lo scontro era in atto fin dall´accettazione della Road Map. Chi legge lo scontro Abu Mazen-Arafat solo come uno scontro di potere non vede un fatto di fondo: la vera posta in gioco non è solo il controllo di questo o quel settore dei servizi di sicurezza ma la credibilità complessiva della leadership palestinese. In questo senso, come nel luglio 2000, Arafat ha avuto il fiuto di rimettersi in sintonia con la popolazione stremata. Per di più non solo la Road Map è nata morta per il fatto che Israele in realtà non la ha accettata, ma al suo interno tutti i veri nodi del conflitto restavano irrisolti. Il muro della vergogna, che non divide solo il territorio palestinese, ma circonda interi villaggi, non viene neanche menzionato. Le colonie vengono di fatto legalizzate dal momento che si ritengono "illegali" solo quelle costruite dopo il marzo 2001. L´aver fatto rilevare questi "dettagli" ha procurato per Arafat l´ennesimo marchio di "terrorista". Ma che altro poteva e doveva fare il presidente di un popolo che rischia la deportazione di massa e lo sterminio? Inoltre, e dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, lo stesso Abu Mazen per giungere alla tregua del 29 giugno non ha potuto che seguire la via del dialogo con le organizzazioni dell´opposizione. Se avesse scatenato puramente e semplicemente la repressione, che piace tanto anche a molti settori della sinistra europea, sarebbe arrivato alle dimissioni molto prima.

Abu Mazen in realtà è stato costretto alle dimissioni non dall´ostacolo rappresentato da Arafat, ma dal fatto che tutti i bei discorsi fatti ad Aqaba, gli impegni presi da Sharon, Bush, Solana e dall´Onu si sono rivelati vuoti. I soli, come di norma, a rispettare gli impegni dovevano essere i palestinesi. Certo lo scontro con Arafat ha fatto da sottofondo, ma sia il discorso tenuto al Consiglio legislativo palestinese che la stessa lettera di dimissioni, denunciano l´impossibilità di avere dei margini di manovra ragionevoli, non vogliamo dire equi.

Le dimissioni di Abu Mazen paradossalmente sono un problema più per il "Quartetto" che per Arafat.

L´ipocrisia dell´Europa

Mentre Abu Mazen si dimetteva e Israele compiva l´ennesimo atto di terrorismo di stato tentando di decapitare Hamas, a Riva del Garda Frattini, De Villepin, Prodi, Fisher, Strowe, non avevano molto da dire, ma molte iniquità da compiere. La decisione di inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, come richiesto insistentemente da Bush, viene seguita da dichiarazioni di un´ipocrisia senza eguali. Soprattutto Prodi si è distinto, telefonando ad Arafat per raccomandargli di non fare il cattivo... Molti ancora si illudono che l´Europa possa e voglia avere un ruolo "indipendente" e determinante perché si riprenda la via del dialogo. La cosa grave è che Prodi non ha chiamato Sharon per dirgli di non sparare missili in quartieri densamente popolati di Gaza City, di non confiscare terra che da generazioni è palestinese, ecc. Non abbiamo particolare simpatia per lo sceicco Ahmed Yasin, leader e fondatore di Hamas, ma sicuramente non è possibile accettare né il suo tentato omicidio né che un´organizzazione politica sia definita terrorista in base ai criteri dettati dall´imperialismo, sia esso statunitense, israeliano, italiano, tedesco o francese o britannico. Comunque Francia e Germania, che ciclicamente fanno finta di essere i "paladini dei deboli", su questa decisione non hanno battuto ciglio.

In questo senso la sinistra deve smettere di illudersi ed illudere: scambiare i desideri per la realtà non porta da nessuna parte.

La Road Map non è migliore perché nel quartetto c´è l´Europa. I soli europei su cui possono contare palestinesi ed israeliani sono coloro, e per fortuna siamo in tanti, che combattono Prodi e Frattini e non si fidano di Fisher e di De Villepin, perché l´imperialismo non ci piace anche se parla francese o tedesco. E´ovvio che un dialogo israelo-palestinese deve essere avviato, lo abbiamo ripetuto fino alla nausea, ma esso o è frutto di una presa di coscienza generale che Israele deve ritirarsi incondizionatamente da Gaza e Cisgiordania (tutte intere), deve smantellare tutte le colonie, liberare tutti i prigionieri politici, demolire il muro (non solo fermarne la costruzione), togliere tutti i check point, oppure non sarà dialogo, ma una tragica farsa costellata di morti e feriti assetati di vendetta.

Prima che sia troppo tardi i venditori di fumo e di illusioni pericolose traggano le conseguenze ascoltando chi in Israele combatte per la sopravvivenza in un paese civile e non barbaricamente arroccato su se stesso.

In questo senso il grido d´allarme lanciato da Michael Warshawski, israeliano antisionista dal 1968, ci sembra adeguato a sintetizzare da dove arriva il rischio reale per gli ebrei israeliani e non solo: "Quando Ariel Sharon invita gli ebrei di Francia a fare le valige e a scappare da un'Europa rimasta profondamente antisemita e potenzialmente genocida, tutto quel che ha da offrire loro è solo un grande bunker armato di enorme paranoia e di bombe nucleari. Il misto "paranoia/nucleare" rappresenta un pericolo mortale, non solo per i popoli arabi che circondano Israele, ma chiaramente per lo stesso popolo israeliano, specie nel momento in cui il concetto di guerra preventiva avvelena l'arena politica internazionale. Infatti - è non deve esservi il minimo dubbio - una forza nucleare israeliana, che i generali-ministri Sharon ed Eitan non escludono, decreterebbe a un certo punto la condanna a morte di una presenza ebraica nel Vicino Oriente e, verosimilmente, anche un'ondata antiebraica senza precedenti in tutto il mondo.
È una vera e propria scommessa di morte".

Cinzia Nachira (7-9-2003)

Cinzia Nachira
Roma, 7 settembre 2003
da "Bandiera Rossa News"