Accusata di terrorismo, parola magica, che alla fine significa semplicemente, che tutti quelli che non sono d’accordo con il nuovo ordine mondiale sono nemici senza diritti, Leyla Zana è in prigione dal 1994

8 marzo 2004: dove si parla di guerra e di pace, di Leyla Zana e di noi

“Credo che, quando riusciremo a considerare ogni persona che muore, senza alcuna differenza per etnia, religione, lingua, genere, razza, come una parte di noi stessi che perdiamo e quando trasformeremo questa percezione in un comportamento consapevole e quindi ad organizzarlo, si potrà realizzare la pace nel mondo e coloro che difendono la guerra saranno marginalizzati. Dobbiamo soltanto avere la volontà di dividere le nostre sofferenze per trovare insieme una soluzione. Credo che violenza e guerre non siano le soluzioni ai problemi che abbiamo di fronte”

Ultimo discorso in parlamento nel 1994 di Leyla Zana E' da nove anni che Silvana Barbieri, per conto dell’Associazione Culturale Punto Rosso, porta avanti la campagna per la scarcerazione di Leyla Zana. Una donna, come dice Silvana, di straordinaria qualità. Leyla è curda. Appartiene cioè a uno di quei popolo sfortunati ai quali le ragioni superiori degli equilibri internazionali ha negato un territorio, una lingua, una storia. Accadde nel Novecento. Il 1918 sancisce la resa incondizionata dell’Impero ottomano. Il trattato di Sèvres, del 10 agosto 1920, ridefinisce i nuovi confini della Turchia, crea la Repubblica di Armenia e riconosce il diritto al popolo curdo all’indipendenza. I curdi potranno, rivolgendosi alle Società delle Nazioni, chiedere l’indipendenza dalla Turchia. Se la SdN accetterà la Turchia si impegna a rinunciare a tutti i diritti sul territorio, il vilayet di Mossul, che sarà la base territoriale del Kurdistan. Firmano le 9 grandi potenze tra cui Impero britannico, Francia, Italia, Giappone. Ma a Losanna il 23 luglio del 1923 gli stessi firmatari cancellano il precedente trattato e cancellano ogni speranza di un Curdistan indipendente. (nella foto l'ultimo discorso di Leyla Zana nel parlamento turco nel 1994)
Cosa era successo? In quell’area già rilevante da un punto di vista strategico militare c’era e c’è il petrolio. Risorsa strategica per eccellenza. La Gran Bretagna era la maggiore azionista della Turkish Petrolium Company e i curdi “ fieri e indipendenti” erano certamente meno affidabili per le grandi potenze occidentali di Kemal Ataturk, abile stratega della nuova Turchia. Così un popolo che conta oggi circa 40 milioni di persone sarà smembrato entro cinque stati (Turchia, Siria, Iran, Irak più una comunità che vive in Armenia) creati sulla basi di equilibri decisi dall’imperialismo internazionale.
Mi scuso per questa breve riassunto di storia ma mi sembrava necessario ripassare gli eventi del passato visto che questo presente mi pare replicare, diabolicamente, gli stessi progetti, gli stessi interessi, le stesse precarietà, gli stessi rischi. Ne parlo perché è il primo 8 marzo in cui mi sento di vivere nelle retrovia di una guerra che non ho voluto e che non ho saputo prevenire. Impigliata voi e io come i curdi, come la stessa Leyla Zana, in progetti che trascendono le decisioni delle persone e addirittura dei popoli. Ma torniamo a Leyla Zana, condannata a 15 anni di carcere nel 1994, dopo essere stata arrestata insieme ad altri quattro parlamentari di origine curda. Aveva detto appena eletta in pieno parlamento turco, "Io lotto per la fraterna convivenza del popolo curdo e del popolo turco in un quadro democratico". Ma l’aveva detto in lingua curda. Una lingua proibita. Poi naturalmente l’accusano di terrorismo, parola magica, che alla fine significa semplicemente, che tutti quelli che non sono d’accordo con il nuovo ordine mondiale sono nemici senza diritti. Esposti alla televisione come animali, rinchiusi nelle molte Guantanamo che sognano a Washington e dintorni. Così infondata l’accusa che nel 1996 viene insignita dal parlamento Europeo col premio Sakarav e così improprio il processo che il 17 luglio del 2001 la stessa Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ne sancisce l’illegittimità e la sua immediata revisione. Ma il processo che si sta rifacendo e che è ormai alla dodicesima udienza sembra procedere con le stesse identiche modalità di allora. Dal che si deduce che soltanto i più forti hanno diritto a una identità gli altri si devono rassegnare all’assimilazione o, comunque, a sparire.

L'arresto di Leyla Zana nel 1994 Leyla Zana è una donna che chiede il diritto di vivere libera tra la sua gente, con pari diritti tra curdi e turchi. (nella foto l'arresto di Leyla Zana nel 1994)
Ma ormai la guerra è una forma della politica, e ce ne sono ovunque più o meno dissimulate, più o meno note, più o meno dispiegate, ad alta o a bassa intensità. E allora vorrei dedicare questo 8 marzo a quei milioni di donne straordinarie impegnate in un lavoro tremendo che non conosce gloria. Perché, da che mondo è mondo, gli uomini hanno fatto la guerra e le donne, con una tenacia inspiegabile, hanno tenuto in piedi la vita. Hanno fatto figli sotto le bombe, hanno continuato a spazzare le case crivellate dalle mitragliatrici, sono morte sotto i colpi dei cecchini per comprare qualcosa da mangiare. Costrette persino a mettere al mondo il figlio del nemico, violate sempre e ovunque, da una parte e dall’altra di tutte le barricate. Sbandierate come bandiere da chi vuole toglierci il velo o da chi ce lo vuole mettere. Che poi si chiami chador, o la taglia 42 che ci vorrebbero imporre i diktat della moda poco importa. Mi pare che non siamo mai noi a decidere se ci piacciamo grasse o magre, sempre giovani o sempre mamme ma che troppo spesso inseguiamo i sogni ingordi, le ossessioni, le visioni di un qualche maschio amato. Perché noi donne, almeno in questo occidente dove sono nata, siamo purtroppo quasi sempre complici ossequiose del fascino dell’eroe. Qualcosa ci frega sempre noi donne: sogno d’amore, paura o chissà. Anche oggi, dopo anni di femminismo, l’unico riconoscimento che sembra conti davvero per molte di noi è lo sguardo, l’approvazione, il riconoscimento di un uomo. Una sorta di maledizione chimica e di condizionamento culturale ci condanna al legame affettivo. Noi donne invece di strizzare dalla nostra biologia la saggezza della vita quotidiana ci siamo fatte imbrigliare da quella sorta di erotismo che ci lega alla vita. Oggi poi che dicono che il patriarcato è morto e le donne sono nei parlamenti e nella università, sempre come infima minoranza naturalmente, ci hanno convinto che il massimo dell’uguaglianza è indossare la divisa e andare a fare la guerra. Possiamo morire travestite da Terminator oppure con una bomba allacciata alla cintura. Adesso siamo davvero come gli uomini. Possiamo anche noi essere eroi. E allora mi è venuto da riflettere su un paradosso. E se decidessimo tutte noi di dedicarci al successo, alla guerra, al potere chi farebbe i figli, chi spazzerebbe la casa, che lavorerebbe per tenere al mondo il mondo? Non che mi piacerebbe essere la mamma italica tutta casa e famiglia, io non ho neanche fatto figli nel terrore di quella servitù volontaria in cui era rinchiusa mia madre. Ma non ho seguito la mia strada, sedotta dal mito dell’eroe, mi sono innamorata di eroi e ho cercato di essere eroica. Non rinnego la mia vita ma neanche ne vado fiera. Mi giustifico pensando che le cose si capiscono facendole. E mi pare di aver capito che gli eroi sono i nostri nemici e poco m’importa di quale etnia siano e neanche se sono donne. Condoleeza Rice, nera cattolica e potente, è, in fondo, solo una donna sedotta dalla monomania del potere. Ossessionata dunque dai nemici, dal diverso, dall’altro.

Leyla Zana Scrive dal carcere Leyla Zana in una lettera indirizzata al Presidente del Parlamento Europeo che la invitava a Bruxelles alla assegnazione del Premio Sakariov per il 2003, "Credo che, quando riusciremo a considerare ogni persona che muore, senza alcuna differenza per etnia, religione, lingua, genere, razza, come una parte di noi stessi che perdiamo e quando trasformeremo questa percezione in un comportamento consapevole e quindi ad organizzarlo, si potrà realizzare la pace nel mondo e coloro che difendono la guerra saranno marginalizzati. Dobbiamo soltanto avere la volontà di dividere le nostre sofferenze per trovare insieme una soluzione. Credo che violenza e guerre non siano le soluzioni ai problemi che abbiamo di fronte".(nella foto Leyla Zana in carcere)
E io mi permetto di aggiungere che la diversità è bella, che mi piace il suono di lingue diverse anche se non le capisco, amo le architetture che mi sono estranee, le filosofie che mi sorprendono e le etnie diverse dalla mia. E mi piace viaggiare per incontrare lo straniero, per esporre a rischio di catastrofe e di invenzione i miei modelli e il mio modo di pensare. Mi piacerebbe parlare di soglia invece che di confini, e detesto ogni modello omologante perché solo nella diversità c’è vita. Per me etnia vuol dire popolo, genti, persone, vuol dire uomini e donne fatte di carne e sangue, nati tutti da un corpo di donna simile al mio. Donne capaci di comprendere, per destino biologico, ma alla fine anche per raggiunta consapevolezza, la diversità. Di metterla al mondo e di lasciarla andare. E non importa se si tratta di figli o di opere. Come quelle bellissime donne che erano al Forum Sociale Mondiale di Mumbay. Chi c’è stato ha raccontato che era soprattutto un luogo di donne e di bambini. Di donne coraggiose che non temono il conflitto ma che aborrono la guerra, determinate a far crescere figlie e figli coraggiosi, autonomi e giusti. A difendere i loro diritti e la terra, non solo la loro ma quella di tutti. Puntiamo su di loro e su di noi. Credo che la loro grande forza sia propria quella di mettere in discussione concetti che nascondono dentro di sé micce detonanti come identità, appartenenza, etnia e persino cittadinanza. Perché presuppongono sempre un meccanismo di inclusione e esclusione, chi è dei nostri e chi non lo è. Incominciamo da noi, da noi donne, spogliandoci da ideologie che non abbiamo pensato con la nostra pancia, con questa carne irriducibile che è un corpo di donna. Ripensiamo i pensieri, i concetti e le parole. Cosicché almeno la parola pace non sia un velo per nascondere nuove guerre.

Rosella Simone
Milano, 8 marzo 2004
da "Punto Rosso"