E' da nove anni che Silvana Barbieri, per conto dell’Associazione Culturale
Punto Rosso, porta avanti la campagna per la scarcerazione di Leyla Zana.
Una donna, come dice Silvana, di straordinaria qualità. Leyla è curda. Appartiene
cioè a uno di quei popolo sfortunati ai quali le ragioni superiori degli equilibri
internazionali ha negato un territorio, una lingua, una storia. Accadde nel
Novecento. Il 1918 sancisce la resa incondizionata dell’Impero ottomano. Il
trattato di Sèvres, del 10 agosto 1920, ridefinisce i nuovi confini della
Turchia, crea la Repubblica di Armenia e riconosce il diritto al popolo curdo
all’indipendenza. I curdi potranno, rivolgendosi alle Società delle Nazioni,
chiedere l’indipendenza dalla Turchia. Se la SdN accetterà la Turchia si impegna
a rinunciare a tutti i diritti sul territorio, il vilayet di Mossul, che sarà
la base territoriale del Kurdistan. Firmano le 9 grandi potenze tra cui Impero
britannico, Francia, Italia, Giappone. Ma a Losanna il 23 luglio del 1923
gli stessi firmatari cancellano il precedente trattato e cancellano ogni speranza
di un Curdistan indipendente. (nella foto l'ultimo discorso di Leyla Zana
nel parlamento turco nel 1994)
Cosa era successo? In quell’area già rilevante da un punto di vista strategico
militare c’era e c’è il petrolio. Risorsa strategica per eccellenza. La Gran
Bretagna era la maggiore azionista della Turkish Petrolium Company e i curdi
“ fieri e indipendenti” erano certamente meno affidabili per le grandi potenze
occidentali di Kemal Ataturk, abile stratega della nuova Turchia. Così un
popolo che conta oggi circa 40 milioni di persone sarà smembrato entro cinque
stati (Turchia, Siria, Iran, Irak più una comunità che vive in Armenia) creati
sulla basi di equilibri decisi dall’imperialismo internazionale.
Mi scuso per questa breve riassunto di storia ma mi sembrava necessario ripassare
gli eventi del passato visto che questo presente mi pare replicare, diabolicamente,
gli stessi progetti, gli stessi interessi, le stesse precarietà, gli stessi
rischi. Ne parlo perché è il primo 8 marzo in cui mi sento di vivere nelle
retrovia di una guerra che non ho voluto e che non ho saputo prevenire. Impigliata
voi e io come i curdi, come la stessa Leyla Zana, in progetti che trascendono
le decisioni delle persone e addirittura dei popoli. Ma torniamo a Leyla Zana,
condannata a 15 anni di carcere nel 1994, dopo essere stata arrestata insieme
ad altri quattro parlamentari di origine curda. Aveva detto appena eletta
in pieno parlamento turco, "Io lotto per la fraterna convivenza del popolo
curdo e del popolo turco in un quadro democratico". Ma l’aveva detto in lingua
curda. Una lingua proibita. Poi naturalmente l’accusano di terrorismo, parola
magica, che alla fine significa semplicemente, che tutti quelli che non sono
d’accordo con il nuovo ordine mondiale sono nemici senza diritti. Esposti
alla televisione come animali, rinchiusi nelle molte Guantanamo che sognano
a Washington e dintorni. Così infondata l’accusa che nel 1996 viene insignita
dal parlamento Europeo col premio Sakarav e così improprio il processo che
il 17 luglio del 2001 la stessa Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo
ne sancisce l’illegittimità e la sua immediata revisione. Ma il processo che
si sta rifacendo e che è ormai alla dodicesima udienza sembra procedere con
le stesse identiche modalità di allora. Dal che si deduce che soltanto i più
forti hanno diritto a una identità gli altri si devono rassegnare all’assimilazione
o, comunque, a sparire.
Leyla Zana è una donna che chiede il diritto di vivere libera tra la sua gente,
con pari diritti tra curdi e turchi. (nella foto l'arresto di Leyla Zana
nel 1994)
Ma ormai la guerra è una forma della
politica, e ce ne sono ovunque più o meno dissimulate, più o meno note, più
o meno dispiegate, ad alta o a bassa intensità. E allora vorrei dedicare questo
8 marzo a quei milioni di donne straordinarie impegnate in un lavoro tremendo
che non conosce gloria. Perché, da che mondo è mondo, gli uomini hanno fatto
la guerra e le donne, con una tenacia inspiegabile, hanno tenuto in piedi
la vita. Hanno fatto figli sotto le bombe, hanno continuato a spazzare le
case crivellate dalle mitragliatrici, sono morte sotto i colpi dei cecchini
per comprare qualcosa da mangiare. Costrette persino a mettere al mondo il
figlio del nemico, violate sempre e ovunque, da una parte e dall’altra di
tutte le barricate. Sbandierate come bandiere da chi vuole toglierci il velo
o da chi ce lo vuole mettere. Che poi si chiami chador, o la taglia 42 che
ci vorrebbero imporre i diktat della moda poco importa. Mi pare che non siamo
mai noi a decidere se ci piacciamo grasse o magre, sempre giovani o sempre
mamme ma che troppo spesso inseguiamo i sogni ingordi, le ossessioni, le visioni
di un qualche maschio amato. Perché noi donne, almeno in questo occidente
dove sono nata, siamo purtroppo quasi sempre complici ossequiose del fascino
dell’eroe. Qualcosa ci frega sempre noi donne: sogno d’amore, paura o chissà.
Anche oggi, dopo anni di femminismo, l’unico riconoscimento che sembra conti
davvero per molte di noi è lo sguardo, l’approvazione, il riconoscimento di
un uomo. Una sorta di maledizione chimica e di condizionamento culturale ci
condanna al legame affettivo. Noi donne invece di strizzare dalla nostra biologia
la saggezza della vita quotidiana ci siamo fatte imbrigliare da quella sorta
di erotismo che ci lega alla vita. Oggi poi che dicono che il patriarcato
è morto e le donne sono nei parlamenti e nella università, sempre come infima
minoranza naturalmente, ci hanno convinto che il massimo dell’uguaglianza
è indossare la divisa e andare a fare la guerra. Possiamo morire travestite
da Terminator oppure con una bomba allacciata alla cintura. Adesso siamo davvero
come gli uomini. Possiamo anche noi essere eroi. E allora mi è venuto da riflettere
su un paradosso. E se decidessimo tutte noi di dedicarci al successo, alla
guerra, al potere chi farebbe i figli, chi spazzerebbe la casa, che lavorerebbe
per tenere al mondo il mondo? Non che mi piacerebbe essere la mamma italica
tutta casa e famiglia, io non ho neanche fatto figli nel terrore di quella
servitù volontaria in cui era rinchiusa mia madre. Ma non ho seguito la mia
strada, sedotta dal mito dell’eroe, mi sono innamorata di eroi e ho cercato
di essere eroica. Non rinnego la mia vita ma neanche ne vado fiera. Mi giustifico
pensando che le cose si capiscono facendole. E mi pare di aver capito che
gli eroi sono i nostri nemici e poco m’importa di quale etnia siano e neanche
se sono donne. Condoleeza Rice, nera cattolica e potente, è, in fondo, solo
una donna sedotta dalla monomania del potere. Ossessionata dunque dai nemici,
dal diverso, dall’altro.
Scrive dal carcere Leyla Zana in una lettera indirizzata al Presidente del
Parlamento Europeo che la invitava a Bruxelles alla assegnazione del Premio
Sakariov per il 2003, "Credo che, quando riusciremo a considerare ogni persona
che muore, senza alcuna differenza per etnia, religione, lingua, genere, razza,
come una parte di noi stessi che perdiamo e quando trasformeremo questa percezione
in un comportamento consapevole e quindi ad organizzarlo, si potrà realizzare
la pace nel mondo e coloro che difendono la guerra saranno marginalizzati.
Dobbiamo soltanto avere la volontà di dividere le nostre sofferenze per trovare
insieme una soluzione. Credo che violenza e guerre non siano le soluzioni
ai problemi che abbiamo di fronte".(nella foto Leyla Zana
in carcere)
E io mi permetto di aggiungere che la
diversità è bella, che mi piace il suono di lingue diverse anche se non le
capisco, amo le architetture che mi sono estranee, le filosofie che mi sorprendono
e le etnie diverse dalla mia. E mi piace viaggiare per incontrare lo straniero,
per esporre a rischio di catastrofe e di invenzione i miei modelli e il mio
modo di pensare. Mi piacerebbe parlare di soglia invece che di confini, e
detesto ogni modello omologante perché solo nella diversità c’è vita. Per
me etnia vuol dire popolo, genti, persone, vuol dire uomini e donne fatte
di carne e sangue, nati tutti da un corpo di donna simile al mio. Donne capaci
di comprendere, per destino biologico, ma alla fine anche per raggiunta consapevolezza,
la diversità. Di metterla al mondo e di lasciarla andare. E non importa se
si tratta di figli o di opere. Come quelle bellissime donne che erano al Forum
Sociale Mondiale di Mumbay. Chi c’è stato ha raccontato che era soprattutto
un luogo di donne e di bambini. Di donne coraggiose che non temono il conflitto
ma che aborrono la guerra, determinate a far crescere figlie e figli coraggiosi,
autonomi e giusti. A difendere i loro diritti e la terra, non solo la loro
ma quella di tutti. Puntiamo su di loro e su di noi. Credo che la loro grande
forza sia propria quella di mettere in discussione concetti che nascondono
dentro di sé micce detonanti come identità, appartenenza, etnia e persino
cittadinanza. Perché presuppongono sempre un meccanismo di inclusione e esclusione,
chi è dei nostri e chi non lo è. Incominciamo da noi, da noi donne, spogliandoci
da ideologie che non abbiamo pensato con la nostra pancia, con questa carne
irriducibile che è un corpo di donna. Ripensiamo i pensieri, i concetti e
le parole. Cosicché almeno la parola pace non sia un velo per nascondere nuove
guerre.