Presidenziali USA

Altro che democrazia, il «golden share» penalizzerà Kerry

Un sistema elettorale difettoso anche nei meccanismi

Kerry ha vinto le primarie, ha sfruttato al meglio la convention di Boston, ma può vincere le elezioni in novembre? Per rispondere a questa domanda, occorre guardare non ai sondaggi ma al meccanismo del collegio elettorale, che cumula vari difetti: è un'elezione di secondo grado, distorce la rappresentanza a favore degli stati piccoli e rurali, permette la vittoria di un candidato che ha ottenuto meno voti del suo avversario. Tutti fattori che, oggi, giocano contro i democratici e a favore dei repubblicani. Il fatto che sia un'elezione di secondo grado ha permesso, nel 2000, la vittoria del candidato che aveva ottenuto 539.898 voti popolari meno del suo avversario: George W. Bush. Come vengono trasformati i voti popolari in voti del collegio elettorale è il secondo problema: oggi le regole in vigore distorcono la rappresentanza a favore degli stati piccoli e rurali, cioè quelli che tendono a votare repubblicano. Gli Stati Uniti hanno 3.111 contee e nel 2000 George W. Bush prevalse in 2.434. Al Gore ottenne una maggioranza di voti in 677 contee; ottenne più voti popolari, ma meno voti elettorali: 267 contro 271. Il meccanismo del collegio elettorale prevede che a eleggere il presidente sia una riunione di delegati ad hoc, eletti per l'occasione e ripartiti fra gli stati in questo modo: ogni stato ha diritto a un numero di delegati pari alla somma dei suoi senatori più i suoi deputati. Difficilmente, i padri fondatori della democrazia americana avrebbero però immaginato che il testo della Costituzione approvato nel settembre 1787 sarebbe durato oltre due secoli e che, 217 anni dopo, uno Stato con 35 milioni di abitanti (la California) sarebbe stato rappresentato da due senatori, esattamente come uno che non raggiunge il mezzo milione (Wyoming). Circa 25 milioni di abitanti sparsi tra l'Alaska e il Golfo del Messico eleggono ben 61 grandi elettori, 7 di più dei 54 delegati della California, che conta 35 milioni di abitanti, 18 di più di New York e Massachusetts, che insieme hanno ugualmente 25 milioni di abitanti circa.

Ora, esaminiamo due soli stati con una popolazione simile, nei quali ha prevalso Gore. Facciamo un confronto tra i voti effettivamente raccolti nel 2000: gli stati di New York e Massachusetts hanno dato circa 5,7 milioni di voti a Gore, che si sono trasformati in 45 voti elettorali nel 2000, oggi sarebbero 43. Gli stati Alaska, Arizona, Colorado, Idaho, Kansas, Montana, Nebraska, North Dakota, South Dakota, Oklahoma, Utah e Wyoming, insieme, hanno dato 5,2 milioni di voti di Bush , che si sono trasformati in 59 voti elettorali, oggi sarebbero 61 a causa dell'ultimo censimento, che ha ripartito il numero dei rappresentanti in modo da tener conto degli spostamenti di popolazione. Quindi, quest'anno, i circa cinque milioni di elettori repubblicani degli stati che abbiamo elencato schiereranno 61 grandi elettori dietro George Bush, mentre circa cinque milioni e mezzo di elettori democratici potranno fornire a Kerry soltanto 43 grandi elettori, ben 18 di meno. La debolezza dei democratici nasce dagli spostamenti demografici verso il Sud, ormai una solida roccaforte repubblicana (con l'eccezione della Florida, tenuta in bilico dall'afflusso di pensionati provenienti dai freddi stati del nord). Nelle prossime elezioni, i 153 voti del Sud rappresenteranno oltre il triplo dei voti di New York e Massachusetts insieme.

Questo aiuta a comprendere anche il motivo per cui l'ultimo presidente democratico proveniente dal Massachusetts sia stato John Kennedy (1960) e l'ultimo originario di New York sia stato Franklin Roosevelt (1932-1944). Candidando Kerry, il partito sembra aver dimenticato che nelle ultime sette elezioni presidenziali, i candidati democratici sono stati Gore (Tennessee), Clinton (Arkansas), Dukakis (Massachusetts), Mondale (Minnesota), Carter (Georgia). Solo i sudisti Clinton e Carter hanno vinto, mentre Mondale (1984) e Dukakis (1988) subirono sconfitte senza appello. Insieme, i due blocchi di stati del Sud e dell'Ovest che ormai votano regolarmente repubblicano controllano 214 voti elettorali, il che significa che bastano altri 57 voti, da raggranellare negli stati del midwest o della costa atlantica, per entrare alla Casa Bianca. Se aggiungiamo i 12 voti elettorali dell'Indiana e gli 11 di Kansas e Nebraska (che non hanno più votato per un candidato democratico dopo Lyndon Johnson) si arriva a 237 voti «sicuri» per il candidato repubblicano, chiunque esso sia. I repubblicani dispongono quindi dell'88% dei voti che servono per eleggere il Presidente, più o meno in qualunque circostanza, chiunque sia il loro candidato e qualunque sia l'orientamento maggioritario dell'opinione pubblica. Kerry può inchiodarli lì e vincere, ma è una possibilità su cui non mi sentirei di puntare troppi dollari. Politicamente, gli Stati Uniti sono un paese diviso in quattro parti all'incirca uguali: due parti non prendono parte al processo elettorale, mentre le due che partecipano riversano i loro suffragi una sui democratici e una sui repubblicani. Questi ultimi, grazie alla distorsione nella rappresentanza, godono oggi di una specie di golden share che trasforma il loro 25% nel 100% del potere. Per la prima volta, in questi giorni, un sondaggio del Pew Center dice che i democratici sono in parità con i repubblicani come partito in grado di «gestire meglio la politica estera», ma sarà sufficiente? Le elezioni del novembre prossimo si svolgeranno comunque all'ombra delle immagini delle Twin Towers avvolte dal fumo e dalle fiamme, che i repubblicani trasmettono incessantemente nei loro messaggi elettorali. A loro, basta convincere poche migliaia di elettori incerti, in stati come l'Ohio, la Florida o il New Mexico, per riportare alla Casa Bianca il peggior Presidente che gli Stati Uniti abbiano mai avuto.

Fabrizio Tonello
Roma, 5 agosto 2004
da "Il Manifesto"